Praticamente e psicologicamente è un’esperienza rischiosa e incerta. Ce l’ha spiegato José Nivoi, portuale e sindacalista, attivista del Calp e membro dell’equipaggio salpato da Genova e diretto in Palestina.
C’è una domanda che abbiamo verbalizzato in modo sempre più aperto negli ultimi anni: ma le democrazie hanno ancora un futuro? Non è solo il genocidio di Gaza, è anche il collasso etnonazionalista degli Stati Uniti in cui ogni grande città è terreno di caccia al lavoratore straniero, è l’ascesa iper funzionale dell’autocrazia cinese, è il disincanto con cui osserviamo le istituzioni che ci hanno cresciuto fallire una dopo l’altra, l’Unione Europea impotente come un ufficio anagrafe durante un giorno festivo, l’Onu umiliata ogni settimana. Questa domanda ne contiene un’altra, ancora più viscerale e inquieta: ma a qualcuno importa ancora se le democrazie hanno un futuro? La Global Sumud Flotilla una risposta ce l’ha offerta: importa, certo che importa.
Il genocidio, per Gaza e la Palestina, è ancora morte, distruzione, dolore inenarrabile e inguaribile. Lo stesso genocidio, per l’Occidente, è stato un veleno somministrato ogni giorno, per due anni, violenza e vergogna trasmesse su ogni schermo, ogni giorno, dalla mattina alla sera, un senso di impotenza collettiva paralizzante. La Global Sumud Flotilla questo ci ha dato: non solo centinaia di esseri umani di cui essere per una volta orgogliosi, ma anche strumenti estremamente pratici di partecipazione pubblica per divincolarci collettivamente da questa vergogna.
È stato un moto collettivo quasi primordiale, spontaneo, che nessuno avrebbe potuto programmare dall’alto. Nella sua newsletter Appunti, Stefano Feltri ha scritto che la disobbedienza civile è la forma di politica più primitiva e potente che ci sia. Durante il primo sciopero generale, così come nelle proteste e nei blocchi dopo l’abbordaggio della Flotilla, uno dei pensieri che mi è capitato di fare più spesso è stato: eccoci. Ecco dove eravamo finiti, solo in attesa di poter usare un potere politico in modo primitivo.
Insieme al tracker della Global Sumud Flotilla, avremmo potuto averne uno anche per le reazioni stizzite del governo italiano a tutto questo, sempre più in crisi di nervi mentre le navi si avvicinavano a Gaza. Un carotaggio interessante dello scollamento. Meloni governa dall’autunno del 2022 e un momento così non lo aveva mai vissuto. È una verità universale delle nostre società: quanto è facile intossicarsi col consenso. È questo il senso della retorica di questi giorni del «weekend lungo» come vera ragione dello sciopero e della «crociera degli attivisti», la derisione sempre meno convinta e più barocca, il cinismo un po’ miserevole di tante cose scritte e dette, l’accumulo di riflessi condizionati sempre più performativi. È non aver capito che effetto sta avendo Gaza sulla psiche dell’Europa. In questi due anni la scorta mediatica e politica al genocidio è diventata una specie di cartellino timbrato ogni giorno, a orari regolari, prescindere dagli eventi, una specie di sfida cognitiva, uno spettacolo circense, un modo per dire non esisterà enormità abbastanza enorme da farmi cambiare idea. E mi sono spesso chiesto: ma esiste un limite?
Me lo sono chiesto ogni giorno per due anni, e poi il limite è arrivato. Quanto era che non si vedeva un’idea così efficace, così capace di mobilitare? Forse dagli scioperi per il clima di sei anni fa. Questo movimento ha dato un ruolo a ognuno di noi rimasti a terra a guardare e seguire. Mentre guardavamo abbiamo smesso di guardare e basta. La democrazia torna viva quando offre la sensazione di poter incidere, anche su storie molto più grandi di un individuo, di un movimento, di una piazza, di una città, di una barca o di una flotta di barche. All’improvviso ci siamo ricordati che si può incidere sul reale anche oltre le distanze più invalicabili. Noi saremmo stati impotenti senza la flotta, la flotta sarebbe stata inutile senza gli scioperi di terra.
Abbiamo risposto così emotivamente a questa impresa perché era l’infografica di se stessa, simbolo e sostanza, il tracker copriva la distanza tra la Sicilia o la Tunisia e Gaza ma anche tra noi e l’impossibile. La democrazia è anche questo: pratica continua del senso di possibilità. Estensione del senso di possibilità. E chi dice che non è servito a niente, che non hanno consegnato niente, che non hanno avuto senso pratico, che bastava dare i pacchi al governo o al Patriarcato di Gerusalemme, dimostra proprio di non aver capito come funzionano le democrazie. Oggi, con il secondo sciopero generale in due settimane, è un’altra giornata in cui glielo potremo ricordare: la democrazia non è solo manutenzione dell’esistente. Nelle sue giornate migliori, la democrazia è il rovesciamento dell’esistente.
La priorità ora è tenere acceso il faro su Gaza, saranno settimane delicatissime, con un possibile accordo di pace proposto e amministrato dagli umani peggiori che abbiamo sulla Terra, una pace che a un certo punto ci sarà e andrà governata e protetta da predazioni e violenze. Le democrazie, nel senso di «le istituzioni», hanno dimostrato di non essere in grado di vigilare, o di non meritarsi fiducia per la loro integrità nel farlo, ma le democrazie nel senso di «i popoli» stanno invece guadagnando sul campo l’esserci in questo processo, il potersi prendere questa responsabilità. Anni di allarme sul populismo avevano creato una diffidenza nei confronti dei popoli e delle loro idee politiche. E invece i popoli, dopo tutto, esistono, e hanno un senso della giustizia e della storia che può curare le malattie delle istituzioni.
La Global Sumud Flotilla ha mostrato a Gaza, al mondo e a noi che non tutto è marcio nella nostra società, che quel potere esiste, e aveva solo bisogno di essere convocato, di sentirsi utile. Ricordiamocene, perché quel potere è esistito anche nei lunghi anni in cui sembrava svanito. Ed esisterà ancora. E ci servirà ancora. Non solo per Gaza. A un certo punto questa forza spesa per difendere un popolo da un genocidio potrà essere usata anche altrove, per esempio per difendere noi stessi. Lo hanno detto come provocazione diversi membri di maggioranza e governo, «perché non vi occupate degli stipendi degli italiani?», e in fondo potrebbe essere un buon piano, per il dopo.
Infine, abbiamo risposto emotivamente a quelle navi anche perché c’era una verità profonda nel loro essere disarmati e coraggiosi in viaggio verso il luogo più pericoloso del pianeta, il singolo posto dove i diritti umani sono più offesi e desertificati. Gli hanno rimproverato, anche in modo e con tono paternalista, di essersi messi in pericolo inutilmente. È pedante ricordarlo, ma tutto quello che ci fa sentire sicuri nella nostra società esiste perché qualcuno, a un certo punto della storia, ha deliberatamente scelto di sentirsi insicuro. Scrivo di giovedì sera, senza sapere la sorte precisa delle centinaia di persone sequestrate dalle navi, ma una cosa è certa: abbiamo con loro un debito di gratitudine gigantesco, averci ricordato che le democrazie non sono solo file composte per mettere un foglio dentro un’urna, che invece le democrazie possono (e devono) essere anche incoscienti, idealiste, sconsiderate. Nello scadimento democratico degli ultimi anni l’Europa sentiva tutta la vecchiaia delle sue classi dirigenti, invece grazie a quelle navi spagnole, italiane, greche, ha sentito per una volta di avere di nuovo il futuro dalla sua parte.