Intervista a Lorenzo Giusti, Direttore della GAMeC - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo.
Proprio in molti teorizzano la fine – o quanto meno il declino – dei social network, a settembre 2025 Instagram ha raggiunto l’incredibile traguardo di 3 miliardi di utenti. Una fine dunque non quantificabile, forse, ma più qualitativa, di senso. Cosa ne è restato del termine “social” e di quel payoff di Facebook che prometteva di farti rimanere in contatto con le persone della tua vita se ciò che vediamo nei nostri feed è sempre più scelto dall’algoritmo e non dalle nostre connessioni?
Che cosa resta del temine social se l’odio online è ormai pervasivo e quasi tutti provano a venderti – palesemente o meno – qualcosa? Un qualcosa sempre più vicino a quello che vorremmo diventare, che ci promette di farci avvicinare alla migliore immagine di noi e che ci divide tra la tentazione di svoltare e dare forma a un “Io” del futuro finalmente bellissimo e di successo, e un misto tra paura del fallimento nel provarci e senso di colpa per essere così pigri e indecisi se farlo davvero.
È di questo che parla il nuovo saggio di Gianluca Diegoli, consulente di marketing ed esperto di linguaggi digitali. In Seguimi! Diegoli infatti esplora il tema dei cosiddetti brand di culto, che negli anni e proprio grazie ai social e al web sono cambiati moltissimo. Ne sono nati di nuovi e molto spesso con caratteristiche molto diverse rispetto a come definivamo “di culto” una marca o un prodotto. Dalle tre “religioni monoteistiche” di Apple, Nike e Levi’s degli anni Novanta, siamo arrivati alla polverizzazione in tanti mini culti che oggi raccontano a chi decide di sceglierli come sono nati, di come il founder abbia avuto un’illuminazione e un cambiamento quasi miracoloso, di come quello stesso cambiamento può capitare davvero a chi sceglie quel brand. Si parla di trasformazione quindi, di evoluzione e questo è anche perché oggi siamo definiti molto meno dai marchi e molto di più dalle cose che facciamo, dalle scelte che facciamo, dai nostri valori e dalle nostre convinzioni, dal nostro modo di esprimerci.
Tutto questo non può che passare dai social, luoghi dove passiamo – seppur virtualmente – la maggior parte del nostro tempo libero; dove condividiamo e dove vediamo ciò che gli altri condividono. Dove mostriamo come siamo quando stiamo bene, o quantomeno ci proviamo. In questo impasto di spettacolarizzazioni dell’Io, rosicamenti e finzioni, si insinuano nuovi bisogni, nuovi linguaggi e nuovi brand che mettono fortemente in discussione quel modo di prima con cui i grandi marchi chiedevano di essere “banalmente idolatrati”, agiograficamente definiti e vissuti attraverso payoff e call to action imperative, motivanti. Non è forse un caso se anche Nike è recentemente passata dal suo celebre “Just do it” al più interrogativo ed emotivo “What if you don’t?” di una recente pubblicità che ha come obiettivo quello di convincere anche i più giovani, i cosiddetti nativi digitali, meno avvezzi a seguire imperativi categorici. La Gen Z quindi come vive questo marketing “dal basso”? Questa parcellizzazione del messaggio pubblicitario tra influencer, microinfluencer e racconto di brand? Se ce li immaginiamo smagati e meno piegati alle subdole leggi del mercato, come spesso li definiscono statistiche ed analisi, Gianluca Diegoli smentisce questa percezione. Da analista e docente li vede in realtà piuttosto lontani dal sapere come distinguere un messaggio “senza scopo di lucro” e uno invece che prova a venderti qualcosa, e soprattutto come e perché lo sta provando a fare.
Etsy Witches, witchtok, gli antri su Instagram e le fattucchiere di Facebook. Per quanto maldestre e talvolta in malafede, le streghe online ci dicono come sta cambiando il nostro rapporto con internet e con la realtà.
Il caso SocialMediaGirls scoppiato in seguito alla denuncia della giornalista Francesca Barra è solo l'ultimo di una ormai lunga serie di scandali simili. Tutti prova del fatto che se non regolamentata, la tecnologia può solo fare danni.
