Gianluca Brando, scultore dell’abitare

Abbiamo intervistato lo scultore di Maratea classe 1990, che riflette sul concetto universale di casa, e ha collaborato con all'apertura del nuovo store di Birkenstock a Milano.

08 Settembre 2025

Conchiglie e chiocciole, tegole e mattoni: sono gli elementi che più ricorrono nelle sculture di Gianluca Brando, classe 1990 nato a Maratea e stabilitosi poi a Milano. Sono tutte metafore o simboli di un abitare sia intimo che universale, che Brando esplora con materiali che raccontano di permanenza e fragilità: ceramica, sabbia, elementi che si sgretolano e, allo stesso tempo, resistono. Le sue opere sembrano reperti di un tempo sospeso che potrebbe appartenere tanto al passato quanto a un futuro immaginato. Da questa ricerca prende forma anche il progetto che Gianluca ha pensato per il nuovo store Birkenstock a Milano, in corso Garibaldi, dove il tema dell’impronta e del cammino dialoga in modo naturale con la sua visione. Perché, come dice, «il piede è il contatto tra noi e il mondo dove stiamo».

ⓢ Ti senti più uno scultore o un esploratore?
Diciamo che per me la scultura è un’esplorazione delle forme, del mondo che ci circonda. Questa è una base per tutti, però nel mio caso ciò avviene anche perché il mio modo di lavorare può essere simile a quello di un ritrovamento di qualcosa. Ogni volta è una scoperta per me, un’esplorazione. Tante volte sono forme che stanno già nel mondo e che io in qualche modo cerco di riscoprire, con uno sguardo nuovo.

ⓢ Qual è il tuo posto preferito a Milano?
Il mio posto preferito a Milano è il Parco Nord, che è vicino al mio studio quindi in realtà è sia l’uno che l’altro.

ⓢ  Se potessi far trovare un oggetto tra mille anni, cosa sceglieresti?
Il tempo è qualcosa che entra per forza nel mio lavoro, quindi mi piace pensare che in realtà, guardando quello che faccio, non si abbia la sensazione di essere davanti a un oggetto contemporaneo, ma neanche appartenente al passato. Allo stesso tempo, mi piace che sembri qualcosa che è sempre stato lì. È un’ambizione non semplice, questa di infondere, in chi guarda, la sensazione di essere davanti a qualcosa che ti trasporta in un altro tempo. Come se questi oggetti, che spesso sono oggetti tradizionali, possano sembrare dei segni di un futuro in cui è successo qualcosa, anche di drammatico, che però ha riportato un equilibrio tra elementi diversi che possono essere sia artificiali che naturali.

ⓢ Quando capisci se un’idea funziona? Ti capita di affezionarti anche a quelle fallimentari?
Lavorando con la scultura c’è un problema che un pittore non ha. Mettendo qualcosa nello spazio, questo implica un impegno diverso, non voglio dire maggiore o minore, però è diverso. Tutto quello che fai occupa e quindi toglie uno spazio, ogni cosa deve essere calcolata, estremamente chiara. Certo, quello che faccio passa sempre attraverso un processo lungo: fasi preliminari, prove, studi, attraverso il disegno, e poi solo dopo si mette al mondo questa forma, nello spazio. E questo implica anche dei passaggi, degli scarti, delle cose che rimangono e altre che invece non vengono poi mantenute.

ⓢ A proposito di cose che rimangono, nel tuo lavoro l’elemento della conchiglia, o della chiocciola, è un elemento ricorrente. Come mai?
La conchiglia nel mio lavoro è sempre associata alle forme dell’abitare umano, quindi per me il mollusco o la lumaca sono dei simboli perfetti di quell’unità che c’è tra essere e abitare, che invece noi umani non abbiamo e non avremo mai. Spesso la chiocciola è ibridata alle forme dell’abitare umano, quindi alla tegola, un elemento che utilizzo spesso: è il modulo essenziale, la particella modulare che costruisce la forma dell’abitare, del tetto. Non c’è abitare senza un tetto sulla testa. Quindi questa forma è emblematica perché appartiene a un passato remoto, ma è anche contemporanea. È uno di quegli oggetti che quasi non hanno subito trasformazioni nel corso dei secoli. Ed è proprio questo che mi interessa, mettere insieme questi elementi apparentemente distanti, che vengono dal mondo artificiale, da quello naturale, da quello umano e non-umano. Nel territorio da cui vengo, il Sud, queste forme vengono lasciate nei margini, sono un simbolo di abbandono, di allontanamento dai territori rurali e naturali.

ⓢ E a Milano di tegole abbandonate ne trovi?
A Milano tegole abbandonate in giro non se ne trovano tante. Le trovo altrove sicuramente, in luoghi più periferici. Ma mattoni che si sgretolano, forse, iniziano a vedersi anche qua.

ⓢ Nel tuo lavoro ritorna spesso il tema della traccia, del rapporto con la natura. Parlando del progetto Birkenstock, in che modo hai trovato un legame tra l’universo del brand e la tua ricerca artistica, e come questo incontro ha influenzato le opere che hai realizzato ad hoc per il loro nuovo spazio di Milano?
Per Birkenstock ho realizzato delle sculture in ceramica che partono dal calco di un piede anatomico che si ibrida a forme naturali come le conchiglie, oltre a questo ci sono anche degli elementi in sandcasting che raccolgono l’impronta di un piede umano quindi c’è questo rapporto tra traccia, che può ricordare quella di un’impronta fossile di 4000 anni fa e invece questi piedi in ceramica che camminano nel presente. Quello che mi ha affascinato di più del mondo Birkenstock è proprio questa idea della camminata naturale e quindi dell’impronta sulla sabbia. Questo piede che prende perfettamente il calco all’interno della suola della scarpa, mi piace questa idea di camminare nella natura, di sapere di stare su questo territorio. E ho trovato subito un legame con quello che faccio, perché nel mio lavoro c’è sempre l’idea di impronta, di traccia che viene fissata e assume una permanenza che invece non avrebbe naturalmente. Io poi spesso lavoro con elementi effimeri, come la sabbia, e quindi questo è stato un punto fondamentale per aprire un discorso più ampio sullo stare sulla terra. Perché poi il piede è questo, il contatto tra noi e il mondo dove stiamo.

ⓢ In merito al camminare nella natura, quando ti serve ispirazione cosa fai, dove vai?
È curioso, l’ispirazione si può trovare ovunque, nei momenti più inaspettati, meno o più scontati. Quindi non è che c’è un posto in particolare dove vado per trovare qualcosa, però sicuramente i miei luoghi di origine, mi danno sempre qualcosa, o quando c’è uno stacco, e si cambia punto di vista. Tutto è una fonte di ispirazione per un artista, quindi non credo che ci siano delle cose o degli atteggiamenti in particolare da avere, perché è il tuo atteggiamento di interesse verso le cose che genera questa ispirazione o comunque una suggestione, una fascinazione. È la meraviglia che si prova per le cose, se uno non si meraviglia non credo che riesca a fare molto, nell’arte ma come nella vita.

ⓢ Ma quindi, uno scultore, secondo te, è anche un artigiano?
Nel mondo dell’arte contemporanea per tanto tempo credo che la parola artigiano, artigianato sia stata bandita dal linguaggio artistico, in certi ambiti alcune parole diventano un tabù. Però credo in realtà che sia fondamentale riprendere questo contatto con il materiale, con il fare le cose con le mani credo che questo sia importante specialmente oggi, dove l’intelligenza artificiale la tecnologia, il digitale ci danno degli elementi che spesso creano una distanza tra la concretezza reale di quello che ci circonda. E in questo senso l’artigianato è qualcosa da recuperare ma credo che stiamo già andando verso questa direzione.

Foto e video di Andrea Lops

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