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Elogio della frutta estiva

Su una cosa l'estate spicca nettamente sulle altre stagioni: la bontà dei frutti che in questi mesi arrivano a maturazione.

di Davide Coppo

(Andrei Borodulin/Afp/Getty Images)

Nel corso di ogni anno ci sono alcuni momenti – pochi – per cui ogni individuo dotato di un buon cuore (e mediterraneo, aggiungerei) sperimenta l’immediata fioritura, appunto, di quel cuore, e ogni anno il piacere è lo stesso, mai diminuito dalla ripetizione. Questi momenti sono almeno due: il primo tramonto ritardato di un’ora all’introduzione dell’ora legale, il 31 marzo; il primo bagno primaverile in mare. A questi aggiungerei, con una certa certezza di poter vincere qualsiasi referendum sul tema, la prima volta che i denti affondano nella polpa morbida di una pesca matura.

L’estate ha pregi e difetti – più pregi che difetti, come ammetterebbe ogni individuo di buon cuore e mediterraneo – ma su una cosa spicca nettamente sulle altre stagioni: la bontà dei frutti che in questi mesi arrivano a maturazione. In questa parte di mondo, con frutta estiva (e anche primaverile, d’accordo) si intendono albicocche, pesche, prugne, ciliegie, meloni, fragole, fichi. Quello che l’autunno fa con la verdura, l’estate lo fa con i frutti.

Tra le prime ad arrivare c’è l’albicocca, come ci ha spiegato un siparietto già sexy e divertente in Call Me By Your Name di Luca Guadagnino tra Oliver e il padre di Elio: la parola albicocco viene dall’arabo al-barquq – a sua volta derivato dal latino praecoquus – che significa “precoce”, e infatti le albicocche si trovano già a maggio sui banchetti del mercato. Da tempo penso che l’albicocca sia tra i migliori frutti disegnati dall’evoluzione della natura: è compatta e tascabile, e si può facilmente portare in giro senza troppi rischi di macchiarsi vestiti, a differenza di una prugna, la cui buccia è troppo sottile e perde spesso liquidi pericolosi. Ha una peluria piacevole, di velluto o di ciniglia, ed è facile da aprire, se ben matura: si preme dolcemente lungo la scanalatura con la punta di un dito, e l’albicocca si spalanca in due metà uguali. Al tatto, dà una sensazione che ricorda quella della pelle soda, una sensazione di giovinezza e sensualità, certo a rischio Humbert Humpert, ma piacevole, estiva e imaginifica.

Non è l’albicocca, tuttavia, il frutto più sensuale di Call Me By Your Name: la sequenza dell’onanismo di Elio con una pesca fu provata per caso, ha detto Timothée Chalamet, e dopo aver scoperto che “si può fare” la mise in scena, facendo diventare il frutto un’icona ancora maggiore di quella che era già da alcuni anni grazie all’emoji diventata simbolo universale di “culo” grazie alla scanalatura generosa disegnata dai cartoonisti giapponesi, molto diversa dalle innocenti e rotondette sfere di Monet. La pesca, rispetto all’albicocca, è in un certo senso più sicura: anche se non del tutto matura si lascia mangiare più facilmente, la si può mettere a bagno nel vino bianco – no, non per forza di cose tipo sangria, sta bene negli spumanti e nei vini più liquorosi – o la si può cucinare e non soltanto addentare cruda – sulla griglia, tagliata a metà, senza nocciolo. Non comodissima da mangiare camminando per strada a causa dei pericolosissimi succhi che ne fuoriescono – «la pesca non va via», una delle massime che mi sono rimaste più impresse dei miei anni di bambino passati con i nonni al mare – è però il frutto estivo più venduto in Italia. Di recente mi sono imbattuto in un componimento di Francesco Berni, poeta toscano cinquecentesco, tutto dedicato alla pesca. Fa parte delle Rime, e fa capire quanto siano antichi i significati erotici del frutto, ben oltre le piccole vacanze cremasche: «Le pesche eran già cibo da prelati, ma, perché ad ogniun piace i buon bocconi, voglion oggi le pesche insino a i frati, che fanno l’astinenzie e l’orazioni», scrive, e non è difficile capire che l’argomento in questione non è una varietà di noce o saturnina, ma il sesso anale.

Rimanendo in ambito letterario, tra i frutti estivi è la prugna quella ad aver ricevuto la miglior dedica. Si chiama “This is just to say”, l’ha scritta William Carlos Williams nel 1934, e dice: «I have eaten / the plums / that were in / the icebox // and which / you were probably / saving / for breakfast. // Forgive me / they were delicious / so sweet / and so cold». (Ho mangiato / le prugne / che erano / in ghiacciaia // e che tu / probabilmente / serbavi / per colazione. // Perdonami / erano deliziose / così dolci / e così gelate).

A proposito di conservazione e maturazione, i frutti si dividono in due gruppi: quelli “climaterici” maturano anche lontano dalla pianta madre diventando più dolci e morbidi dopo il raccolto, mentre quelli “non climaterici” no. Tra i primi ci sono pesche, albicocche, susine, meloni e angurie, tra i secondi quelli che non dovreste mai comprare se troppo duri: fragole e ciliegie. La frutta andrebbe conservata a temperatura ambiente, e messa in frigo soltanto una volta raggiunta la giusta maturazione. D’altronde la frutta è programmata per essere mangiata matura: tutti gli zuccheri che produce, la dolcezza di cui si riempie, è un richiamo per gli animali – come noi – per essere mangiata e propagata.

Infine, due note per guardare in modo diverso fragole, fichi e angurie, tra i più famosi frutti estivi: le fragole sono come dei fichi al contrario, con l’interno rivolto verso l’esterno, cioè tutti gli ovari sulla superficie e non dentro la buccia. Quello che mangiate quando mangiate l’anguria, frutto per me incomprensibile, non è invece altro che la placenta che ne protegge i semi. E se pensate, infine, che non ci sia un frutto del tutto perfetto, è perché non avete mai assaggiato le piccole, rare, preziose prugne ramasin.