È stato uno dei film più chiacchierati del Festival di Cannes e adesso arriva al cinema, distribuito da Mubi. Di sicuro, se ne parlerà fino alla notte degli Oscar.
«Cos’hanno in comune la Creatura di Frankenstein e Cime Tempestose?». Se siamo nel 2025, la risposta, molto probabilmente, è Jacob Elordi. Due ruoli opposti, eppure nella vita dell’attore australiano sono apparsi per lo stesso motivo: la sua bellezza. Chiunque, in questa breve affermazione, potrebbe vederci un tentativo di sminuirne le capacità. Tutt’altro. La bellezza, per Elordi, è un concetto plasmabile, una qualità camaleontica, piuttosto che qualcosa da lasciare semplicemente “essere”: cristallizzata, inerme. Un fatto di cui sembra essere diventato consapevole a nemmeno trent’anni (ancor di più dopo l’Elvis di Sofia Coppola) e che evidentemente ispira i registi con cui collabora.
Se, come si è visto dal trailer, nel riadattamento del romanzo della Brontë, Emerald Fennell ha fatto di tutto per esasperare il magnetismo di Elordi e trasformarlo nella caricatura perfetta del tormentato Heathcliff, Guillermo del Toro, assegnandogli il ruolo della Creatura in Frankenstein, compie l’operazione inversa: quella stessa bellezza lui la oscura, ma volutamente, senza cancellarla. Perché rappresentare la mostruosità di una delle creature più maledette della letteratura e del cinema, lasciando che dalla sua carne morta, lacerata e ricucita filtrino barlumi di bellezza e gioventù – sparsi sul volto e sul corpo di uno degli uomini più desiderati del pianeta – è, paradossalmente, ciò che oggi riesce maggiormente a turbarci. E solo qualcuno come del Toro, che parla di mostri before it was cool, questo è riuscito a comprenderlo appieno.
Frankestein: da Shelley a del Toro
«È difficile da spiegare quanto un’inclinazione sessuale. Alcuni uomini amano le scarpe col tacco alto. A me piace l’horror», ha raccontato il regista diversi anni fa. E, in fondo, tra lui e Mary (Godwin) Shelley si percepisce una sorta di affinità elettiva, incentrata sullo stesso feticismo per l’iconografia del macabro. Lui, che fin dal suo secondo film, Mimic del ’97, sperimenta sull’ibridazione di ciò che è umano e ciò che non lo è; che disseziona i corpi dei suoi personaggi per ricomporli in esseri che sfuggono a ogni definizione – insetti, fauni, “uomini pallidi”, demoni, anfibi – metafore viventi che appartengono tanto al mondo delle fiabe quanto a quello degli incubi più profondi, condannate a vivere tra gli uomini. Lei, che a sedici anni fa suo il cognome “Shelley” per amore di un poeta, Percy, un sentimento confessato nel cimitero di Saint Pancras, accanto alla tomba della filosofa Mary Wollstonecraft; e che, pochi anni dopo, la conduce a quella fatidica notte dell’estate 1816, confinata nella villa di Lord Byron da una pioggia incessante insieme al marito e ad altri quattro amici scrittori. «Ciascuno di noi scriverà una storia di fantasmi», se ne esce Byron, e la proposta piace a tutti.
In quell’atmosfera satura di macabre fantasie, Shelley ascolta in silenzio gli altri dare forma alle proprie storie, congetturare su dame dalla testa ridotta a teschio, vampiri, esseri sospesi tra la vita e la morte; riflettere sulla «natura dell’origine della vita e la possibilità di scoprirne e decifrarne la vera essenza», dei curiosi esperimenti del dottor Darwin, che aveva conservato un segmento di vermicello finché non si era mosso, come spinto da un’energia sconosciuta. «Ma dopotutto ciò non significava “dare la vita”», annota lei stessa. Però l’idea resta lì e continua a frullarle nella testa: e se le parti di un corpo potessero essere manipolate, riunite e animate da un nuovo soffio vitale? Un pensiero che, intuite bene, è proprio ciò che sta alla genesi di Frankenstein e che si intreccia con un sogno fatto da Shelley poche notti dopo la sfida lanciata da Byron, sogno che lei stessa racconterà nella prefazione del 1831: «Vedevo — a occhi chiusi ma con la mente ben desta — lo studioso di una scienza sacrilega, pallido, inginocchiato accanto alla cosa che aveva messo insieme. L’orrida forma di un uomo disteso; poi una macchina potente entrava in azione; il cadavere mostrava segni di vita e si sollevava con movimento difficoltoso, solo parzialmente vitale. Doveva essere terrificante: come terrificante sarebbe l’effetto di qualsiasi opera umana che riproducesse lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo. L’artefice è atterrito dal proprio successo. Pieno d’orrore fugge da quella sua spaventosa Creatura. Forse spera che, abbandonata a se stessa, la debole scintilla di vita che vi ha acceso si spegnerà; che quella cosa cui ha dato un’animazione così imperfetta sarà risucchiata nella morte». E nonostante le molte libertà creative che il regista messicano si concede, il film sembra svolgersi in gran parte proprio all’interno di questo preciso “fermo-immagine”, che nessun altro regista degli oltre quattrocento film ispirati al romanzo ha mai mostrato: lo scienziato Victor Frankenstein è esausto e si assopisce dopo l’esperimento, che crede fallito, di riportare in vita la propria Creatura. «Poi si scuote, riapre gli occhi: la cosa è lì, in piedi, accanto al suo letto, ne sta aprendo le cortine e lo fissa con occhi giallastri e acquosi, ma penetranti». Del Toro segue la sequenza abbastanza fedelmente, ma le dà un’accezione quasi opposta. «Ho vissuto con la creazione di Mary Shelley per tutta la vita. Per me è come la Bibbia. Ma volevo renderla mia, restituirla in una tonalità diversa, con un’emozione diversa», dice.
Di padre in figlio
Contrariamente al romanzo, la Creatura del film non è affatto l’“abominio” descritto da Shelley. Il suo corpo è, sì, segnato dalle incisioni e dai tagli praticati da Victor, ma queste sono precise come le linee preparatorie tracciate su un bozzetto. La pelle è di un blu livido, il colore della morte che l’ha generata; la testa è glabra e i suoi movimenti restano sorprendentemente delicati nonostante l’imponenza dei quasi due metri di altezza. Le bende, allentate, fluttuano da ogni parte del suo corpo; e da sotto affiora un volto bellissimo: quello di Elordi. Nulla a che vedere con la Creatura dalla pelle giallastra e semitrasparente, dagli occhi acquosi e dalle labbra nere che, nel romanzo, fa inorridire Victor. Anzi, quando lo scienziato vede la Creatura in piedi di fronte a sé, lo si avverte come un momento di estrema dolcezza, quasi commovente, che culmina in un abbraccio immerso nella luce calda del sole che filtra dalla finestra.
Bastano pochi secondi, però, perché emerga un evidente disallineamento emotivo tra i due: Victor, in lui, sembra scorgere una versione perfetta di se stesso, mentre la Creatura, in quell’uomo, riconosce la presenza di un padre. “Victor” è la prima e unica parola che pronuncia, l’unica che, come scopriremo, per lui abbia senso al mondo. Ma per questo padre-creatore non è abbastanza. E come potrebbe essere altrimenti? Il Victor Frankenstein di del Toro è, prima di tutto, un uomo sentimentalmente incapace, perché (e qui sta la prima grande libertà che il regista si è preso) è cresciuto nel disprezzo di un padre disfunzionale: un rinomato medico-chirurgo convinto che la medicina rappresenti il massimo controllo che un uomo possa esercitare sul mondo e sulla vita. Nozioni, definizioni, classificazioni, funzionamento degli organi: conoscerli significa, per lui, sapere che nessuno di essi – nemmeno il cuore – ha alcun legame con l’anima. Eppure, la memoria della Creatura di Victor è tormentata dai frammenti dei ricordi di ogni uomo morto per permetterle di esistere, ricordi che riaffiorano come schegge sotto la carne.
Fatto sta che quella è l’unica educazione che Victor riceve dal padre: un tentativo costante di debellare la “non conformità” che intravede in lui, un’irrequietezza e una curiosità trattate al pari di malattie. Ne sono una prova i suoi capelli neri, fin troppo simili a quelli della madre. Ed è proprio per lei, che muore di parto, che il giovane finisce per rinnegare tutto ciò che gli è stato insegnato: il padre, le sue regole, persino l’ordine naturale delle cose. La sua collera trova sfogo in una promessa blasfema: superare la conoscenza umana e vincere la morte. Victor si eleva a Dio, ma le conseguenze di quella sofferenza infantile mai elaborata sono ciò che più lo rende umano e un adulto incompleto: nel ruolo di padre-creatore che assume con la Creatura, non farà altro che replicare le stesse mancanze e le stesse violenze – emotive e psicologiche – che lui stesso ha subìto. Lo racconta anche Oscar Isaac: «A un certo punto ero convinto che fossero la stessa persona. È stato utile pensarla così, perché Victor, in un certo senso, è solo metà di un essere umano. L’altra metà gli è stata strappata.»
Dall’odio all’amore
Victor si accorge subito delle difficoltà cognitive e fisiche del “figlio”, ma non riesce a leggerle se non come un fallimento personale. Non ha gli strumenti per riconoscerne la purezza, né tantomeno per assumersi la responsabilità di averlo introdotto nel mondo e di continuare, senza volerlo, a ferirlo. Così, inevitabilmente, la Creatura inizia a sentirsi umiliata e tradita, e quando riesce a fuggire lontano da Victor, il suo corpo comincia via via a mutare: i capelli crescono, la pelle assume un colore più rosa vivo: il colore del sangue e della vita che fluisce. Durante il suo vagabondare incontra ostilità e violenza, ma la sua innocenza resta intatta sotto il peso dell’odio e dell’abbandono: non scivola mai nei crimini e negli omicidi dell’opera originale, né in quelli cui ci ha abituato la lunga tradizione cinematografica di Frankenstein. Del Toro instilla in noi un barlume di speranza quando la Creatura si imbatte in un vecchio pastore: un uomo che lo accoglie e gli fa dono del proprio tempo, della propria saggezza e dei libri che gli insegna pazientemente a leggere. È attraverso la cultura che il suo dolore comincia a lenirsi: le storie dei grandi autori gli permettono di comprendere meglio la natura degli uomini, gli danno il coraggio di cercare le proprie risposte, di rimettersi sulle tracce del padre e, una volta trovato, di fare spazio alla comprensione e perfino al perdono. «Se non potrà esserci la morte, figlio mio, mentre sei in vita, cos’altro potresti fare se non vivere?» sono le ultime parole di Victor: le prime davvero cariche di un amore puro.
Bellezza e mostruosità, tanto per del Toro quanto per Shelley, sono come due serpenti che inizialmente si sfiorano soltanto, ma poi si avvinghiano, generando una tensione tale che, nell’opera dell’autrice, costruita sul rancore e sulla sofferenza, finisce per distruggere entrambi. Un epilogo tragico da cui, inaspettatamente, il regista ci solleva facendo accadere qualcosa di sorprendente: ripristina un nuovo equilibrio, un’armonia tra due forze che in questa storia poi, non sono altro che due figli incompresi. «Che i mostri abitino i vostri sogni e vi diano conforto quanto ne hanno dato a me, poiché siamo tutti creature che si smarriscono e si ritrovano».
