Molti scrittori e scrittrici del passato erano grandi appassionati di moda: a un certo punto, però, c'è stata una separazione, tanto che oggi può sembrare strano che la moda si interessi alla letteratura, e viceversa. Cos'è successo?

Francesco Costabile, il cinema reale che tutti dovrebbero vedere
Il suo Familia ha sorpreso per l’eleganza e la profondità con cui tratta la violenza di genere, diventando il rappresentante italiano all'Oscar per il Miglior film internazionale. Lo abbiamo scelto come uno dei volti del Nuovo cinema italiano, tema del numero di Rivista Studio che arriva oggi in edicola.
Questo articolo è tratto dal numero di Rivista Studio uscito oggi e dedicato al Nuovo cinema italiano. Lo trovate in edicola, nelle librerie selezionate oppure, più semplicemente, sul nostro store online.
«A me il cinema spaventa» è una frase strana di per sé, ancora di più se a pronunciarla è un regista. Francesco Costabile però ci tiene a farlo sapere, che lui per questa arte ha una reverenza che quasi degenera in sacro terrore, che non si immagina un futuro in cui i film sono il suo mestiere perché vede quel futuro come incompatibile con la sua autoconservazione. In parte, viene da dargli ragione: fa film difficili, violenti, angoscianti, tratti da storie vere che esistono ai confini dell’esistenza e della dignità. Prima con Una femmina e poi con Familia (quest’ultimo candidato a otto David di Donatello), sta portando avanti una sua personale riflessione sull’unica cosa che gli interessi davvero: la realtà, le cose che succedono davvero alle persone vere, a cui il cinema di finzione, a suo dire, può solo sperare di rendere giustizia.
ⓢ È passato un po’ dall’uscita di Familia, ormai. Quando ripensi all’anno che hai passato, che cosa provi?
Mi porto dentro tante emozioni. È inevitabile, avendo fatto un film di questa portata emotiva e che tratta un tema così attuale. Quello nell’universo della maschilità tossica è stato un viaggio emotivamente probante, in primis per la responsabilità che ho sentito nei confronti delle vittime di questa storia, i fratelli Celeste, Luigi e Alessandro. Ma mi porto dietro anche l’orgoglio di aver realizzato un film non facile, narrativamente complesso e moralmente ambiguo, in cui i confini tra la vittima e il carnefice si fondono, come spesso succede nelle relazioni tossiche. Un film che va contro la tendenza contemporanea a raccontare tutto in modo approssimativo, superficiale, come succede nella cronaca nera.
ⓢ È una brutta definizione, ma il tuo è inevitabilmente un film d’attualità, visto quanto abbiamo parlato di violenza di genere negli ultimi due anni. Quando hai iniziato a lavorarci eri consapevole di entrare in un dibattito? È una cosa che hai voluto,, o ti è successa seguendo l’intuizione?
Diciamo che tutti gli artisti vivono il proprio tempo, e meno male. Il fatto che io abbia scelto questo tema e che questa scelta corrisponda a un’esigenza che oggi sentiamo, in parte ha a che vedere con la componente inconscia del processo creativo. Non l’ho cercato, però, questo no. Anche perché non è che ci sia una domanda da parte del mercato per questo tipo di film. La mia intenzione vera era mostrare una violenza di cui spesso non si parla, la violenza psicologica, non meno grave, non meno feroce di quella fisica. È una violenza subdola che lavora nell’ombra e di cui siamo tutti vittime. Ho fatto Familia anche perché penso che sia importante acquisire consapevolezza di questa violenza, e penso sia fondamentale che la acquisiscano soprattutto i giovani.
ⓢ Questo è un punto che ho visto sollevi spesso nei tuoi discorsi. Ci tieni a questa funzione pedagogica dei film?
Molto. Io nella vita faccio l’insegnante, per me riuscire a portare questo film nelle scuole è stata una battaglia fondamentale perché viviamo in un periodo storico in cui l’educazione affettiva e sessuale all’interno dell’istituzione scolastica e il dibattito attorno a questo tema sono guastati da posizioni ideologiche. E quindi per me questo film è stato anche un modo di oppormi a questa situazione. È stato un modo per portare i centri antiviolenza nelle scuole, persone che hanno sostenuto il film sin dall’inizio e che mi hanno aiutato in fase di ricerca e di documentazione e di promozione. Per esempio, sono orgoglioso che Familia sia stato sostenuto dalla Fondazione Una Nessuna Centomila.
ⓢ Come sei arrivato a questa storia?
Dopo Una femmina (il primo lungometraggio della carriera di Costabile, nda), sentivo la necessità di esplorare ancora più in profondità la questione della violenza di genere. Una femmina era già questo tipo di storia, ma era confinata nel recinto della criminalità organizzata, della ‘ndrangheta. E questo era da certi punti di vista un limite, perché rendeva difficile mostrare la violenza di genere come fenomeno trasversale, comune a tutte le forme sociali, a tutte le culture. Cercavo quindi una storia più “larga” e così ho iniziato a fare ricerca. Poi è arrivata Medusa e in particolare l’editor Lucia Cereda, lei mi ha suggerito questo libro, Non sarà sempre così (Piemme), che ho amato. L’ho amato perché non è un romanzo né un saggio, è una testimonianza diretta, della persona che ha subìto la violenza. È un bambino che ripercorre la sua infanzia, i rapporti con suo padre, con sua madre, fino al tragico epilogo. Dopo averlo letto mi sono subito messo a lavorare sul film, ed è stato un lavoro lungo e difficile, perché è un racconto ampio che ci ha costretto a delle scelte di sintesi.
ⓢ Faccio un passo indietro, a prima di Familia e di Una femmina. Tu hai iniziato con il documentario. In che modo questa formazione ti ha influenzato?
Sì, dopo aver finito di studiare al Centro sperimentale mi sono dedicato al documentario, anche perché è la forma di racconto più semplice se sei un indipendente. E devo dire che è stata una bellissima palestra. Perché il documentario ti costringe all’ascolto, all’osservazione, a cogliere i segni che il caso, che la realtà sparge nella tua ricerca. Questa mia formazione, sì, me la sono portata dietro anche nel cinema di finzione. Perché questi linguaggi per me sono diametralmente opposti ma anche estremamente vicini. In fondo, quando lavoro con la finzione io parto sempre dalla realtà. Il fatto che io abbia scelto di fare film ispirati a fatti realmente accaduti non è un caso. Per me è rincuorante partire dalla realtà, perché ho un bacino di ricerca ampio e quindi qualsiasi scena, anche di astrazione, parte dalla realtà.

ⓢ Fai molta ricerca prima di metterti a girare?
Moltissima. Per Una femmina ho letto tutti gli atti giudiziari. Per Familia ho parlato con tutti i familiari ancora in vita, con tutta la famiglia Celeste. Ho visto tutte le fotografie che hanno in casa, sono stato nella casa dove è avvenuto il fatto, ho visto tantissimi reportage e parlato con tantissime persone della galassia neofascista. Una fase di ricerca che se ci pensi è molto simile a quella documentaristica. Poi per la finzione arriva però questo momento di trasfigurazione, in cui la realtà viene smembrata, sintetizzata, anche tradita.
ⓢ Pensi sia possibile, o addirittura giusto, tradire la realtà quando si racconta una storia realmente accaduta?
Penso sia giusto se è necessario a trasmettere il senso profondo della storia che si sta raccontando. Tradire i fatti, mi dici. In parte sì, penso sia possibile. Ma tradire il senso dei fatti? Quello no, mai. Va tenuto un punto sentimentale, ti direi anche etico.
ⓢ Dicevi che la realtà è sempre l’inizio del tuo lavoro, anche di quello di finzione. Mi spieghi meglio?
Eh, devo ammettere che come autore la pagina bianca un po’ mi spaventa. Sì, mi spaventa. Dipendere solo dal mio immaginare, da me stesso, mi mette a disagio. Io sono uno che vive nella confusione e nell’indecisione, quindi per trovare la mia strada ho bisogno di stimoli esterni. E questo stimolo è la realtà, sempre così piena di suggestioni da indagare.
ⓢ Questa tua risposta mi ha fatto pensare a certi dettagli del film che ho trovato allo stesso tempo così “curati”, frutto di una messa in scena molto consapevole, e “naturali”. In particolare, penso al set design, agli arredi delle scene di interno, a come il mobilio veicolasse questa sensazione di squallore e di casalingo contemporaneamente. Quando hai scoperto di avere questo occhio per il set design?
Io concepisco i luoghi e gli ambienti come se fossero dei personaggi, li curo, li costruisco insieme alle persone che con me lavorano sull’arredo e sulla scenografia, cercando sempre un senso drammaturgico. Per Familia abbiamo lavorato sull’idea di carcere, sugli ambienti che sono prigioni letterali ed emotive. Mi sono fissato sull’avere nel film la scala, che poi era la scala che c’era nella vera casa dei Celeste, perché mi serviva per ottenere questa gabbia visiva che così tanto cercavo. Ma c’è stato anche un gran lavoro sugli esterni, in cui ci siamo sforzati di fare tutto con i colori che associamo al carcere. In generale, sui luoghi, sugli ambienti, faccio un lavoro non naturalistico. Per me il naturalismo è il grande nemico del cinema, dell’arte in generale. Il naturalismo non è realismo, è l’appiattimento del reale, la costruzione superficiale. Mentre per me la costruzione di ambienti è un atto drammaturgico che comprende storia e personaggi. Da dove nasce questa ossessione? Non lo so. Ti posso dire che il primo cortometraggio che ho girato, quando avevo 16, 17 anni, in Calabria, l’ho girato nella soffitta di casa mia, che ho riarredato per l’occasione. La prima cosa che ho fatto è stata dipingere le pareti, trovare gli oggetti d’arredo. Il mio sguardo cinematografico è nato così.

ⓢ Questo approccio ossessivo io lo vedo anche nel casting dei tuoi film, di Familia soprattutto. In particolare penso alla scelta degli attori che hanno interpretato i personaggi da bambini, a quanto somiglino alle loro versioni adulte. Soprattutto gli attori che interpretano Alessandro, il fratello di Gigi, da bambino (Stefano Valentini) e da adulto (Marco Cicalese), sono impressionanti, si somigliano così tanto che ero convinto fosse fratelli.
Per Familia abbiamo fatto sia casting tradizionale che street casting, che è una cosa che mi piace da morire, davvero da morire. Tanto che per me all’inizio il film poteva anche essere fatto senza attori professionisti. Ma poi ho dovuto cambiare idea, perché Familia è estremamente scritto e in questi casi l’attore professionista fa la differenza, perché è capace di dare degli spunti, di cambiare il personaggio in modi che un non professionista non conosce. Però tornando alla tua domanda, sì, per me il casting è un’ossessione, mi porta via tantissimo tempo. Per Una femmina è durato anni, per dire. Anche perché io magari l’attore lo vedo la prima volta in un self tape ma poi devo fare per forza il provino dal vivo e devo partecipare a tutti i provini, da quelli per i protagonisti a quelli delle comparse. Quelli di Familia mi hanno portato via sei mesi almeno, forse otto.
ⓢ E a Francesco Di Leva come ci sei arrivato? Anche volere lui per quella parte è una scelta strana, una di quelle che spesso hanno senso solo nella testa dei registi, fino a quando non vengono proiettate sullo schermo.
Forse ti stupirò, ma Di Leva l’ho scelto per fare “il cattivo” non dopo averlo visto fare il camorrista, che è un ruolo che ha fatto spesso. L’ho scelto dopo averlo visto interpretare un prete in Nostalgia di Mario Martone. Io volevo un attore che fosse capace di mostrare un contrasto interiore ma anche esteriore, e in quell’interpretazione lui è così umano, così fragile. E poi c’era una componente fisica che pensavo mi potesse tornare utile, perché Di Leva è più basso di Francesco Gheghi, e nelle scene di confronto-scontro tra i due questa differenza si notava parecchio e io speravo che questa “inferiorità” fisica portasse Di Leva a compensare con una postura emotiva schiacciante, soverchiante, nei confronti di Gheghi e del suo personaggio. Ed è così che è andata.
ⓢ Sei riuscito a fare un film sulla violenza che però ha relativamente poca violenza, poche scene di violenza al suo interno. È un problema che ti sei posto, vista anche la tua sensibilità nei confronti del tema, questo della violenza sullo schermo, delle conseguenze che può avere, dei messaggi che può mandare e che possono essere travisati o manipolati?
Io penso che la violenza più terribile raccontata in questo film sia quella dell’abbandono, di persone abbandonate dallo Stato, della distanza e del vuoto che questo abbandono crea. Familia è sostanzialmente la storia di un caso estremo, di un famiglia non solo abbandonata ma anche tradita dalle istituzioni. Tradita perché quando la madre, Licia (interpretata da Barbara Ronchi, nda), denuncia le violenze del marito, si ritrova allontanata dai suoi figli. Ed è quello il trauma vissuto da questa famiglia, ed è da lì che viene tutta la violenza successiva. Quella che una donna continua a subire perché ormai non ha più nessuna fiducia nello Stato, ma anche quella di Gigi che diventa un neofascista perché è arrabbiato, perché è solo, perché odia. In Familia io volevo anche raccontare la solitudine come premessa dalla violenza e anche la freddezza con cui lo Stato risponde all’incandescenza della violenza, la burocrazia con cui spesso pensiamo di poter seppellire i problemi.
ⓢ Ritrovi Familia nella definizione di opera antipatriarcale? Nel film c’è una frase che rimane impressa e che sarebbe stata benissimo sulle locandine: «Questi cazzo di padri…».
Beh, il padre è il padrone, il padre è il centro della cultura patriarcale, il padre come è inteso nella visione patriarcale della società è il problema, la struttura culturale che va decostruita, un modello che va metaforicamente battuto e abbattuto. Perché è l’origine della rabbia maschile, una rabbia che poi diventa violenza fisica e psicologica, e poi ideologia autoritaria, tutto sublimazione di un rapporto col padre fondato e vissuto nella violenza.
ⓢ Mi racconti della tua passione per i tarocchi? È vero che li usi anche come strumenti creativi?
Allora, la tarologia è uno strumento di lettura dell’inconscio, se dovessi dirti una cosa simile usata e istituzionalizzata in ambito cinematografico potrei dirti il metodo Jodorowsky. Alla tarologia ricorro quando ho dei dubbi, anche mentre scrivo, sì, soprattutto quando un personaggio si trova a un bivio narrativo. Ho una scena che magari nella mia mente non è ancora del tutto messa a fuoco e allora consulto le carte, che mi aiutano a decifrare un messaggio che nella mia mente c’è già ma che io non riesco ancora a recepire. Lo stesso discorso vale per gli attori: quando scelgo l’attore per una parte gli o le chiedo di pescare una carta, che diventa la carta guida nella costruzione del personaggio, della sua emotività e razionalità.
ⓢ E gli attori come lo prendono, questo metodo?
Ti direi… bene? Sì, dai, bene, perché in qualche modo le carte invitano a lavorare in maniera non razionale, che è il grande limite, il grande ostacolo degli attori, questo eccesso di costruzione, di intenzione, di pensiero.
ⓢ Questo numero di Rivista Studio lo abbiamo voluto dedicare a quello che pensiamo sia un nuovo cinema italiano che si muove, e inizia a emergere, sotto la superficie delle solite cose. Esiste, secondo te, questa scena nuova?
Sicuramente ci sono dei giovani talenti che stanno emergendo, la novità è che tra questi ci sono tante donne rispetto a qualche anno fa. Io ho 44 anni, quindi mi ricordo benissimo come vent’anni fa fosse veramente difficile trovare film girati da donne, in Italia. Se mi sento parte di questa nuova scena? Direi di sì, in quanto regista transgender non binario. E mi rendo conto che la presenza di persone e registi come me sia oggettivamente una novità, in un’industria così piccola, così pigra, così vecchia, così legata alla politica e al marketing come può essere il cinema italiano, un’industria in cui è così difficile che emergano dei veri sovversivi. Io stesso, che ho avuto il privilegio di fare film estremamente personali, grazie a delle oasi produttive in cui mi sono ritrovato, ho dovuto comunque accettare un compromesso con i tempi di produzione e le necessità commerciali del nostro cinema italiano. Però penso anche che il compito di aprire degli spiragli, di correre dei rischi, di fare ricerca e sperimentazione, spetti anche a noi registi, attori, artisti, che non possiamo stare fermi ad aspettare che la macchina mostri il suo volto umano.

ⓢ Delle polemiche su finanziamenti e incassi degli scorsi mesi, cosa pensi?
Una polemica assolutamente ideologica, fatta solo per marginalizzarci e togliere la voce a chi vuole rompere un po’ le palle. È sempre stato così, dai tempi del Neorealismo e della legge Andreotti, che aveva come scopo quello di allontanare il Neorealismo dalla sua anima politica.
ⓢ Dal punto di vista commerciale, Familia lo consideri un successo?
È un film che ha recuperato col tempo, grazie al passaparola. E probabilmente ha avuto una buona visibilità sulle piattaforme, ma di certo non è stato un successo. Per il botteghino è un film difficile, che mette scomodo lo spettatore. Si poteva fare di più? Forse sì. Però credo che i film abbiano la vita propria, che crescano nel tempo, che si lascino rivedere e ricordare. Anche quello conta.
ⓢ È vero che non vivi del tuo lavoro di regista? Anche per questo ti chiedevo del successo o mancato successo di Familia.
È vero, ma la questione non è economica. Io insegno e mi piace insegnare, è una cosa che mi tiene ancorato alla realtà. E poi, sinceramente, non vorrei neanche vivere di cinema perché a me il cinema spaventa. Pensare di passare tutti la vita a fare film per vivere, non so se è una paura, una resistenza, un blocco psicologico, però resta il fatto che avere un altro lavoro mi permette di dire di no a tante cose alle quali dovrei dire di sì se vivessi di cinema, perché in un caso e nell’altro, non c’è versione di me che non abbia un mutuo da pagare.
Tutte le foto in questo articolo sono di Rita Lino. Francesco Costabile indossa Valentino.

Il nuovo numero di Rivista Studio, uscito oggi, contiene cinque copertine, cinque storie e cinque visioni per raccontare come il cinema italiano stia cercando di smuovere le acque e portare a galla delle vere novità, anche in mezzo a mille difficoltà produttive ed economiche.