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In Lirica Ucraina Francesca Mannocchi racconta la guerra di chi sopravvive

Abbiamo parlato con lei del suo documentario sull'Ucraina, e poi di Palestina, Israele, immigrazione e Mediterraneo. E, soprattutto, del fatto che l'unico racconto di guerra che conti sia quello di chi resta.

di Bruno Montesano

La reporter Francesca Mannocchi, dopo i documentari If I close my eyes (2015) sui bambini siriani rifugiati in Libano e, assieme a Alessio Romenzi, Isis, Tomorrow – The lost souls of Mosul (2018), ha diretto Lirica Ucraina, scritto assieme a Daniela Mustica e con le musiche di IOSONOUNCANE. L’abbiamo incontrata per discutere del suo ultimo lavoro e, a partire da questo, del modo in cui i migranti vengono trattati in Europa.

Nella nota di regia a Lirica Ucraina parli di “vite minuscole” che fanno la storia. Tuttavia a determinare le sorti di quel conflitto, così come di tanti altri, sono le grandi potenze. Contro le letture geo-politiche ipnotizzate dalle dinamiche macro, il documentario sembra quasi astrarre la vicenda ucraina dalle specificità politico-ideologiche, farne un simbolo delle altre guerre. Come hai deciso di dare questo taglio?
Dopo aver seguito con un taglio giornalistico la vicenda ucraina a lungo, il progetto di Lirica Ucraina voleva avere una dimensione di astrazione e, al contempo, mirava a rendere l’esperienza della guerra. Volevo che questo lavoro contenesse gli elementi ricorrenti in ogni conflitto. Da un lato la fame, la perdita, il lutto, ma anche i tratti positivi della generosità, della capacità di sacrificarsi, della devozione al bene, della capacità di sopravvivere. In questo senso parlavo nelle note di regia di “vita minuscola”, perché una delle scrittrici che mi ha accompagnato è stata Svetlana Aleksievič, che ha fatto della pluralità di voci minuscole, di storie comuni delle vite, dei civili, dei sopravvissuti il tratto distintivo della sua opera giornalistica e poi letteraria. E dunque rilavorando l’archivio di un anno e mezzo di lavoro in Ucraina volevo rendere quell’esperienza lirica, nel suo bene e nel suo male. Perché ritengo che la guerra, in questo, sia l’esperienza più autentica che l’uomo possa vivere. E dico “autentica” nella misura in cui questa rende immediatamente visibili tutti i tratti istintivi dell’essere umano: l’infinito bene e l’infinito male. Questo era il tentativo di Lirica Ucraina.

Invece su un piano più politico, vedi una sorta di logica in questa guerra mondiale a pezzi, qualcosa che tenga insieme i diversi luoghi che hai attraversato come reporter?
L’idea di fare questo film mi è venuta un anno e mezzo fa, a Chasiv Yar, nel Donbass. Allora, dormivo a Kramators’k che era ancora una città considerata sicura per gli operatori umanitari e per noi giornalisti – mentre oggi, a causa dell’avanzata delle truppe russe, è diventata la linea di confine. Mi svegliai con la notizia di un attacco russo su una zona residenziale di Chasiv Yar e quando abbiamo ricevuto la notizia i morti erano circa 40. Chasiv Yar è una zona in cui, sostanzialmente, la popolazione filoucraina e quella filorussa hanno convissuto per decenni. Quando sono arrivata mi sono trovata di fronte a questa scena: un uomo che diceva ad una donna: “Siete stati voi a dare le posizioni ai russi delle posizioni dell’artiglieria dei nostri soldati?” E la donna rispondeva “Sì, però qui i soldati non ci dovevano stare”.

Quando il mio amico Dimitri Dima mi ha tradotto quello che le due persone si stavano dicendo e le loro accuse reciproche, ho pensato che avessero ragione entrambi. Esiste infatti un pezzo di verità in ognuna di queste persone che fino al giorno prima della guerra potevano essere dirimpettaie. Pur sentendosi intimamente più vicine all’identità russa, o a quella ucraina, comunque erano in grado di coesistere, di convivere. E, con la guerra, sono diventate nemiche.

Ciò che mi ha riempito di dubbi e domande era la consapevolezza avessero entrambe ragione. Era vero che una di loro era stata un’informatrice, ma, analogamente, era vero che i soldati ucraini si trovassero in una zona residenziale. Ho visto con i miei occhi, e si vede nel film, portare via i cadaveri dei soldati da lì. Ma l’interpretazione giornalistica mi fa dire che non sarebbe potuto essere altrimenti. Perché se il tuo nemico avanza, anche la tua artiglieria deve avanzare e, da qualche parte, deve nascondersi.

Contemporaneamente c’era una parte di verità nella donna filorussa che diceva che i soldati in mezzo alla gente non sarebbero dovuti esserci. Quindi la giornalista in me racconta le posizioni, di quanto si stia spostando il fronte, chi avanzi dove, chi stia dicendo cosa. La parte di me che narra l’animo umano della guerra osserva quelle due persone che fino al giorno prima erano parte dello stesso fragile e complicato tessuto sociale e che, dopo l’inizio della guerra, non lo sono più. La guerra li aveva trasformati in nemici che non potevano più vivere nello stesso posto.

Sei stata una delle prime giornaliste entrate a Bucha mentre in Italia alcuni contesti di cosiddetta controinformazione si sono subito spesi per negare o minimizzare quel massacro. Lo si vede anche su altre questioni, dal Covid a Israele e Palestina: è come se ci fossero sempre una propaganda e una contropropaganda. E l’esito è negare le verità scomode per una parte – come i massacri russi – o per l’altra. Ad una propaganda – e non è certo il caso di Bucha – si risponde negando su tutta la linea l’evento di cui si parla, sostenendo che la propria parte sia giusta e purissima. Mi sembra ci siano almeno due meccanismi: uno è di autoconferma dei propri pregiudizi, di santificazione della propria parte e di contemporanea disumanizzazione dell’altra. Dall’altro lato, c’è un problema da parte dei media tradizionali che raccontano in modo selettivo alcune tragedie “altrui” e quindi facilitano, o comunque suscitano, una sorta di sfiducia e di mentalità del sospetto che sfocia nella paranoia e nella negazione di qualunque verità, nonché umanità. Come ti spieghi questo tipo di dinamiche?
Bucha credo che sia stata il punto di svolta della storia. La sua liberazione arriva dopo poche settimane dall’inizio dell’invasione e, fino ad allora, noi giornalisti non avevamo avuto contezza di come i soldati russi si fossero comportati nell’assedio di Kiev e delle città circostanti, tra cui appunto Bucha e Irpin. È prassi entrare in una città liberata avendo premura di aspettare che i soldati rendano la zona camminabile a piedi o in auto, dopo aver identificati dove si trovino le mine e gli ordigni esplosivi. Sono entrata in maniera assolutamente fortuita a Bucha, un paio di giorni dopo la liberazione da parte dell’esercito ucraino. I cadaveri erano a terra e c’erano molti cittadini che uscivano dalle loro case come dei fantasmi, mostrando a noi pochi giornalisti dove si trovassero i corpi lungo le strade e le ferrovie, dentro le case e negli scantinati. La situazione lunare che si era venuta a creare era che mentre noi camminavamo di fronte alle prime fosse comuni della guerra ucraina, proprio come dicevi tu, qualcuno nei dibattiti da tavolino metteva in dubbio che quei cadaveri fossero realmente vittime della macelleria che i russi avevano fatto a Bucha e a Irpin. E che hanno compiuto poi in altre diverse zone dell’Ucraina.

Al contempo, mi sono trovata di fronte evidenze, che ho riportate e scritte, di crimini di guerra compiuti dall’esercito ucraino. Trovai una fossa comune, con una dozzina di soldati con le divise delle truppe separatiste (quindi filorusse) che erano state giustiziate. Dal momento che i prigionieri non si giustiziano, era la prova di un crimine di guerra. Ma ho potuto riprendere la scena, raccontarla e poi tornare in Ucraina. E questo fa la differenza tra le due parti del conflitto. Il modo in cui, sebbene ma inevitabilmente embedded – perché non si possono raggiungere le zone di fronte e di confine se non si è accompagnati dalle truppe che controllano quel pezzo di territorio – si capisce la misura del recinto di libertà all’interno del quale un giornalista si può muovere.

Non c’è dubbio che molto venga omesso dalle truppe: ci sono delle regole di ingaggio non scritte quando si raccontano le guerre. Non mostrare i morti, né la debolezza dell’esercito con cui si è embedded e si va al fronte. È quasi sempre così. Ma quel giorno in Donbass in cui ho visto quella fossa in cui c’erano i soldati separatisti giustiziati, nessuno dei soldati ucraini mi ha chiesto di non filmare o poi di non pubblicare. Nessuno mi ha spinto la telecamera. Certo, non fa statistica, però questa è stata la mia esperienza.

Hai scelto come chiave quella di parlare dei sopravvissuti all’invasione e ai crimini di guerra di Putin, scrivendo che «raccontare la guerra significhi soprattutto ascoltare i superstiti, perché è sulla pelle di chi è rimasto vivo (…) che giace la verità del conflitto». Rispetto a quanto avviene a Gaza mi sembra che proprio in virtù dell’ideologia vittimaria ebraica, il governo israeliano consumi i suoi crimini contro l’umanità. Per quanto nei conflitti sia necessario andare al di là dei due blocchi e guardare alle vittime, mi chiedo se l’approccio centrato sulla memoria e sulla condizione di vittime, per tornare alla prima domanda, non finisca per far rimanere in quella stessa logica dei blocchi e impedire di trovare altre soluzioni ai conflitti.
Credo siano due situazioni differenti, nel senso che, rispetto a Israele e Palestina, negli ultimi vent’anni, il grande errore della narrazione sia stato raccontare i palestinesi solo come vittime e solo nell’ottica di una popolazione che necessita di assistenza, nelle sue parti migliori, o che vada condannata per la resistenza armata nelle sue parti peggiori, annullando di fatto quell’interstizio in cui un palestinese è un attore politico con delle rivendicazioni.

La questione ucraina è invece diversa. Dell’Ucraina io ho raccontato le vittime di un conflitto armato mentre in Palestina noi giornalisti internazionali non possiamo entrare. Per parlare delle vittime dell’offensiva militare israeliana nella striscia di Gaza sono dovuta andare in Qatar a incontrare alcuni dei bambini che hanno subito amputazioni negli ultimi 14 mesi. E questo avviene perché non ci è possibile raccogliere le testimonianze delle vittime di questa guerra. Dunque la testimonianza del sopravvissuto in questo senso, per quello che riguarda l’Ucraina, non è paragonabile alla questione israelo-palestinese. A tre anni dall’inizio della guerra, volevo liberare l’esperienza della guerra in Ucraina da un racconto basato soltanto sulle mappe, sul “risiko” delle alleanze mutevoli, e che ci ha fatto perdere di vista l’impatto sulla popolazione civile. In questo senso mi viene da dire che bisogna riportare il fuoco sulle vittime, su chi subisce le conseguenze della guerra.

Più in generale, sull’ideologia vittimaria sono assolutamente d’accordo. Porto spesso con me un libro che è un faro, Critica della vittima di Daniele Giglioli, che ragiona sull’ideologia vittimaria di cui parli e inizia affermando che la vittima sia “l’eroe del nostro tempo”. Sono assolutamente d’accordo con te che questo sia un pensiero dominante. Infatti, quando parliamo delle persone migranti, con le quali riusciamo a empatizzare soltanto quando sono vittime di guerre, fame, povertà, ma non riusciamo mai ad accoglierle per quello che loro potrebbero o vorrebbero dare alle nostre società. Le riconosciamo in quanto vittime e non le riconosciamo in quanto attori politici.

Ma l’esperienza della guerra nel suo farsi, il racconto della guerra al fronte è diverso. Quando incontro Ljuba che mi racconta come suo marito abbia cercato di raggiungere un ospedale una volta ferito dalle truppe russe e come suo figlio abbia cercato di proteggere il corpo del padre ponendosi di fronte a lui, trovo un racconto iconico di cosa significhi essere vittime civili di una guerra. E questo non ha niente a che fare con la rivendicazione politica o con la spiegazione geopolitica che è alla base di quella guerra come di altre. Alla guerra si associa una sfumatura diversa della parola vittima.

Molti intervistati nel documentario dicono “questa è la mia terra, ci sono nato, ci sono cresciuto, magari ci morirò, qui ho i miei figli, qui ho la mia famiglia”. Cos’è che fa insistere così tanto sull’elemento dell’appartenenza e che cos’è che, in alcuni casi, invece fa prevalere l’idea della fuga, del diventare rifugiato? Come vedi questa sorta di polarità tra, da un lato, l’orgoglio dell’appartenenza – che forse è un modo anche per razionalizzare il rischio della propria morte – e dall’altro la salvezza che deriva dall’andarsene? La salvezza deriva da una negazione dell’appartenenza?
Non lo so se la salvezza sia una negazione dell’appartenenza. La mia esperienza che, di nuovo, non fa statistica, mi fa pensare che ci sia sempre, all’interno di un gruppo familiare o di una comunità, qualcuno che ha la responsabilità di portare in salvo l’idea di futuro. Perciò ho sempre interpretato la fuga non come una non appartenenza ma, al contrario, come l’idea di tentare di salvaguardare un’idea, una speranza di un possibile ritorno. E non è un caso che i dati delle guerre recenti ci confermino questo – ma lo vediamo anche in questi giorni con i rifugiati siriani. Aperti i confini, il rifugiato vuole tornare a casa. Questo penso che sia stato il gigantesco fraintendimento dei nostri tempi: non riuscire a capire che le persone che fuggono dalla guerra o da grandi crisi climatiche – le Nazioni Unite nel rapporto annuale di Unhcr parlano del 70 per cento dei rifugiati nel mondo, circa 85 milioni – resta nelle zone limitrofe al luogo di fuga – che sono, per la stragrande maggioranza (75 per cento), Paesi in via di sviluppo, non Paesi sviluppati, in condizioni ai limiti della vivibilità. Pensiamo al milione e mezzo di rifugiati siriani in Libano che hanno vissuto in tendopoli che non hanno mai avuto la dignità di essere chiamati campi profughi, perché il Libano nel 2015 ha smesso addirittura di fare il censimento, chiedendo alle Nazioni Unite di smettere di contare i rifugiati che entravano dalla guerra in Siria… I siriani sono rimasti lì 10 anni perché dalla valle della Beqa e d’Aarsal vedevano la Siria e speravano un giorno che la guerra finisse e di poter tornare immediatamente a casa loro.

Stiamo vedendo questo flusso al contrario delle persone che hanno lasciato la Siria 10 anni fa e la prima cosa che fanno, nel momento in cui la Siria viene liberata dopo 24 anni di regime, è tornare a casa. Nello specifico dell’Ucraina abbiamo assistito ad una dinamica molto simile. Il nostro malandato e bistrattato continente, che ha avuto per anni paura di 100 mila arrivi dal Mediterraneo centrale – considerandoli, come disse il ministro Minniti, una «minaccia alla democrazia” – è stato in grado, nei primi 3 mesi dopo l’invasione russa in Ucraina, di accogliere più di 3 milioni di rifugiati. Li abbiamo accolti in Polonia, in Nord Europa, e anche in Italia in misura minore. Ma questi rifugiati in fuga dalla guerra hanno raggiunto per lo più le loro comunità ucraine presenti negli altri paesi europei.

Successivamente, non appena le zone ucraine erano state liberate la quasi totalità è tornata lì. In questo senso non vedo contraddizione tra il restare e la fuga. Anzi mi sembra che le due cose siano combinate, siano due facce della stessa medaglia.

Si è sentito dire che accogliere i migranti bianchi sia più facile, mentre quelli “scuri” o comunque più “altri” no. La storia delle migrazioni in questo paese dice però che prima della guerra in Ucraina i migranti bianchi non venissero accolti. È come se ci fosse una sovradeterminazione per il macro-conflitto, a la “scontro di civiltà” tra Occidente e Russia, per cui, dopo l’invasione russa, gli ucraini diventano dei migranti buoni o comunque più accettabili. Ma, tradizionalmente, la destra italiana – ma anche la Brexit è stata giocata contro i migranti bianchi polacchi ad esempio – ha un problema di xenofobia ulteriore rispetto alla semplice dimensione razziale.. Il razzismo infatti non è solo basato sul colore della pelle. Come leggi questo problema?
Io vedo un tema di razzismo rispetto al flusso migratorio che arriva dall’Africa, dal Mediterraneo centrale, ma anche dalla rotta balcanica. Il tema mi sembra combinato a un aspetto legato alle tradizioni e alla cultura, oltre che al colore della pelle, che pure credo conti. Penso che molto abbia a che fare con un tema sottilmente presente in ognuna delle guerre contemporanee, una combinazione tra islamofobia e colore della pelle. Alla base del differente approccio all’accoglienza c’è una ricerca di una similitudine, di una somiglianza valoriale rispetto alle tradizioni religiose. E quindi le comunità che arrivano dal Mediterraneo Centrale, dal Bangladesh o dal Pakistan sono più “difficili” da accogliere rispetto ai 3 milioni di cristiani che sono vestiti come noi, che hanno i figli che giocano agli stessi giochi con cui giocano i nostri e che vedono su Netflix le medesime cose.

C’è quindi un tema di abitudine legato a delle tradizioni culturali e religiose, ma anche questo è razzismo. Da un punto di vista pragmatico, è evidente che accogliere una persona che ci “somiglia”, sia più semplice che accogliere una persona che ha delle tradizioni religiose, culturali, gastronomiche, di stile di vita, più diverse dalle nostre. Ma è proprio questa la sfida dell’accoglienza. È quello che ha sempre detto l’Alto Commissario Unhcr Filippo Grandi ogni anno, quando presenta il rapporto sui rifugiati nel mondo. La sfida non è accogliere chi ci somiglia, ma accogliere le persone che sono più distanti da noi. E trovare così il modo più costruttivo per tutte le comunità – sia di quelle ospitate che di quelle ospitanti – per rendere questo percorso, che è un percorso di sradicamento da un lato e di accoglienza dall’altro, il più costruttivo possibile.

È per questo che l’Unhcr ha sempre detto che bisogna abolire il trattato di Dublino e facilitare l’ingresso delle persone rifugiate nei paesi in cui le persone rifugiate hanno qualcuno che li aspetta. Perché è evidente che una persona si ambienti e si insedi più facilmente in una comunità, se ha lì qualcuno che l’aspetta, della propria famiglia ristretta o allargata, o che abbia già un lavoro o dei figli a scuola nel paese ospitante. Questa cosa è stata consentita agli ucraini in fuga della guerra: se avevano un parente in Lussemburgo, a Berlino o a Roma, lo potevano raggiungere. Ma la stessa possibilità non è consentita alle persone migranti che arrivano sulla rotta del mediterraneo centrale e su quella balcanica.

In copertina: un’immagine tratta da Lirica Ucraina