Industry | Dal numero

La maglieria nobile di Filippo de Laurentiis

Filippo Ferrante de Laurentiis ci racconta il marchio di maglieria di altissima qualità, la cui sede è nel cuore dell’Abruzzo, e di come si costruisce una moda davvero sostenibile.

di Federica Caiazzo

Mentre lo si ascolta parlare, sembra quasi di essere con lui in cammino tra luoghi, immagini, sensazioni tattili e olfattive. Chiacchierare con Filippo Ferrante de Laurentiis è come partire per un viaggio sensoriale che inizia dai ricordi di quando era bambino e procede verso la comprensione di ciò che lui definisce «la sensibilità del tocco». Ed è su quella sensibilità che si fonda il marchio di maglieria sostenibile da lui fondato a Pescara nel 2013: Filippo de Laurentiis. Alle sue spalle, lo storico maglificio di famiglia in attività sin dagli anni Settanta, di cui suo padre Carmine Ferrante è oggi Amministratore delegato. È Filippo, però, l’anello di congiunzione tra l’heritage dell’azienda e il suo futuro. Con lui abbiamo parlato di cosa significa oggi artigianato prezioso e di come si costruisce oggi una moda davvero sostenibile, valorizzando «il lavoro manuale che a lungo è stato svilito».

Hai vissuto il lanificio sin da bambino: un capo di maglieria che ti ricorda l’infanzia?
I primi ricordi del lanificio risalgono ai tempi della scuola elementare, avevo tra i sei e gli otto anni e andavo lì a giocare: l’odore della lana era pungente, forte. Erano gli anni Novanta e una delle maglie che più spopolava era quella a collo alto con mezza zip: è molto evocativa per me, mi ricorda quando tutto era facile.

Dagli studi in ingegneria gestionale all’azienda di famiglia: com’è iniziato il tuo percorso?
Nel 2010, appena laureato, accantonai l’idea di iniziare la mia carriera a Milano in qualche società di consulenza. Mio padre aveva deciso di separarsi dagli ex soci, così accettai la sfida in questo settore diverso da ciò che avevo studiato. Avevo tanta volontà, ma zero esperienza. Il mio marchio nacque dopo tre anni di gavetta in produzione, appassionandomi alla tecnica della maglia.

Nel 2014 lanci il tuo marchio, una bella sfida.
Mio padre approcciò il nuovo capitolo con il metodo aziendale degli anni Ottanta e Novanta: non poteva funzionare. Era il momento del boom del fast fashion, fagocitava il ceto medio. Mio padre capì che non poteva competere contro quei volumi. Fu Masterchef a ispirarmi: in quegli anni si cominciò a parlare del ritorno alla cucina semplice, con prodotti di qualità. Lo slow food mi indusse a pensare che anche nella moda ci sarebbe stato spazio per una nicchia. Ripensai la collezione, più ristretta: pochi pezzi e fatti bene. Lavorai sulla coerenza, a cosa raccontare con il prodotto. Individuai i limiti e li trasformai in risorse da valorizzare. Cambiai tutto per non cambiare niente, esercizio evolutivo che ci ha ben riposizionati.

Contemporaneamente, hai maturato la tua sensibilità estetica.
La definirei sensibilità personale, non estetica. Sono sempre stato appassionato di arte e musica: da bambino ho studiato pianoforte, poi mi avvicinai alla chitarra con particolare attenzione a improvvisazione e jazz. Apprendendo la tecnica della maglieria in azienda, capii poi che avrei potuto esprimere me stesso anche attraverso quest’ultima.

Quali sono le caratteristiche fondamentali del marchio?Indipendente come l’essenzialità: togliere dettagli invece di aggiungere. Equilibrato, come la coesistenza degli opposti. Contemporaneo: attualizza il mio pensiero. Trasversale: una maglia può piacere a una signora come a un ragazzo. Senza tempo: i colori sono portatori di messaggi, non di tendenze.

Filippo Ferrante de Laurentiis. Foto courtesy of Domingo Communication

Quali sono le tue principali fonti di ispirazione?
Musicalmente, il jazz tradizionale, anni Cinquanta e Sessanta. Non quello fusion… che per me è come la pizza con l’ananas! Il jazz unisce i contrasti, si basa sulla matematica iper razionale dell’armonia, usa l’emotività del blues, si fonda sull’improvvisazione, sul qui e ora. Della filosofia occidentale, mi ispira l’esistenzialismo. Di quella orientale, l’accettazione della coesistenza degli opposti. Dal mio interesse per il buddismo, ai tempi dell’università, iniziai meditazione trascendentale: scoprii un equilibrio con me stesso non necessariamente razionale.

Dal 2022, la collaborazione con Pic-nic Affair. Come è nata? Conoscevi già l’ideatore Jacopo Pizzicannella?
Io e Jacopo avevamo amici in comune. Pic-nic Affair si fonda sull’idea del trans-romanticismo come risposta classica alle esagerazioni dell’avanguardia, per tornare a parlare di arte, cultura, filosofia classica. Gli eventi sono aperti a pochi, hanno sempre una dimensione umana che favorisce il confronto. L’evento sponsorizzato quest’estate in Sicilia ha previsto sessioni di yoga con musica elettronica. I partecipanti sembravano fiori nel prato, indossavano infatti le mie maglie nei colori dei fiori: lilla, malva, turchese.

La collezione Autunno Inverno 2023-2024 racconta sensazioni olfattive. Da dove arrivano?
Sono profumi che arrivano da colori pungenti ma rilassanti. Morbidi, ma intensi: la loro intensità sveglia, fa restare nel momento presente. C’è la consapevolezza calma che si percepisce nella buona meditazione. Ho voluto raccontare come vestirebbe lo stesso uomo in momenti diversi: a lavoro, in palestra, durante la meditazione, a tennis con gli amici.

C’è anche un capsule, con un nome speciale.
La capsule, che funziona un po’ come un laboratorio creativo, racchiude capi molto particolari e iper stagionali, con filati esclusivi e un’etichetta a parte. Non è assolutamente slegata, anzi è esattamente il mio brand, ma molto più emotivo e con tanto estro in più. È un’integrazione al resto, senza un particolare fine commerciale. L’ho chiamata con la lettera greca Φ, che è la F e l’iniziale del mio nome. Visivamente ha anche la I e la O di Filippo, penso sia molto coerente.

Come avviene la commissione della produzione ai laboratori di Umbria, Marche e Abruzzo?
I laboratori sono divisi per fase: quello che lavora esclusivamente per noi si occupa di finissaggio, lavanderia, controllo e stireria. Fasi che danno un’uniformità incredibile all’aspetto del capo. Ci sarebbe una differenza sostanziale se un nostro capo fosse affidato a un’altra stireria: cambierebbe la resa. Altre eccellenze italiane a cui ci affidiamo per amore del prodotto sono un po’ più delocalizzate rispetto a noi, come la tintoria in capo per il cashmere a Perugia e la tintoria del cotone in Veneto.

Ricambio generazionale e savoir-faire: in che modo l’azienda guarda al domani?
Domani è oggi. Abbiamo investito sui fasonisti terzisti che già lavoravano per mio padre, comprando le macchine a chi aveva figli giovani, commissionando lavoro perché potessero crescere. La nostra è un’azienda diffusa, un ecosistema in cui si va avanti tutti insieme: molti laboratori sono piccoli, non hanno soldi per investire. Già che lavorano esclusivamente per noi, noi investiamo nelle loro attrezzerie e il loro personale, consentendogli di assumere nuove persone a cui insegnare il lavoro.

Un capo di maglieria di cui oggi sei fiero?
Le nostre maglie super sottili. Sono le più difficili, esaltano i pregi ma pure tutti i difetti: si può acquistare anche il filato più costoso del mondo, ma per fare una bella maglia occorre la sensibilità del tocco. È un’unicità che a parole non si spiega, è il tatto a farne percepire la bellezza. E poi la maglieria sottile è anche sostenibile in termini di vendite, perché è adatta a ogni stagione.

Sostenibilità, dunque. Qual è l’approccio del brand in materia?
I tessuti sostenibili, come materie prime nobili GOTs e RWS che già usiamo, stanno diventando standard. La chiave della sostenibilità a mio avviso riguarda gli scarti. La crisi climatica e l’autodistruzione che la nostra società ha generato dipendono al 99 per cento dalla sovrapproduzione a ritmo folle. Noi produciamo su commessa, equilibrando domanda e offerta: i nostri 250 mila capi all’anno sono uno spillo rispetto alle produzioni da un milione di pezzi. Inoltre, la maglieria – a differenza della confezione, dove si taglia e si scarta il tessuto – è molto più sostenibile perché non comporta scarti di lavorazione, se non per teli rotti o filati che non vanno bene. Parliamo di un 5 per cento, mentre nella confezione viene scartato il 20-30 per cento del materiale.

Come immagini l’innovazione in questo campo?
Non solo attraverso i tessuti. L’innovazione non è facile, è un settore molto tradizionale. Bisogna tornare a garantire l’equilibrio di filiera, ragionare sulle stagionalità: c’è da innovare, ma in primis a livello strategico. È lì che si può fare la differenza, sia per la sostenibilità sia per valorizzare il lavoro manuale che è stato a lungo svilito.

Foto in apertura di Antonio Giancaspro