Palma d'oro a Cannes, serissimo candidato all'Oscar per il Miglior film internazionale, nel suo nuovo film il regista immagina gli iraniani alle prese con l'inimmaginabile: quello che succederà dopo la fine della Repubblica islamica.
Quasi tutti i film sono scuse che i registi si inventano per fare tutt’altro: allontanarsi dalla famiglia o da casa, spendere o guadagnare soldi, parlare bene di se stessi o male degli altri, soddisfare questo o quel capriccio. Jim Jarmusch non si è mai preoccupato granché della propria reputazione, quindi non si fa problemi a dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Anche quando la cosa rischia di metterlo in un certo imbarazzo: ci deve essere una motivazione profonda, un altissimo scopo dietro il film con il quale hai vinto il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia, non è così, Jim? «L’ho fatto solo perché mi andava di fare una cosa con Tom Waits e Adam Driver», ha ammesso candidissimamente Jarmusch di Father Mother Sister Brother. Ah. Allora sarà per questo che dopo aver vinto il Leone d’oro il più sorpreso di tutti è sembrato proprio lui. «Oh, cazzo», ha esclamato, salendo sul palco per prendersi il premio.
E quindi basta così, è tutto qui? No, certo che no, non basta mica quello, fare un film non è certo un fatto tanto semplice. Per esempio, prendiamo il casting: quella è una cosa difficile e importante da fare, soprattutto in film che come questo sono costruiti tutti attorno alle interpretazioni degli attori, con un’infinità di primi piani, di campi e controcampi, di inquadratura che servono quasi esclusivamente a incorniciare i volti. Certo il casting è un lavoro difficile, ha spiegato Jarmusch. Ed è proprio per questo che lui cerca di non angustiarsi troppo con il pensiero. Dopo Tom Waits e Adam Driver, in ordine cronologico la terza protagonista che ha scelto per Father Mother Sister Brother è stata Mayim Bialik. Il provino di Bialik è andato così: Jarmusch è il più grande fan al mondo di Jeopardy!, il quiz americano su cui era basato l’italiano Rischiatutto, per capirci. Una sera, special host di quella puntata di Jeopardy! era proprio Bialik. Jarmusch la vide, gli piacque e decise che sarebbe stata lei la protagonista femminile di quel film fatto per far recitare assieme Waits e Driver. «Io non la conoscevo. Però mi hanno detto che è una famosa attrice televisiva, no?», dice ancora oggi.
Il patriarca del cinema indie americano
E d’accordo, il casting è andato così e d’altronde non deve essere difficile per il patriarca del cinema indie americano lavorare con gli attori che gli piacciono, farsi dire sì da Driver e Bialik, e poi da Charlotte Rampling e Cate Blanchett e Vicky Krieps (le protagoniste del secondo pannello di questo trittico cinematografico, cioè Mother), e figuriamoci da due quasi sconosciuti come Indya Moore e Luka Sabbat (protagonisti del terzo e ultimo pannello, cioè Sister Brother), non deve essere tanto difficile. Ma la sceneggiatura, la sceneggiatura sarà stata difficile da scrivere: lo stesso tema – la famiglia – diviso in tre parti e visto attraverso otto punti di vista diversi, tutto tenuto assieme da sottilissimi tratti d’unione e rimandi apparentemente insignificanti. Deve essere stato difficile scrivere una sceneggiatura così, no? No, ha detto Jarmusch. «Io sono uno che scrive molto velocemente perché voglio togliermi il pensiero il prima possibile». Ci ha messo circa un mese a finire la sceneggiatura, ha spiegato.
E va bene, ci sta che a 72 anni un regista padroneggi il mestiere così tanto e così bene da piegare pure i tempi di lavorazione di un soggetto alla sua indole frettolosa. Ma ci sono parti di un film che non hanno niente a che fare né con la programmazione né con la lavorazione, sono idee, immagini che compaiono all’improvviso nella testa di un regista e che hanno senso soltanto per lui almeno fino a quando non vengo proiettate sullo schermo. Questi poetici skater che attraversano in slow motion il prosaico mondo in cui vivono il padre, la madre, la sorella e il fratello, come hai fatto a farteli venire in mente, Jim. E che significano, cosa ci vuoi dire con quei salti e quegli atterraggi, quelle immagini rallentate, quegli archi in sottofondo. Semplicemente, «mi piacciono gli skater. […] Sono non binari, detestano l’autorità. E penso siano belli da guardare, anche. Sono strani. Mi fanno pensare a J.G. Ballard. E all’apocalisse».
Ci sta anche che a 72 anni un ribelle abbia finito di scherzare, che l’unica cosa che gli interessi sia una vita tranquilla, una sedia messa davanti a un finestra con vista lago, una visita dei figli ma non di più, ché una è poco e due sono troppe. Jarmusch questo desiderio ormai lo ammette ma un po’ se ne vergogna, come tutti i Gen X che proprio non si rassegnano al fatto di essere diventati i loro genitori. Ma per fortuna un regista può parlare di se stesso tramite l’attore feticcio che si è scelto, e quando questo attore feticcio è Tom Waits hai voglia a farlo sembrare un povero rimbambito: quello è sempre Tom Waits, e Jarmusch è sempre Jarmusch, e non è certo un caso che alla fine l’unico personaggio che mantiene intatta la sua coolness in tutto il film sia proprio il padre che è Waits e che è Jarmusch.
Lessico famigliare
Tutto questo per dire una cosa soltanto, cioè che il talento di un regista (e la sua fama e il suo potere) si misura però nella distanza tra le intenzioni e i risultati. Per quanto modeste potessero essere all’inizio le intenzioni di Jarmusch con Father Mother Sister Brother, il risultato è un film che riesce nel miracolo di affrontare “seriamente” e compiutamente uno dei momenti più angoscianti dell’esperienza umana: l’incontro con la propria famiglia d’origine. Chissà quanto volutamente, Jarmusch ha fatto il film natalizio perfetto, il racconto di un’esperienza alla quale milioni di persone in questi giorni sono costrette dal calendario: ritrovare papà ogni anno un po’ più trasandato, un po’ più spettinato, un po’ più pazzo, con i vestiti un po’ più sformati, in una casa un po’ più disordinata; ritrovarsi davanti al tribunale materno, imputati in un processo in cui si è sempre colpevoli delle proprie scelte di vita, davanti a una giuria che si esprime a frecciatine, occhiatacce e sorrisetti ma che inevitabilmente assolve, perdona e dimentica; scoprire la bellezza di un fratello o di una sorella diventato/a grande all’improvviso, come se il tempo passato lontani l’uno dall’altra scorresse più in fretta e a separare le stagioni con le rispettive vacanze ci fossero gli anni invece dei mesi.
Father Mother Sister Brother è come il box in cui Skye e Billy, la sorella e il fratello del titolo, mettono tutto ciò che resta dei loro genitori, morti troppo giovani in un incidente aereo troppo evitabile. Il box è minuscolo ma basta a contenere due vite intere, una storia d’amore, due figli, una casa a Parigi, avventure in giro per il mondo. Eppure, anche se minuscolo, una volta riempito il box diventa inesplorabile per Skye e Billy, la vita dei loro genitori per sempre inaccessibile e inconoscibile. E succede la stessa cosa nella storia del padre, che ai figli nasconde la sua vera identità sotto uno strato di scenografico disordine, tenendo la sua vera vita (pulita, ordinata, di design, di completi firmati e Rolex al polso e macchine d’epoca e i mobili belli che compra con i soldi che gli arrivano da un figlio che lo crede indigente) nascosta all’inaccessibile piano di sopra della casa in mezzo al nulla in cui fa finta di essersi lasciato andare. E succede la stessa cosa nella storia della madre, che vieta alle sue figlie di tirare fuori dagli scatoloni le copie dei best seller che scrive e che le permettono di comprare i pasticcini più golosi e i tè più sfiziosi per l’annuale merenda in famiglia. Father Mother Sister Brother è proprio questo, un racconto di quanto minuscoli siano i pezzi della nostra stessa famiglia che vediamo e che conosciamo. E di quanto grandi siano le storie che contengono quei dettagli, troppo lunghe per essere raccontate tutte quante, destinate a diventare leggende, invenzioni dei posteri a cui gli antenati hanno lasciato soltanto sbreccate reperti archeologici.
«Oh, cazzo»
Father Mother Sister Brother è un film piccolo, all’apparenza (è anche conseguenza del disastro finanziario che fu I morti non muoiono, una delle più grandi produzioni a cui Jarmusch abbia mai partecipato, finita con i produttori che lo chiamavano continuamente al telefono per dirgli che siccome aveva speso più di quanto previsto, per fare pari e patta sarebbe stato pagato solo in quanto regista e non pure in quanto sceneggiatore). Fatto di inquadrature strette, brevi movimenti di camera, pochi stacchi di montaggio, quasi nessuna colonna sonora, concentrato ossessivamente su cose e fatti che appaiono insignificanti: una vecchia battuta che nessuno capisce né trova divertente – non mi metto a spiegarla perché Jarmusch, avendo il senso dell’umorismo, non lo fa manco lui, ma la battuta è “and Bob’s your uncle!” – il caffè, il rubinetto che perde, i soldi per pagare un Uber, una busta piena di vecchie fotografie e documenti. Ma non è così che sono piccole e insignificanti tutte le vicende di tutte le famiglia? Solo avvicinandosi molto e guardando a fondo e a lungo si riescono a intravedere le storie tragicomiche che stanno dietro. E a quel punto, l’unica reazione possibile è la stessa che ha avuto Jarmusch quando gli hanno detto che aveva vinto il Leone d’oro: «Oh, cazzo».
C'è la sua firma su 1992, Gomorra, The Bad Guy, Esterno notte, Il traditore e Il maestro. E adesso anche su una delle sorprese di questo anno cinematografico: Breve storia d'amore, la sua opera prima da regista.
