Il libro appena uscito di Filippo Ceccarelli, il documentario Netflix sugli anni giovanili, la miriade di film, articoli, saggi, aneddoti che lo riguardano sono la conferma di una cosa: la fascinazione per Berlusconi non è affatto finita.
Nella cinematografia Disney è spesso presente il personaggio che aiuta il cattivo. Il corvo con Malefica, Iago con Jafar, Sir Bis con il principe Giovanni, le iene con Scar. Il ruolo dell’aiutante negativo ha, più del cattivo, un forte elemento comico, che rende accettabile la cattiveria totale al pubblico infantile. Non solo viene deriso dagli eroi, ma diventa anche vittima dei soprusi del suo superiore. Adorante, non ha altro scopo se non la difesa, l’intrattenimento e la glorificazione del suo capo – perché non vede alternativa – oltre che l’obiettivo, in fondo, della propria sopravvivenza, e solo a volte abbandona il proprio boss. In questo provoca nel pubblico una certa simpatia, che al cattivo è preclusa. Questo è stato il ruolo di Emilio Fede nella grande commedia del secondo novecento italiano. E’ un ruolo antico, tragico e comico, che troviamo nelle fiabe – appunto, La bella addormentata – quanto nel teatro – cos’è Il Re Leone se non un Amleto animalesco col sogno americano?
Emilio Fede, nell’immaginario millennial, è il famiglio, il sicofante, lo scagnozzo al servizio del superuomo berlusconiano che sogna uno stravolgimento – liberale! – dello status quo. Nei tempi pre special stand up comedy di Netflix esisteva nei canali Mediaset un programma, Zelig, dove sul palco vari comici portavano i loro personaggi. Uno di questi, interpretato da Beppe Braida, era proprio Emilio Fede. Non servivano trucco e parrucco, bastava la lettura di una notizia amplificandone il possibile pericolo per la figura del premier Silvio Berlusconi. «Attentato! Si tratta di attentato!», diceva Braida, ridicolizzando la fedeltà e la preoccupazione per la sicurezza del presidente del consiglio. Una stessa notizia letta dal conduttore di TG3 (sinistra), TG5 (berlusconiano ma moderato) e TG4 (il telegiornale di cui era direttore Fede) diventava, esagerandola, l’occasione per sfottere l’assoluta devozione per “il Presidente”. Non è un caso che in Aprile, di Nanni Moretti, appaia lui in tva dare i risultati elettorali.
Prima di diventare Iago
Ma Emilio Fede, nato a Barcellona Pozzo di Gotto nel 1931 e morto ieri, a 95 anni, a Segrate, non è stato solo questo. Il suo ruolo da Iago è solo una parte della sua lunga carriera nel giornalismo, soprattutto televisivo. Conduttore del TG1 (cioè di quello che per decenni è stato il più importante telegiornale) negli anni ’70, direttore per un breve periodo. E anche responsabile di aver scelto di fare una diretta di 18 ore, seguitissima – inizio della “tv del dolore” – per la tragedia del piccolo Alfredino caduto in un pozzo artesiano fuori Frascati. E poi, quando ancora sembrava una cosa strana, il lancio nella tv privata, diventando primo direttore di un tg non pubblico, sulla stessa rete che ospitava Wanna Marchi e le telenovelas sudamericane.
E poi l’inizio del rapporto con Berlusconi durato quasi vent’anni, come volto di punta della difesa delle azioni del capo, oltre che ideatore delle “meteorine”. L’esagerazione di Fede fu tale da renderlo oggetto di derisione anche dentro gli stessi canali berlusconiani, come Striscia la Notizia, dove venivano proposti i suoi fuori onda in cui perdeva le staffe, ma anche dentro i circoli politici del centrodestra veniva visto come troppo adorante. Non è un caso che in un’altra routine comica in voga in quegli anni, questa volta a sinistra, Fede fosse il nemico numero uno del sicofante immaginario interpretato da Antonio Cornacchione negli sketch di Che Tempo Che Fa «Povero Silvio!», dove tutti gli eventi politici venivano rigirati per mostrare il vittimismo intrinseco di Berlusconi. Gli altri scagnozzi non potevano arrivare a quel grado di idolatria.
Perché? Perché, almeno nella narrazione, nessuno poteva batterlo nella sua adorazione, anche perché questa appariva davvero sincera. Non sembrava che in Emilio Fede, a un certo punto della sua carriera, ci fosse il minimo interesse di guadagno o sopravvivenza lavorativa (questo lo differenzia da molti successivi editorialisti e direttori da talk), anzi, il suo amore per il cavaliere sembrava quello di un bambino per il genitore, di un fedele per il profeta, di un suddito per il sovrano illuminato. La sua frase dopo la vittoria berlusconiana – «un successo strameritato» – è piena di emozione, la voce è quasi spezzata, gli occhi lucidi, ed è diventata memetica, così smodata (ma sentita) che se apparisse in un film sembrerebbe falsa. «Silvio Berlusconi ha vinto la sua battaglia», dice al Tg nel ‘94, «con grande coraggio, quasi contro tutto e quasi contro tutti», anche contro chi gli consigliava di non entrare in politica. Su questo Fede litigò apertamente con Indro Montanelli, contrario alla discesa in campo, e Fede lo definì un «piccolo uomo», un «vecchio malvissuto e rimbambito». Perché non sembrava concepire non solo chi odiasse il suo beneamato, ma chi non voleva vederne in azione le piene potenzialità, lui che a differenza dello snob Montanelli chiedeva di esser tumulato con Silvio nel mausoleo della villa di Arcore.
L’Emilio innamorato
La storia di questo impotente Orlando innamorato, capace di superare in probo servilismo gli altri proci, diventa ancora più tragica nel momento della rottura con il suo editore, che avviene nel 2012 per una questione stipendiale (mescolata con i processi e i gossip sul caso Ruby e sui Bunga Bunga). Non ha mai ottenuto cariche politiche da quel lavoro e la sua esistenza post-berlusconiana è tragica. Fonda un partito, “Vogliamo vivere” che non riceve alcuna attenzione, e poi scompare.
Da volto ammiraglio Fininvest con stipendio da Fox News, finisce a Vero Capri (canale 55 del digitale terrestre) e poi come ospite su Cusano Italia Tv. Diventa per un brevissimo tempo direttore di un giornale mai sentito, organo del partito Democrazia italiana per le autonomie. Scrive per un po’ sul settimanale Visto. È solo, è abbandonato. Nonostante tutto non parla male di Silvio. «Berlusconi è la patria, spero di poterlo andare a trovare al Quirinale», dice nel 2021. La sua fedeltà non ha dato i frutti sperati, ma nonostante tutto, e proprio perché questa fedeltà appare sincera, non cambia casacca, non si reinventa. E Resta tra le rovine di Milano 2 e quando Berlusconi muore lui piange davvero, di cuore. Nel 2005 aveva scritto un libro per Marsilio che accenna al rimpianto dal titolo Se tornassi ad Arcore, dopo decenni di pubblicazioni mondadoriane piene di ottimismo.
E se i boomer ricordano un Fede inviato incravattato Rai, i Gen X un Fede volto abbronzatissimo e giocatore d’azzardo incallito con cameo nei film di Neri Parenti, se i millennial lo ricordano come un esagerato tirapiedi innocente, forse la Gen Z, se lo conosce, conosce un altro Fede. Cioè quello di TikTok, degli scherzi telefonici, degli scleri alla Zanzara, dell’audio di «Che figura di merda» mandato in loop, del volto tumefatto, delle lacrime, dell’arresto spettacolare in una pizzeria a Napoli per evasione, e poi della sfuriata in automobile contro l’autista che lo fa arrivare tardi al funerale del suo beniamino. Ora che è morto ci si chiede quale immagine resterà.
Per tornare all’analogia disneyana, Emilio Fede come Iago e Sir Biss si è dimostrato un personaggio necessario per capire i limiti e le qualità degli altri partecipanti alla commedia. Fede è stato un feticcio e un punchball, uno specchio esagerato, estremo, di cosa si può arrivare a fare quando ci si dedica così tanto a difendere un uomo messianico. Come scrisse la giornalista Norma Rangeri: «Prendere sottogamba Fede è da sciocchi, è non capire come funziona il sistema».