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Bellingcat, la verità dietro guerre e regimi
Furono tra i primi a denunciare l'uso di armi chimiche in Siria, e da lì sono diventati la più importante piattaforma di citizen journalism del mondo: dal nuovo numero di Rivista Studio, intervista a Eliot Higgins, fondatore e direttore di Bellingcat.
Il sogno originario di internet come strumento di libertà, giustizia e conoscenza talvolta appare ancora all’orizzonte, come il famoso raggio verde che indugia pochi secondi tra il sole e il mare prima che il tramonto si concluda del tutto. Quella cometa di speranza è apparsa, per esempio, nel 2014, quando un gruppo di cittadini un po’ in fissa con la giustizia, l’investigazione, le armi e la geolocalizzazione è riuscito a dimostrare che il volo Malaysian Airlines 17, abbattuto sui cieli dell’Ucraina orientale il 17 luglio 2014, fu una strage commessa dall’esercito separatista filorusso in Donetsk.
Quel gruppo di persone si chiamava, e si chiama ancora, Bellingcat, e quella è stata la loro prima, importante indagine. Il metodo di investigazione si basava sullo scandagliare tutto ciò che è disponibile su internet, ovvero sfruttare tutto il potenziale che i social, da un lato, e la tecnologia satellitare, dall’altro, mettono a disposizione di tutti, spesso inconsapevolmente. Trovare “breadcrumbs”, briciole di pane. Come andò, in brevissimo, quella prima, storica, investigazione? Il team di Bellingcat si mise a cercare diversi video amatoriali postati su Youtube o Twitter che mostravano un modulo lanciamissili trasportato sul rimorchio di un camion Volvo, nell’Ucraina occupata. Sul camion, un cartello indicava un numero di telefono. Bellingcat chiamò il numero di telefono. Rispose il proprietario di un deposito di veicoli, disse che quel rimorchio gli era stato sequestrato pochi giorni prima dai separatisti. Il gruppo di ricerca raccolse quindi prove fotografiche: satellitari o raccolte in giro per internet. Seguì il movimento del camion Volvo confrontando decine di foto postate su altri social. Quale veniva prima, e quale dopo? Facile: lo si capiva dalle ombre lasciate dagli edifici. Quindi ecco il passaggio attraverso diverse città: Donetsk, Zuhres, Torez, fino a Snizhne. Poi, altre tracce: fotografie di una colonna di fumo bianco, possibile prova di un missile lanciato. Immagini satellitari che mostravano le tracce cingolate di un mezzo pesante, proprio come il lanciamissili Buk, impresse in profondità nella terra di certi campi coltivati. Messaggi audio di cittadini che discutevano del lancio di un missile. E via così, più o meno. Tassello per tassello, fino a formare un puzzle.
Si chiamano investigazioni OSINT, acronimo di Open Source Intelligence. Si tratta di raccogliere tutte le possibili prove che si trovano online, e metterle insieme per formare un quadro: prove seminate sui social media, data mining da motori di ricerca, confronto con informazioni reperite da documenti o registri pubblici. Il fondatore di Bellingcat si chiama Eliot Higgins, è nato nel 1979, ed è passato da essere un commentatore assiduo della sezione “Commenti” del Guardian, a essere il più importante “citizen journalist” del mondo, e mostrare le chiare prove che Bashar al-Assad utilizzava armi chimiche contro i civili nella Guerra civile siriana.
Quando lo incontro su Zoom è gentile e rilassato, paziente nel ripetere storie che avrà sciorinato centinaia di volte. Mi racconta di questa avventura straordinaria dall’inizio, come se fosse una passione un po’ nerd che cresce normalmente. Prima di Bellingcat, il suo blog si chiamava Brown Moses, «se ci vai adesso, fa veramente schifo. Ma perché per me era solo un hobby». Lui si appassiona alle guerre in Medio Oriente: quella in Libia, poi quella in Siria. Inizia a frugare nei video postati online, ci passa ore, si fissa con le armi. La domanda da cui sgorga tutta questa passione per la verità, penso, non nasce così lontana dalla sorgente da cui nascono i dubbi che portano poi a catastrofiche risposte complottiste. Qualcosa che fa più o meno così: qui qualcosa non quadra, ma cosa? Quello che cambia tutto, nel modo di dare una risposta, è la volontà di fare le cose bene, fino al più piccolo dettaglio.
«Prima non avevo nessun tipo di esperienza nel giornalismo investigativo, ma un sacco di interessi legati agli affari esteri. Passavo molto tempo su internet, ed ero parte di queste community, come quella del Guardian nella sezione commenti. Quando sono iniziate le Primavere arabe, mi sembrava frustrante che un sacco di video che venivano da posti come l’Egitto, la Siria e la Libia venissero completamente ignorati dai media per questioni di attendibilità». Higgins decide allora di verificarle, di triangolarle, di costruirci delle informazioni nuove. Come tasselli di un puzzle. «Mi è semplicemente venuta questa idea di confrontare le immagini dei video con quelle di Google Maps per geolocalizzare i fatti. E da quel punto in poi, penso perché stavo aggiungendo qualcosa ai dibattiti in quei forum, ho iniziato a essere contattato dai giornalisti». Durante le Primavere arabe, nel 2011, si discusse molto di meta-giornalismo, per la prima volta da anni. Qualcosa di grosso stava succedendo nel modo di fare il mestiere: per la prima volta, i contenuti video girati in modo amatoriale dai protagonisti delle storie narrate venivano utilizzati per raccontare il conflitto. Quello che fino ad allora era il pubblico stava diventando il media stesso. Come è cambiato, nel tempo, questo panorama? Higgins dice: «Il tipo di social media in cui fare ricerca cambia nel tempo, e da Paese a Paese. Con la Siria, per esempio, le principali piattaforme erano Facebook, Twitter e YouTube. In Ucraina è TikTok la fonte migliore. Poi ci sono cose come i siti di tracciamento del traffico marino o di quello aereo, le mappe della Nasa degli incendi, che ti permettono di vedere tutti gli incendi in tempo reale nel mondo. E intorno a questi siti, si sviluppano delle comunità con le loro tecniche di investigazione Open Source».
Oggi Bellingcat segue diversi tipi di investigazioni: per fare qualche esempio, ha geolocalizzato il luogo in cui Israele ha ucciso il leader di Hamas Yahya Sinwar; ha testimoniato la presenza di mezzi militari israeliani vicini alle basi delle Nazioni Unite in Libano; trovato delle fosse comuni in certe trincee in Burkina Faso; tracciato la rotta di una petroliera che ha seminato petrolio al largo di Tobago. Lo strumento principale di tutto questo è il satellite. «Abbiamo un abbonamento a PlanetLabs», mi spiega Eliot, «non è una cosa economica, ma ci permette di dare al satellite dei compiti: cioè, mandarlo in un posto che ci interessa, e fotografare. Una cosa del genere, vent’anni fa, sarebbe stata a disposizione soltanto della Cia». Nel 2018 è uscito un documentario che racconta la nascita di Bellingcat e il suo funzionamento. Si chiama Bellingcat: Truth in a Post-Truth World. Tra le diverse investigazioni, vediamo quella su un bombardamento effettuato dal regime siriano in un mercato di Atarib, vicino Aleppo. Veniamo introdotti a un membro del team, Timmi Allen: è un graphic designer tedesco di sessant’anni che si è specializzato nella creazione di ambienti 3D. Come funziona: Allen riceve delle immagini aeree della zona bombardata, le trasforma in un ambiente tridimensionale in ogni minimo dettaglio. Poi, con l’utilizzo di un visore per la realtà virtuale, cammina dentro l’ambiente ricreato, per investigarlo… sul campo. Se sembra sbalorditivo, è perché lo è.
In un certo senso, in esperienze come quella di Bellingcat sopravvive un certo afflato comunitario dell’internet due punto zero delle origini: le chat di gruppo, i forum, le wiki. Esseri umani che si organizzano spontaneamente per creare conoscenza. Oggi Bellingcat ha un server Discord con 30 mila persone che collaborano alle investigazioni, ed una comunità fondamentale. «Non è tanto una questione di accesso alle informazioni, ma il tipo di rete che le utilizza», dice Higgins. «Il processo necessario a trasformarle in qualcosa di davvero utile. Abbiamo tonnellate di informazioni, ma sono inutili se non sai utilizzarle».
Nel documentario che ho citato prima, a un certo punto compare Jay Rosen, uno dei più entusiasti fautori del citizen journalism delle origini, nonché associate professor of journalism alla New York University, spiegare l’importanza di questo tipo di giornalismo-attivismo, e la differenza con quello tradizionale. Dice: «La fiducia (nel citizen journalism, ndr) non è generata dal nome della testata o dalla gloria dell’istituzione. Ma dalla trasparenza. Nel citizen journalism il giornalista non approccia il pubblico dicendo: dovete credermi, sono la Bbc. Ma dice: non mi credete? Ecco le prove».
Il nuovo numero di Rivista Studio si intitola “Digital Underground“. Lo trovate in edicola e sul nostro store (qui).
Foto in copertina: ribelli siriani si addestrano in una zona isolata vicina ad Aleppo (Omar Haj Kadour/Afp via Getty Images)