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L’Europa è morta, viva l’Europa
Né la bassissima affluenza né il trionfo della destra: il fatto più sorprendente di queste elezioni è che tutta l'Europa sembra stanca dell'Unione.
«L’Europa? Solenni pronunciamenti sul prezzo delle sardine e dei lupini», diceva Beppe Grillo in tempi non sospetti, nei primi anni Novanta. Poi la sua battuta ispirava un elzeviro di Michele Serra su L’Unità e l’egemonia-culturale-della-sinistra usciva ogni mattina in edicola ancora così, impastata e tirata a mano in famiglia. Fino almeno al 2010 per molti italiani l’Europa è stata questo, una faccenda allo stesso tempo troppo seria e un po’ ridicola, un ingombro che magari un giorno o l’altro tornerà utile, come l’enciclopedia in salotto. Di Europa si parlava una volta ogni lustro circa, come degli sport minori, oppure quando succedeva qualcosa di violento e memorabile, per esempio quella volta in cui Berlusconi diede a Schulz del kapò e lui si indignò in differita, attraverso le cuffie (e quei due secondi in cui Berlusconi sorride come un maniaco aspettando il lag della traduzione simultanea, pregustando lo schianto, restano uno dei documenti più illuminanti sulla natura dionisiaca, o se preferite allegramente luciferina, dell’uomo).
Se avessero già padroneggiato il termine, i sofisticati avrebbero probabilmente detto che l’Europa era un po’ cringe, come l’inno ufficioso della nostra adesione a Maastricht Insieme: 1992 di Toto Cotugno, con cui vincemmo nel 1990 l’Eurovision (che, non ci crederete, all’epoca era cringissimo). Le cose cambiano in un momento abbastanza preciso, novembre 2011, quando Angela Merkel e un umiliante G20 a Cannes possono dove Ruby Rubacuori e Gianfranco Fini – ma prima ancora vent’anni di sinistra, pensosa o scalmanata – avevano fallito. Gli italiani, che notoriamente hanno un approccio pragmatico al regime change, imparano a sputacchiare la parola spread e a temere Moody’s nonostante l’adorabile nome da tavola calda. Non vogliono “fare la fine della Grecia”, ma controllano online i prezzi delle villette a Naxos. Imparano a conoscere politici molto diversi dai nostri, che invece che da I Fatti Vostri sembrano usciti da House of Cards: lo spietato banchiere tedesco in sedia a rotelle, il virile economista greco la cui ammaliante moglie forse ha ispirato Common People a Jarvis Cocker. Il fortino tecnocratico di Francoforte e Bruxelles viene assaltato da una folla di neofiti armati di account social e molto entusiasmo, che fanno scempio dell’idioletto locale confondendo Consiglio d’Europa e Consiglio Europeo e approcciano derivati e debito sovrano con le allegorie imparate all’oratorio: quella familiare del padre risparmiatore o spendaccione, quella di peccato e redenzione.
Si capisce l’entusiasmo quando poi come nelle barzellette arriva l’italiano e rimette tutti a posto, con quel whatever it takes il cui visiting fellow è l’arte di arrangiarsi, forse il solo vero grande slogan del decennio, il Just Do It di tempi rappezzati. Stanche triennali in scienze diplomatiche vengono rispolverate e affisse in bio. Genitori Italians che sotto l’ascendente di Beppe Severgnini avevano foraggiato ai pargoli corsi di lingua e ineffabili summer school londinesi, fin qui poco spendibili in alta Brianza, tornano a sperare in un ritorno d’investimento. In quale altro ordine del discorso un banchiere poteva diventare eroe del popolo, e iscriversi a un master in private equity alla LSE un atto di coraggio civile? La meritocrazia, finalmente.
La politica ci mette poco ad accodarsi. Gli stessi partiti che per decenni avevano trattato Bruxelles come una Sant’Elena dove spedire vecchie glorie e scocciatori scoprono che è lì, si capisce, che si cambiano davvero le cose. A sinistra, l’Europa diventa un surrogato dell’internazionalismo senza la scocciatura di visti e profilassi. A destra una forma di atlantismo in franchise, un campus off-site della scuola di Chicago, con un clima molto migliore ma a rischio di qualche colpo di sole. Presto l’oggetto del contendere diviene l’euro. Si scopre un po’ a sorpresa che gli italiani, il popolo più pecione e reticente d’Europa quando si tratta di parlare di denaro, amano molto invece parlare di valuta (che sapessero maneggiare le monetine, la politica l’aveva già appreso a proprie spese). Scoppiano guerre su Twitter a colpi di bandierine. Diego Fusaro, Michele Boldrin, Gianluigi Paragone, Carlo Cottarelli, Claudio Borghi, Alberto Bagnai. La sovranità va e viene, pure quella psichica.
È evidente che è entrato in gioco qualcosa di più esistenziale dei Btp e dei tassi di cambio. Il successo di pagine satiriche come Gli Eurocrati fotografa una fascinazione che è propria soprattutto dei millennial. Se il paternalismo delle istituzioni europee offende alcuni, ad altri suona come un recupero della promessa tradita da ragazzini che da adulti ci ha spediti tutti dallo psicologo o a yoga dance: se farai i compiti, e li farai bene, sarai premiato. Per un attimo l’Europa sembra davvero il Risiko dove una politica che ha impiegato trent’anni a demandare ai tecnici tutto ciò che era politico nel Novecento potrà inscenare un nuovo campo di battaglia. Sono le elezioni europee a investire una nuova generazione di leader post-tutto: nel 2014 c’è il mitologico 41 per cento di Renzi (mi piace pensare che sia stato proprio il vezzo di arrotondare a 41 il 40,8 per cento uscito dalle urne che il karma gli ha fatto pagare in modo così spietato), il quasi 30 di Salvini che poi chiese i “pieni poteri” (sappiamo tutti com’è finita, e lì secondo me il karma c’entra meno).
Poi finisce tutto. Forse perché ci accorgiamo che gli inglesi che sono usciti non se la passano benissimo, ma i tedeschi nemmeno. Forse perché i Bitcoin e il Covid-19 e ChatGPT se ne fottono di Schengen. Forse perché la differenza tra Consiglio Europeo e Consiglio d’Europa, alla fine, non siamo mai riusciti ad afferrarla. Fast forward 2024, a una delle campagne elettorali per le europee più provinciali di sempre: Vannacci e la X Mas, Forza Italia col morto sui 3×6 come i compagni della mozione Nazzari, il Pd che schiera i venerabili maestri della politica nazionale che più nazionale non si può, da Zingaretti a Bonaccini, e anche qualche esemplare di quell’altra categoria che diceva Arbasino.
L’(anti)europeismo resta, ironia della sorte, la Fortezza Bastiani dei due Mattei, quasi fossero rimasti aggrappati alle brevi estati di gloria delle tornate precedenti: uno con gli Stati Uniti d’Europa, capirai, l’altro che blatera e forse è l’ultimo in Italia a non aver capito che la sovranità, dio ce ne scampi, è come la delega all’assemblea di condominio: non la vuole nessuno. E alla fine, se poco ha potuto il Gesù/Alessandro Borghi incinto della Lega (a parte mandare in analisi l’algoritmo di Midjourney), ancora meno hanno influito gli appelli a “votare, non importa per chi, ma andare a votare“ degli influencer (se non nel ricordarci che un certo tipo di attivismo assomiglia sempre più alla capoeira: passi di danza da esibire al parco, astrattamente legati a un’antica forma di lotta).
E quando sembrava tutto pronto per una serata di litanie sulla bassa affluenza, gli italiani che non vanno a votare perché non ci credono più, gli italiani che non vanno a votare perché nelle democrazie mature è così, roba insomma da disertare le maratone e andarsene a nanna, la notizia dell’ondata di destra nel resto d’Europa ha stravolto (si fa per dire) i palinsesti. A far subito impressione è il tonfo di Macron, che suggella il tramonto di un immaginario che ha fatto sognare anche in Italia, quello di un’Europa Science Po che passa da Paul Ricœur a Rothschild all’Eliseo senza sgualcirsi la camicia bianca, del governo se non proprio dei migliori quantomeno degli overachiever. E subito dopo ci tocca un nuovo giro di presentazioni, decisamente più frizzantine: ecco l’enfant prodige lepenista votato da un francese su tre. Ecco l’ex imbianchino tedesco a cui non piacciono gli immigrati e gli omosessuali. Da House of Cards a La Storia siamo noi.
Una lettura fosca di questo voto potrebbe essere che tutta Europa è stanca dell’Unione, ma come al solito ciò che all’estero assume forme tragiche in Italia si manifesta come weekend al mare. Una più lusinghiera, che appoggia su un cliché che ci è caro, è che l’Italia si conferma “un laboratorio”, e le acque del Reno hanno effuso con qualche anno di ritardo il limo destrorso del quale alle rive del Po siamo ormai sommelier certificati. Qualche commentatore ieratico, e in questi casi non mancano mai, rimpasterà il vecchio adagio: non ci siamo occupati dell’Europa, ora l’Europa si occuperà di noi.
Nell’immagine: una persona si ferma a guardare l’installazione dello street artist italiano Maupal, ispirata da quella di Banksy in cui l’artista inglese distruggeva la sua sua stessa opera pochi secondi dopo che quest’ultima era stata battuta a un’asta Sotheby’s a Londra (Filippo Monteforte/AFP via Getty Images).