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Possiamo davvero essere tutti femministi?

Se n'è parlato tanto in questa settimana e se ne parla anche nel libro I ragazzi possono essere femministi? di Lorenzo Gasparrini, ma è una domanda alla quale non è semplice trovare una risposta.

di Maria Luisa Tagariello

Esiste una convenzione culturale che impone agli uomini di non esprimere le proprie emozioni. “Non piangere, non fare la femminuccia”, è un’espressione che forse i genitori della mia generazione non utilizzano più, eppure l’equazione piangere = essere deboli è inculcata fin dalla prima infanzia, e spesso, anche con le migliori intenzioni, ci troviamo impreparati ad accogliere le emozioni dei nostri figli (con le figlie è forse più facile?), incapaci di aiutarli nel difficile compito di gestirle piuttosto che reprimerle.

È un tema scivoloso. Perché parlare di maschilità, e di decostruzione della maschilità, di femminismi e di stereotipi di genere, non è possibile senza scivolare in un dibattito pubblico, quello italiano, che da anni (ne sono passati quasi 50 dalla prima proposta di legge risalente al 1975) si svolge sull’opportunità o meno di introdurre nelle scuole l’educazione sessuale, arrivando a ideologizzare una tematica, quella dell’affettività, della sessualità e del corpo, che è parte della vita di tutti e di tutte, fin dalla nascita. E sembra ovvio che per sradicare il sistema patriarcale sia necessario giocare d’anticipo, ovvero prima che si insinui nelle menti ancora libere da stereotipi di bambini e bambine. Eppure così ovvio non è, se l’Italia rimane tra le pochissime nazioni in Europa (insieme a Polonia, Bulgaria, Romania, Lituania e Cipro) prive di programmi curricolari su sessualità e affettività, e se la
presentazione di un albo illustrato può scatenare polemiche.

È successo lo scorso luglio, e i libri in verità erano due, Lina l’esploratrice e Bruno l’astronauta, due pubblicazioni di Settenove – progetto editoriale interamente dedicato alla prevenzione della violenza di genere – che hanno fatto discutere per l’approccio diretto e semplice con cui affrontano il tema dell’educazione sessuale alle bambine e ai bambini. A reagire fu la onlus Provita & Famiglia che commentava l’evento parlando di «pochezza etica» e «vuoto valoriale», affermando che per far fronte alla sessualizzazione precoce e alla pedofilia online «sarebbe bene riservare l’educazione sessuale alla famiglia». Mettendo, in altre parole, sullo stesso piano pedofilia ed educazione sessuale, e delegando alle famiglie tutto il peso di una questione sociale e culturale. Ma è davvero possibile affidare ai genitori la soluzione di un problema di tale portata?

In attesa che venga siglata un’alleanza tra istituzioni, educatori, insegnati e famiglie, è naturale che i genitori salutino con gioia e rinnovata speranza l’avvento di strumenti utili nel difficile compito di educare i propri figli all’autodeterminazione, al consenso e al rispetto delle differenze, strumenti come, appunto, Lina l’esploratrice e Bruno l’astronauta, e come il recente I ragazzi possono essere femministi? del filosofo Lorenzo Gasparrini.

«Non so se ti è già capitato, ma forse avrai già sentito che, del
femminismo, c’è chi ne parla benissimo e chi malissimo. In questa situazione è piuttosto difficile farsi un’idea precisa e sensata. Cominciamo con qualche informazione storica». Inizia così il volume rivolgendosi direttamente ai ragazzi, non inteso come maschile universale di ragazze e ragazzi, ma nel senso proprio di giovani maschi. E continua raccontando la nascita della parola femminismo, usata per la prima volta in ambito medico, nella Francia di metà Ottocento, a indicare una situazione patologica – la mancanza, nei soggetti maschi, di virilità – e solo successivamente utilizzata per identificare il movimento delle donne francesi che manifestavano per ottenere il diritto al voto. Ad adottarla per la prima volta con il significato che oggi le attribuiamo fu Hubertine Auclert nella sua rivista La Citoyenne (La Cittadina), il 13 febbraio 1881.

Il libro, con un linguaggio semplice arricchito dalle vignette di Cristina Portolano – autrice, tra le altre, delle graphic novel Quasi signorina e Tettonicasi propone di aiutare i giovani uomini a districarsi su una tematica complessa, spiega come i femminismi non siano una pericolosa ideologia contro gli uomini, ma una spinta liberante contro le oppressioni patriarcali che colpiscono le donne, certo, ma anche gli uomini, attraverso le pressioni sociali che soffocano la personalità del singolo.

Siamo abituati a considerare gli uomini felici e a proprio agio nella loro posizione di privilegio. L’uomo – bianco, eterosessuale, abile, di classe media – nonostante qualche tentativo di vittimismo, riesce a muoverci a compassione tanto quanto uno squalo, o una qualsiasi altra belva in cima alla catena alimentare. Ce lo ricorda, nella prima stagione di The White Lotus, uno straordinario scambio di battute tra genitori e figli che rivela come il problema sia prima di tutto generazionale. «È un maschio etero, giovane e bianco – dice Nicole, imprenditrice di successo, riferendosi al figlio adolescente e facendo appello alla comprensione della figlia Olivia – E oggi come oggi nessuno ha simpatia per loro. Ecco perché dobbiamo impegnarci. Adesso in un certo senso sono loro gli svantaggiati». Dopo alcune frasi killer di Olivia, interpretata da Sydney Sweeney, e dell’amica Paula, due liceali che dimostrano una comprensione della questione apparentemente più profonda rispetto ai genitori, la scena successiva si apre con la folgorante ironia di Olivia: «Mamma buone notizie, ho dato un’occhiata in giro per l’hotel e sembra che tutti i maschi bianchi etero se la cavino alla grande».

Eppure in un sistema patriarcale che colpevolizza ed emargina chi si distanzia dallo stereotipo di virilità, è sempre più evidente come gli uomini siano anche vittime oltre che carnefici. Se infatti in Italia il numero di femminicidi sale (107 è il numero tristemente noto di vittime dall’inizio del 2023), il fenomeno dei suicidi interessa molto più gli uomini che le donne (il 78,8 per cento dei morti per suicidio sono uomini secondo i dati dell’Oms del 2019). E la spiegazione, secondo diversi studi, è da rintracciare proprio nella pressione sociale subita dagli uomini, costretti in molti casi a rispondere ad aspettative in cui non si riconoscono e a rinunciare a una parte di sé – quella ritenuta più femminile. A sostenerlo era, già all’inizio del Novecento, lo psichiatra austriaco Alfred Adler, allievo di Freud, che nel saggio Ermafroditismo psichico del 1910, presentò l’idea di “rivendicazione maschile” secondo cui gli uomini per paura di essere disprezzati sono portati a nascondere le caratteristiche femminili che fanno parte di ogni essere umano.

Sono temi sui quali riflette Maschile Plurale, associazione costituita a Roma nel 2007, ma presente su tutto il territorio nazionale con gruppi di autocoscienza composti da uomini con età, storie, percorsi politici e culturali e orientamenti sessuali diversi, impegnati in riflessioni e pratiche di condivisione, spesso al fianco di associazioni di donne. Esistono poi altri gruppi che si occupano di tematiche di genere da un punto di vista maschile in Italia, come Osservatorio Maschile, che organizza incontri e workshop con l’obiettivo di indagare quanto e come le aspettative di genere influenzino la nostra vita a livello personale e relazionale, professionale e sociale, e Mica Macho, un collettivo online nato nel 2020. Come riflette un articolo del Post dedicato proprio ai men’s studies, non esiste una tradizione italiana in questo campo, ma in anni recenti l’interesse per questa tematica è aumentato, e questo è indicativo di una maggiore sensibilità pubblica riguardo agli studi di genere.

Torniamo dunque alla domanda iniziale: è possibile far fronte a un problema sociale e culturale affidando la soluzione alle famiglie o alle scuole? Oppure il cambiamento culturale deve essere più radicale e passare da una presa di coscienza collettiva? Come spiega Stefano Ciccone, coordinatore di Maschile Plurale «Il cambiamento culturale non è un processo linearmente evolutivo a cui affidarsi: vuol dire confliggere. Vuol dire litigare e fare fatica: litigare con il parente che azzittisce la compagna, fare la fatica di non risolvere col sorriso di maniera le battute nello spogliatoio di calcetto». È una fatica, quella di ripensare la propria visione delle cose e del mondo e in ultima analisi ripensare sé stessi, che tutti, uomini e donne, singoli e istituzioni, siamo chiamati a fare.

In quanto madre di un seienne maschio, non posso negare di sentirmi carica di responsabilità. Vorrei che potesse decidere in modo autonomo e critico come diventare adulto. Mi piacerebbe che partecipasse al cambiamento sociale da protagonista, alleato di amiche e compagne, come esorta Gasparrini nel suo I ragazzi possono essere femministi? Non gli ho comprato bambole, ma prepariamo insieme le torte di compleanno. Non gli ho proposto di iscriversi a un corso di danza, ma ha sperimentato le discipline aeree. E c’è stato un momento in cui ho capito che forse il cambiamento è comunque in corso, grazie al solo esempio e a uno stile di vita necessariamente mutato nelle dinamiche e nelle abitudini, quando, mentre aiutava la nonna a sistemare la camera da letto, le ha chiesto: Nonna, perché il nonno non si fa il letto da solo? Papà a casa lo fa.