Il nuovo film di Steven Soderbergh "finge" di essere una storia di spionaggio ma in realtà racconta tutt'altro: crisi di coppia, matrimoni che forse durano o forse no, la monogamia come unica salvezza.
È uscito il nuovo libro di Teresa Ciabatti, Donnaregina, pubblicato da Mondadori. Si presenta come un’autofiction d’inchiesta, la storia dell’incontro fra la voce narrante, giornalista e scrittrice di Orbetello come Ciabatti, e l’ex superboss della camorra Giuseppe Misso, ora collaboratore di giustizia dopo essersi pentito nel 2007. Il suo giornale la manda a fare un reportage, che diventa un libro. Lei non si è mai occupata di criminalità, scrive di argomenti più frivoli, interviste a scrittori o cantanti, e infatti si concentra su dettagli tipo la storia del primo orologio di Misso, un Cartier con cinturino di coccodrillo. Lui vive protetto dallo Stato, e racconta volentieri la sua vita. I due hanno una cosa in comune: problemi con i figli, che trasformano Donnaregina da biografia di costume dell’ex boss in pensione a dramma sull’incomunicabilità fra generazioni. Per scrivere questo libro Ciabatti ha frequentato davvero Misso per anni. La incontriamo su Zoom, chiede subito di passare al tu.
ⓢ Grazie per il tuo tempo e la tua pazienza.
Ma grazie a te, io sono felicissima.
ⓢ Bè… vediamo come va, prima. Intanto auguri di buon compleanno, ho letto che hai festeggiato ieri.
No per favore, non festeggio, non voglio gli auguri.
ⓢ Ok, scusa. Ma quindi non è vero, come succede in “Donnaregina”, che hai conosciuto Giuseppe Misso perché pretendeva di essere intervistato da una donna che non si occupasse di cronaca giudiziaria?
No. È stato grazie a Saviano. Mi ha detto “secondo me, se vai dai superboss, questi parlano perché ti vedono innocua”. E aveva ragione. Mi ha dato le coordinate per entrare in contatto con Misso e da lì è iniziata la cosa, sono io che gli propongo le interviste, io che gli propongo il libro.
ⓢ È stato difficile mettersi in contatto con lui?
No, per niente.
ⓢ Quante volte l’hai incontrato?
È stato un lavoro di tre anni e mezzo con conversazioni quotidiane, andavamo a pranzo, a cena, alla Rinascente, c’è stata una condivisione di quasi quattro anni, periodo dove ho passato più tempo con Peppe Misso che con qualsiasi altra persona.
ⓢ Allora è vero, come dici nel libro, che ti scrive “auguri carissima amica mia” il giorno del tuo onomastico?
Sì.
ⓢ Hai mai avuto paura?
No. A parte che Misso è una persona molto gentile, molto rispettosa, non c’è da avere paura. E poi lui è in una fase diversa della sua vita. Lavorando sulla sua storia ho capito una cosa: concetti che mi sembravano posticci, tipo “prendi un bambino napoletano e lo porti in Inghilterra impara l’inglese, prendi un bambino inglese lo porti a Napoli e impara il linguaggio della strada”, ecco, alla fine ho capito che sono veri. L’essere umano è sempre calato in un contesto. Io non sapevo niente di criminalità, di camorra. La scrittura di questo libro e l’esperienza con Misso mi hanno portato a rivedere certe opinioni. Credevo molto alla natura umana, a una specie di predestinazione, se uno dentro ha il male c’è poco da fare. Nel corso degli anni ho cambiato completamente idea. Esiste un contesto, un tempo, un luogo, e una persona non si può mai giudicare staccata da tutto il resto. Con questo non voglio certo giustificare nessun crimine.
ⓢ Quindi nel caso di Misso la giustizia ha funzionato, trentatré anni in carcere – non di fila – sono serviti a redimerlo?
Non so se la giustizia ha funzionato, non saprei risponderti. Ribalto: ti dico che quando lui finisce in carcere a quattordici anni, prima al Filangeri, poi a un certo punto si ritrova a Barcellona Pozzo di Gotto nel manicomio criminale, quello che subisce… lui poi lo racconta così, come elenco, non drammatizza, anzi sono parti che sintetizza perché non significano niente secondo lui nella sua vita. Tutte quelle torture – anche se non le chiama così – subite Misso me le raccontava veloce, anche se gli chiedevo di spiegarmi bene. Erano solo un elenco perché per lui il tema della sua vita è la guerra di camorra. Gli anni di carcerazione da minorenne per lui non c’entravano niente, come altri dettagli marginali, tipo la storia degli Ufo…
ⓢ Ah, quindi è vera la storia degli Ufo a Gaeta?
Sì, dopo ti spiego. Quindi Misso mi racconta delle detenzioni, gli chiedo di fermarsi sugli anni del carcere minorile e poi del manicomio criminale. Per una persona normale, medio borghese, quelle storie lì ti danno completamente un’altra configurazione della faccenda. Un ragazzino che entra in carcere a quattordici anni e subisce quelle torture, poi che succede? Che fa? Ci vuole un sistema molto forte che riesca a reintrodurlo, a salvarlo. Se no l’hai condannato per sempre. Misso secondo me era uno che poteva essere salvato, a differenza di Luigi Giuliano, che veniva da una famiglia di camorra, comunque da un clan, padre famoso. Misso no, la madre aveva un panificio, poi non lavora più, insomma erano poverissimi. Misso nasce in una realtà che non è criminale e veramente poteva essere recuperato. Però a quel punto, dopo tutto quel vissuto, se non c’è nessuno che ti segue è impossibile.
ⓢ È vero, come scrivi nel libro, che Peppe Misso a Napoli è ancora visto come un eroe del popolo, e non come un assassino, in particolare per quello che ha fatto dopo il terremoto?
Sì. Soprattutto se vai dalla gente della Sanità, magari quelli più anziani, perché lui è stato veramente un boss atipico. Quando c’è stato il Covid al telegiornale raccontavano di questi negozianti che preparano le buste della spesa per le persone che non si possono muovere o per le persone povere, e invece poi mi hanno spiegato che quello non era il negozietto buono, era la camorra che stava organizzando, andando in aiuto, non so in cambio di cosa.
ⓢ Potere?
Può darsi. Misso ha agito su quel piano lì, di fare del bene, di pagare l’università a molti ragazzi della Sanità. Un modo di gestire il potere da re, elargisci delle concessioni ai tuoi sudditi per legittimare il tuo regno.
ⓢ Qual è stata la cosa più difficile da chiedergli?
Mah, io sono arrivata molto impreparata e senza nessuna fascinazione verso quel mondo, quindi anche con una certa leggerezza, venendo meno a qualsiasi codice, quindi appena l’ho incontrato gli ho dato subito del tu, ciao Peppe. A parte che lui ha settantotto anni, è anche maleducazione.
ⓢ Bè, è un collega scrittore… (Peppe Misso ha pubblicato tre libri, nda)
Gli ho dato subito molta confidenza. È stato gentile anche su questo, non si è incazzato, anche se avrebbe potuto. Io proprio non ho rispettato le etichette. Misso ci tiene tantissimo alla forma, è molto rigoroso, io sono caotica, nel corso di questi tre anni e mezzo mi è capitato di disdire appuntamenti all’ultimo. Lì si innervosiva. Oppure mi diceva “vediamoci” e io stavo sul vago. Lui è attentissimo agli auguri di compleanno, di Natale, c’è sempre per gli auguri di tutto e io sono una persona assolutamente assente. Comunque, mi avevano detto che la regola più importante quando si incontrano questi boss è non mettere mai in dubbio la loro virilità.
ⓢ Hai dovuto fargli i complimenti per la forma fisica?
Fra l’altro lui ha quasi ottant’anni e sembra che ne abbia sessanta, sportivo, non ha un filo di grasso, perfetto. Durante il nostro primo incontro volevo fargli credere che non ero interessata allo scoop, alla verità, non volevo fargli il processo. Così mi è venuto in mente di andare su un argomento tranquillo. Io sapevo dalla mia documentazione, da quello che si diceva, che lui negli anni Ottanta va in Brasile e si fa una plastica facciale, tanto che quando torna a Napoli il suo nemico se lo trova davanti con la pistola e gli chiede “chi cazzo sei?”. E poi è detto Nasone ma io questo naso così grosso non lo vedo, non lo so. Oggi a vederlo chi cacchio lo chiamerebbe Nasone? Comunque, io per fargli vedere che ero innocua gli chiedo “ma è vero che ti sei fatto la plastica facciale?”, e lì inizia un litigio.
ⓢ Hai fatto arrabbiare un pluriomicida?
Si è incazzato e mi ha detto “scusami, Buscetta si è rifatto la faccia, aveva gli occhi cinesi. A me mi vedi con gli occhi cinesi?” Quindi questa cosa della plastica è stata molto discussa, perché tutte le volte io avanzavo questa ipotesi e lui mi diceva no, non è vero, assolutamente no, ti querelo, però insomma anche lì alla fine è stato molto paziente.
ⓢ Misso sapeva durante la lavorazione che sarebbe stato un libro molto tuo, con il tuo stile, o si aspettava una biografia tipo La vita di Napoleone?
All’inizio pensava che sarebbe stata la sua biografia, infatti mi presentava alle persone come “quella che sta scrivendo la mia storia”. Poi ha letto La più amata e mi fa: “Sono preoccupato, perché so che se tu qui distruggi tuo padre io riceverò lo stesso trattamento. Però va bene, rischio”. Misso ha firmato la liberatoria senza aver letto il libro e ancora non l’ha letto, secondo lui non è ancora pronto, è sicuro che si arrabbierebbe.
ⓢ Non ha letto nessun capitolo in anteprima?
Niente, perché lui ha questo mito della letteratura, scrive, fra l’altro Leoni di marmo è un grande romanzo. Misso è un superboss strano. Intelligente, colto, legge Celine, Dostoevskij, ha questo senso sacro della letteratura. Mi ha detto: “Io lo so che cosa vuol dire scrivere, quindi mai interferirei con la tua immaginazione”. Certe volte gli chiedevo il permesso di inventare una scena piccola e lui mi diceva sì o no, cose innocue. Poi paradossalmente quelle che sembrano inventate sono vere, per esempio gli Ufo sono veri, anche se uno può pensare sia una cazzata.
ⓢ Giusto, gli Ufo. È talmente messa un po’ lì fuori contesto, nel libro, che sembrava vera per forza.
Mentre Misso mi raccontava passo dopo passo tutta la guerra di camorra, con una pazienza infinita perché io mi distraggo continuamente, sbaglio quando lui mi fa le domande quindi ricomincia a raccontarmi, vocali lunghissimi per dirmi bene cos’era successo nel ’72, poi nel ’73, si dilunga, ci tiene molto alla cronologia. A un certo punto, tornato dal Brasile, vive nella scuola dove stanno i terremotati, peraltro – piccolo squarcio – cinque anni dopo il terremoto questi stanno ancora ospiti della scuola. Oddio, “ospiti”, sfollati. E Misso si nasconde lì, in mezzo ai terremotati, nascondendo anche le armi, un arsenale, lui e un altro che dormivano nelle brandine. Potevano uscire solo la notte, e mi racconta “vado una notte per distrarmi a fare pesca subacquea, vedo gli Ufo e poi torno”. Fermati! In che senso vedi gli Ufo? E mi descrive questa scena incredibile, che c’è nel libro. Magari un altro giornalista, un giornalista vero d’inchiesta, l’avrebbe tagliata. Misso stesso, raccontandosi, la taglia. E invece per me è fondamentale perché ti dice tantissimo di lui, anche del suo senso di giustizia, l’idea che è tutto ingiusto su questa terra e deve arrivare nemmeno Dio, ma qualcuno di ancora più improbabile. Infatti lui dice agli altri sgherri state tranquilli, sono venuti a salvarci. Con gli altri che sono ferocissimi, gente che ammazzava, uomini spietati di questi clan che si spaventano perché vedono le lucine in cielo.
ⓢ Forse se avessero sparato avremmo scoperto la verità sull’esistenza di altre forme di vita nell’universo. Chi pagava il conto alla fine dei vostri incontri?
Lui, sempre lui.
ⓢ Lo senti ancora Peppe Misso, adesso che il libro è stato pubblicato?
Sì. Mi ha fatto gli auguri di compleanno.
ⓢ Verrà a una delle presentazioni del tuo libro, in incognito?
No, non credo.
ⓢ Hai ricevuto proteste o lettere di lamentele dai parenti delle vittime di Misso, qualcuno che ha letto il libro e si è sentito offeso dalla tua ricerca del lato umano del superboss?
No, per adesso no. Poi sai, quello che dice Misso è vero: la sua era una guerra di camorra, si uccidevano fra loro. Non ha mai ucciso innocenti, persone fuori dall’ambiente criminale.
ⓢ Non hai paura che qualche parente dei camorristi descritti nel libro venga a Orbetello a cercarti?
Ho più paura della reazione di qualcuno di Orbetello, che mi contestino il fatto che il cimitero non è mai crollato. Temo più Orbetello che Napoli.
ⓢ Per passare all’altro tema del tuo libro, le turbe degli adolescenti: c’è sempre più ansia, autolesionismo, depressione fra le nuove generazioni. Secondo te perché?
Ci sono dei dati inequivocabili. Prima del 2022 arrivavano al pronto soccorso neuropsichiatria del Bambin Gesù con richiesta di assistenza psichiatrica centocinquanta ragazzini all’anno. Dopo il 2022 sono diventati duemila, con relativi ricoveri. Per scrivere questo libro sono entrata, oltre che negli ospedali, anche nelle strutture che poi accolgono questi adolescenti difficili, fragili. Non vengono da situazioni ai margini, è un malessere trasversale alle classi sociali. Succede anche alla famiglia felice, non per forza solo ai figli di separati, con chissà che trauma. E quindi questi luoghi, dove va la voce narrante, sono estranei per lei quanto lo è la camorra all’inizio. A livello di estraneità, per la protagonista sono pari. Non si immagina nemmeno, prima di affrontare la malattia della figlia, che esista questa epidemia. E quindi è anche quello un viaggio, dentro un’età che lei non riesce a capire, e io ci tenevo molto che non ci fosse una risposta. Perché se tu mi chiedi, fuori dal libro, se è colpa del Covid, per esempio, io ti rispondo che non lo so, e penso che non ci sia nemmeno tempo per chiederselo, farsi domande inutili. È un’emergenza tale che siamo molto oltre il tempo in cui puoi riflettere, pensare. Bisogna agire.
ⓢ Le hai scritte insieme, le due parti del libro?
Sì, questo riproduce un po’ l’andamento fuori dal libro, perché quando ho iniziato a lavorare con Misso sono successe delle cose grosse nella mia vita, anche la morte della mia amica Michela Murgia, che è stata male per esempio mentre io dovevo andare al matrimonio di Misso. Ci tenevo molto che piano piano la protagonista si allontanasse dal suo reportage su Misso, per questo le due trame sono nate insieme, e una doveva andare a sovrastare l’altra. Inizio con la storia del boss, stai dietro a questa narrazione epica, e poi prendono il sopravvento le questioni personali della scrittrice, la morte vera e non quella raccontata. Da una parte c’è la narrazione, il libro, dall’altra c’è la morte reale, non quella che lei dovrebbe narrare.
ⓢ In Donnaregina torna il tuo alter ego letterario, la voce di tre dei tuoi romanzi. Pensi di aver trovato la tua comfort zone di scrittura?
No. Questa voce però è abbastanza diversa da quella dei due libri precedenti, in La più amata era proprio una ragazzina, anche se era già molto adulta ragionava con il cervello di una diciassettenne, con pensieri, eccessi, esagerazioni, egoismi molto fastidiosi, pensava solo a sé stessa. Sullo sfondo c’era Licio Gelli che passava con tutta la P2 e tu lettore eri costretto a guardare lei che stava in piscina con il materassino a forma di coccodrillo. Lì non c’era scambio fra le due parti della storia, perché lei prendeva lo spazio di tutti. In Donnaregina lei, ammesso che sia la stessa, e non è importante che sia la stessa, ma diciamo come tipologia umana sicuramente simile, si ritrae molto e cerca di prendere meno spazio possibile, entra nella vecchiaia. In La più amata ha 44 anni e si sente adolescente, in Donnaregina a 50 anni si sente vecchia. Non è mai al passo con il tempo reale. Però, ci tengo molto, questa voce è invecchiata, è una voce diversa, molto più dolente, più calma, e soprattutto che guarda l’altro.
ⓢ Mi pare di aver capito, incrociando due o tre dati su Wikipedia, che non scrivi più sceneggiature da quando sei arrivata seconda al Premio Strega nel 2017. C’è un nesso?
No, non scrivo più sceneggiature perché non sono capace. Non ho il carattere per lavorare in gruppo, non ho pazienza per le riscritture – per un romanzo sì, posso riscriverlo tremila volte – e non ho nemmeno il garbo o la serenità per vedere una mia cosa trasformata, una cosa che tu hai scritto e tutti gli altri, perché è un lavoro di gruppo, il regista e il team di lavoro, possono intervenire… mi innervosisce. Per me i dialoghi sono fondamentali, un’aggiunta di una parola o di una congiunzione mi manda non ti dico fuori di testa, ma per me cambia completamente il senso. Sui dialoghi ho una certa ossessione. Tutti hanno un linguaggio colloquiale diverso, e io ci tengo molto. Nei film c’è una cosa che in genere io odio, i dialoghi simmetrici, cioè uno ti chiede perché sei andato a mangiare la pizza? Sono andato a mangiare la pizza perché… ecco, questo nella realtà non succede, ognuno segue il suo ragionamento, è questo il bello. Non c’è una domanda e una risposta secca, quasi mai, e a me piace moltissimo che ognuno vada nella sua direzione. Penso che il dialogo debba cogliere l’inessenziale, i discorsi capitali nella vita succedono di rado.
ⓢ Visto che collabori con il principale quotidiano italiano, che mi dici del futuro dei giornali?
La vera emergenza è il futuro dei libri, direi che i giornali ormai li diamo per spacciati. Bisogna resistere, le storie saranno sempre necessarie. Mia figlia guarda molte serie tv, va bene lo stesso, sono racconti anche quelli, i più talentuosi si concentreranno lì.
ⓢ Tu però non scrivi più sceneggiature…
Io starò in un angolo, con i miei coetanei, a guardare le nuove generazioni che si raccontano in nuove forme, e non per forza sarà un peggioramento.