DAIFUKU – Dolce giapponese composto da un piccolo mochi farcito (Illustrazioni di Jaume Vilardell x Studio)

Stili di vita | Dal numero

Il momento dei nuovi dolci

Baklava, Knafeh, Halva e gli altri dolci esotici che stanno arrivando sui nostri piatti.

di Arianna Cavallo

Al solito bar, ritroviamo ogni mattina la solita offerta di croissant. Così come sul carrello dei dessert al ristorante intravediamo sempre tiramisù e crostate. Questa ripetitività non è solo di pasticceri e ristoratori, ma anche nostra: chiediamo automaticamente giorno dopo giorno l’accoppiata caffè-brioche e, dopo aver guardato distrattamente il menu dei dolci, finiamo sul rassicurante tortino al cioccolato con cuore fondente. Nell’insicurezza dei nostri tempi, ci raggomitoliamo nella prevedibilità dei dolci, comfort food per eccellenza. Possiamo preferire bistecche e risotti, ma sarà sempre un biscotto o una fetta di torta a farci scivolare nella nostalgia dell’infanzia. È anche il cibo più demonizzato – fa male, fa ingrassare, fa venire il diabete – che ci si concede raramente, motivo in più per non rischiare e andare sul sicuro, eppure qualcosa sta cambiando. La moda del mangiare sano ha fatto proliferare dolci vegani, senza glutine, raw, con meno grassi e meno zuccheri, senza uova o latticini: ora la brioche vegana da accompagnare al cappuccino di soia si trova in tutti i bar, così come i biscottini gluten-free impacchettati vicino alla cassa.

BAKLAVA – Originaria della Turchia ma diffusa in Medio Oriente, nei Balcani e nel Caucaso; è fatta di pasta fillo, miele o sciroppo e frutta secca: noci, pistacchi, nocciole. (Illustrazioni di Jaume Vilardell x Studio)
HALVA – Significa “dolce” in ebraico antico, è comune dal Medio Oriente all’India. È un blocco gelatinoso di semola o compatto di burro di sesamo, zucchero e frutta secca.
KNAFEH – È diffuso in tutto il Medio Oriente e nato, pare, in Palestina: è fatto di pasta fillo tirata sottilissima, formaggio bianco e sciroppo all’acqua di rose.

A Roma ha aperto Grezzo Raw Chocolate, la prima pasticceria, cioccolateria e gelateria crudista al mondo, dicono, con lavorazioni che non superano i 42 gradi di temperatura; Ratatouille, la prima pasticceria interamente vegana d’Italia, è nata invece a Torino, una città piena di fast food, ristoranti e caffè per vegani, vegetariani, celiaci, salutisti e disparate minoranze alimentari; a Milano sul bancone delle Tre Chicchere, nel quartiere Isola, abbondano brioche senza uova farcite sul momento, Sacher monoporzioni senza latticini e mousse al cioccolato senza farina. Non sono dolci dai sapori inediti, tranne qualche concessione esotica a zenzero e fave di tonka, cercano anzi di assomigliare il più possibile a quelli che siamo abituati a mangiare, ma facendoci, pare, meno male.

E però non è da qui che arrivano i nuovi dolci che iniziamo a vedere sulle tavole o nelle vetrine, ma dalla confidenza crescente con le cucine di altri Paesi. Fino a vent’anni fa non ci si spingeva oltre il macchiettistico biscotto della fortuna o l’appiccicosa baklava del kebabbaro, mentre ora capita di terminare con noncuranza una cena di sushi con un daifuku, il dolcetto glutinoso giapponese ripieno di gelato o pasta a tè verde, fagioli bianchi o rossi, ideale per la porzione minuta e il concentrato modesto di zucchero. I ristoranti etnici ci stanno abituando a nuovi sapori e contrasti di gusto, a quantità ridotte o esagerate di dolcezza: le cheesecake di maracuja e goiaba dei famigerati nippobrasiliani; lo yogurt greco con miele e noci delle pigre colazioni domenicali; le stucchevolissime halva e knafeh mediorientali, rivendicate da turchi, palestinesi, israeliani e libanesi; l’himbasha etiope, un pane lievemente dolce e insaporito al cardamomo; le mooncake e i biscotti alle cipolle, al sesamo nero e ai fagioli azuki sugli scaffali delle pasticcerie cinesi. Ci sono anche più botteghine e supermercati dove comprare barattoli, lattine, farine, semi e ingredienti da tutto il mondo, per prepararsi a casa il dulce de leche argentino o la velvet cake statunitense.

A Milano si va da Oriental, specializzato in cibi asiatici e con mochi giapponesi fatti a mano; oppure da American Crunch dove si trova la Vegemite, i preparati per i fudge, i donuts e barrette caloricissime di tutti i tipi; o ancora da Kathay, dove c’è veramente di tutto; a Roma c’è il fornitissimo e storico Castroni, con prelibatezze da ogni posto del mondo. Questi dolci esotici ci abituano a essere più coraggiosi e capita di esercitare una nuova leggerezza anche in un ristorante italiano al passo coi tempi: in pasticceria si traduce in un divertente contrasto tra sapori – aprì la strada l’ormai desueto cioccolato-sale-olio-d’oliva – e nell’incastro di ingredienti insoliti, come fiori, bacche e verdure. Da Björk, ristorante di cucina nordica a Milano, potete tentare con una bavarese al cioccolato bianco e asparagi bianchi, con sorbetto di fiori di sambuco e croccante ai semi di lino. Al Consorzio di Torino, bistrot segnalato dalla guida Michelin, il dessert più richiesto è già il Dolce e salato al cioccolato con nocciole, capperi e cavolfiore, ma non mancano proposte con melanzane, funghi e cervella, a seconda della stagione; trovate anche la classica panna cotta, ma con latte crudo e salse al chinotto, barbaresco e torrone, se siete ancora tra quelli pavidi.