Stili di vita | Libri
Con che occhi ci guardano gli chef?
Il libro Cucina aperta di Tommaso Melilli racconta come siamo cambiati noi, che mangiamo, visti da lui, che sta in cucina.
I ristoranti sono un’invenzione relativamente recente, roba di due secoli o poco più, e in questi due secoli non sono cambiati poi molto: da una parte c’è gente che mangia, da un’altra parte c’è gente che cucina. Qualcosa, negli ultimi anni, è cambiato in questa architettura: le cucine si sono aperte, spalancando una finestra dove prima c’era un muro tra cuochi e clienti. Ora i clienti guardano i cuochi, e infatti i cuochi sono finiti dappertutto: nel gossip, in tv, nelle pubblicità, su Intagram. Parliamo meno di cosa vedono finalmente i cuochi guardando al di fuori della cucina. Cucina aperta (pubblicato da 66thand2nd) di Tommaso Melilli è un racconto abbastanza anarchico di cosa vede un cuoco guardandosi intorno: è un quaderno di appunti, di sketch, di ricette, di storie. Parla di come è cambiata la cucina e di come siamo cambiati noi che la mangiamo, visti da lui, che fa lo chef. Fa anche lo scrittore, perché oltre a questo libro – che era stato scritto originariamente in francese, 7 anni fa – ha pubblicato I conti con l’oste, per Einaudi nel 2020, e ha per qualche anno tenuto una rubrica su queste pagine, e da qualche anno ne ha un’altra settimanale sul Venerdì di Repubblica. Nel frattempo è tornato in cucina: e con due soci ha preso la gestione della Trattoria della Gloria, storica trattoria di via Gola, a Milano, e l’ha innovata senza snaturarla. È difficile trovare cuochi che abbiano un rapporto così stretto con la letteratura, che scrivano con la sapienza di Tommaso: spesso sono arroganti influencer di programmi tv, non certo delicati scrittori di non-fiction narrativa. Succede raramente che i mestieri si ibridino così bene con la letteratura.
ⓢ Per questo Cucina aperta mi ha ricordato uno dei migliori esempi di professionisti di altre cose che sanno scrivere veramente da dio: il trittico di libriccini di Ettore Sottsass pubblicati da Adelphi, che si chiamano Troppo difficile da dire, Per qualcuno può essere lo spazio, e Di chi sono le case vuote?
Che io non ho mai letto. Ma forse è perché sono quaderni di lavoro?
ⓢ In un certo senso. Quaderni di lavoro, di appunti, di riflessione.
E pubblicati in quanto tali, in quanto quaderni di appunti, però fatti bene, ben curati.
ⓢ Raccontami la genesi di questo libro, allora.
Era un po’ più corto di così, con un’altra introduzione che spiegava le guerre di identità: l’avevo scritto due anni dopo quel famoso video della “carbonara one-pot” francese che aveva causato grandi scalpori. Quello era stato il primo grande momento di conflitto web sulla cucina, e oggi ne è passata di acqua sotto i ponti: c’è stata tutta la costruzione di un orgoglio identitario della cucina italiana. All’epoca non c’era ancora il governo gialloverde che baciava le coppe insaccate, internet era diverso. Parlavamo tutti della stessa cosa per qualche giorno, non per un’ora e basta.
ⓢ Però questo libro non è solo questo, e non è nemmeno solo quello che un cuoco vede guardando i clienti: in realtà ci sono racconti di storia antica, racconti introspettivi, racconti di produttori, racconti di teoria della cucina. È uno zibaldone.
Sì, perché soprattutto nella non fiction, almeno per me, il primo libro che scrivi non è quello che vuoi davvero scrivere. Dentro ci sono tanti potenziali libri che però non ero capace di scrivere singolarmente. Ho pensato di cambiarlo, di renderlo più adulto, ma mi faceva simpatia mantenere questo elemento un po’ selvatico, un po’ caotico da primo libro.
ⓢ Invece se ti chiedessi come è cambiata la clientela, in questi ultimi anni, da quando cucinavi in Francia a oggi, cosa diresti?
È una domanda complicata perché per me la clientela di adesso e quella di dieci anni fa non è la stessa: prima vivevo in Francia, adesso in Italia. E la Francia è più aperta dell’Italia: ci sono anche lì le persone che sono in grado di mangiare solo quattro cose, solo salsiccia col puré, solo bistecca con le patatine, e che non hanno quella curiosità. Però la Francia è più propensa alla scoperta e a considerare alto e gastronomico un piatto non-francese, e soprattutto non-europeo.
ⓢ Succede perché hanno una sicurezza maggiore della loro identità, rispetto a un Paese giovane come l’Italia?
Questo in parte. Ma c’è proprio l’idea di gastronomia come scoperta, che è una cosa che hanno inventato loro, legata all’universalismo illuminista. C’è poi tantissima gente di seconda, terza e quarta generazione, arabi, vietnamiti, indiani, che se trovano quei sapori nei piatti li riconoscono come propri.
ⓢ E noi invece ci arrabbiamo se qualcuno mette del coriandolo dove non dovrebbe.
Noi ci riempiamo la bocca di cose meravigliose che non mangiamo quasi mai. Mangiamo i nostri piatti tipici alle sagre: sono momenti totemici di incontro che servono con il sacro della festività a compensare l’assenza del resto dell’anno. Perché poi, con il favore delle tenebre, un italiano su due compra almeno una volta alla settimana il sushi al supermercato.
ⓢ Predichiamo tradizione, razzoliamo fast-food.
Per decenni l’industria alimentare dei piatti pronti considerava l’Italia un Paese senza speranza. Da dieci-quindici anni li compriamo: nei supermercati piccoli dei centri città più della metà della merce esposta sono scatolette. Questa cosa è passata, ormai: abbiamo smesso di essere un Paese che pratica una grande e gloriosa gastronomia casalinga.
ⓢ C’è una parte del libro interessante nel libro in cui parli della rivoluzione dei piccoli bistrot parigini, che iniziano a usare, per risparmiare, tipi di pesce che nessuno usava più, pesci umili e fuori moda, e grazie a questo le piccole flotte dell’Atlantico tornano a lavorare. È una ricaduta virtuosa di un fenomeno che viene spesso percepito come una moda, una tendenza e basta. Ci sono altri esempi?
Hai voglia! A Milano purtroppo per il pesce funziona diversamente. Non c’è, che io sappia, la possibilità di trovare un selezionatore che va in tre o quattro porti della Liguria, che è il posto più vicino, e che ti dice: guarda, c’è questo pesce qua, dimmi cosa vuoi entro le undici e domani mattina te li porto in cella. Io così lavoravo a Parigi: dalla Normandia alle coste basche. Questa roba a Milano, con il mercato del pesce, non esiste. Perché qui i ristoratori chiedono – e ricevono – il pesce che vogliono, non il pesce che c’è. Sta invece accadendo questa cosa con alcuni fornitori di frutta e verdura: ci sono piccole aziende che ti portano freschi, a Milano, diversi presidi Slow Food. E questo significa, per una minuscola azienda come una di quelle con cui lavoriamo noi, permettergli di campare, di comprare un furgone, di avere un dipendente.
ⓢ Come ti trovi a parlare di foodification e gentrificazione stando nel ventre della bestia: la cucina?
Ci sono delle sfumature nel modo di fare le cose. Il fatto che io lavori molto con la cucina araba non deriva solo da gusti personali: il mio ristorante è in un quartiere abitato per la maggior parte da arabi. Quando vedo che Mustapha, uno dei “capi” del quartiere che ci aiuta ogni tanto, mi porta i datteri perché ha trovato quelli buoni, e io gli regalo una bottiglietta di fiori d’arancio che ho ordinato dal Libano così ci fa l’acqua profumata per i bambini, dico: forse stiamo avendo un dialogo. Poi lui non viene a cena perché dice che noi vogliamo solo persone eleganti, e io gli dico no, tu devi venire, ma lui non viene. Però vedi: ci sono cose che puoi fare, e altre cose che puoi non fare.
ⓢ D’altra parte, qual è l’alternativa?
Fare le cose male, fare le cose brutte, immagino.
ⓢ Forse non dovrebbe essere lasciato il mercato, da solo, a regolare questo tipo di dinamiche.
Smettiamo di dire che è colpa dei ristoranti se gli affitti aumentano: perché l’alternativa è non avere niente, o quasi nulla. Ma sta alle istituzioni regolare queste cose, o far sì che in una strada non ci siano solo ristoranti e baretti.
ⓢ Qualche anno fa scrivevi del movimento della “Nuova Trattoria”, quando eravamo tutti elettrizzati dall’invenzione di Trippa e altri ristoranti simili. Con uno sguardo storiografico, in che momento siamo, oggi, della cucina?
Ho la sensazione che la stagione dei ristoranti non sia ancora compiuta: a Milano questo tipo di ristoranti sono ancora pochi, e io parlo di ristoranti veri, quelli in cui si mangia davvero. Gli altri sono i bar, le enoteche con l’hummus. In tanti, però, stanno cominciando ad aprire nelle campagne: hanno voglia di andare via dalla città e di lavorare in campagna. Questa cosa a me piace perché vengo dalla campagna e so quanto è disperante stare in campagna, e quanto un solo posto dà vita e crea cose. Ma non vorrei che si lasciassero tutti e due i lavori a metà.
ⓢ Tu in campagna ci andrai?
Io da un lato invidio questi che vanno a lavorare in un territorio con quattro o cinque produttori che conoscono per nome, che danno senso a dei luoghi che si sono spopolati. Poi mi dico: cosa fanno queste persone che vanno a lavorare in campagna? Si prendono cura del luogo che gli sta più a cuore. E io non faccio una cosa poi così diversa: ma a me sta a cuore la città. Qui il lavoro è meno sulle verdure, ma più sulle persone.