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La Corea del Sud è un Paese che vive sul filo

Negli ultimi anni ci siamo abituati a considerarla una superpotenza economica e culturale, tra tech, cinema, serie tv e K-pop. Ma quello che è successo ieri ci ricorda che la Corea del Sud è anche e soprattutto altro.

di Simone Pieranni

Sentire l’espressione “legge marziale”, nel 2024, associata a una democrazia considerata tra le più vibranti dell’Asia, la Corea del Sud, ha stupito tutti. Anche gli stessi giornalisti sudcoreani, mentre riportavano le strambe notizie che arrivavano da Seul, sono apparsi sbigottiti. Figuriamoci noi. La forza del soft power sudcoreano ci ha convinto tutti di una cosa: che la Corea del Sud è K-pop, serie tv di successo, nuova meta turistica di massa, un Paese all’avanguardia, una democrazia che ad avercene. La Corea del Sud oggi riempie le aule di università di studenti che vogliono imparare il coreano ed è arrivata anche ai livelli più alti della produzione culturale: premi Oscar con Parasite di Bong Joo-ho nel 2019 e un fresco premio Nobel con Han Kang. Come mai, allora, ieri il Presidente Yoon ha proclamato la legge marziale  per proteggere il Paese dalle «forze comuniste della Corea del Nord», salvo poi revocarla qualche ora dopo, quando un parlamento circondato dai militari era stato assaltato dai cittadini in protesta e dall’opposizione che gli ha votato contro?

Partiamo da un dato intanto: di Yoon, il Presidente che ha vinto le elezioni in Corea del Sud nel 2022, dalle nostre parti si è parlato più per la sua politica estera filo americana, in netto contrasto con i suoi predecessori, i democratici, considerati più anti-americani. Il problema è sempre il solito, però: giudichiamo i leader asiatici per il loro approccio alla politica estera, quando le loro elezioni dipendono (come in tutto il mondo, potremmo dire) da quello che hanno intenzione di fare in politica interna. Guardare un po’ più in profondità la politica sudcoreana apre uno squarcio sulla società civile del Paese, altro elemento spesso mancante nelle analisi sui Paesi asiatici, di solito identificati con i loro governi. Yoon è un ex procuratore e ha fatto una campagna elettorale, che ha vinto nel 2022, dai toni molto accesi: ha accusato i democratici di filtrare con la Corea del Nord, ha accusato le femministe di essere la causa della crisi demografica del Paese, ha detto che se fosse stato per lui i coreani avrebbero potuto lavorare anche 120 ore a settimana. Appena arrivato al governo ha provato a procedere come era abituato a fare: comandando. Ha cominciato a restringere gli spazi per i media, ha attivato i suoi ex colleghi procuratori per avviare indagini contro membri dell’opposizione e per bloccare le indagini sulla moglie (ieri sui social sudcoreani la donna veniva accusata di essere la grande macchinatrice di tutto, un po’ come qualche anno fa veniva detto della “sciamana”, la donna che avrebbe abbindolato la ex presidente Park, portandola all’impeachment nel 2017, tanto per dire della tranquillità della vita politica sudcoreana).

Di Yoon in tanti in Corea del Sud hanno stigmatizzato gli atteggiamenti autoritari: fino al 1980 il Paese ha vissuto una dittatura, che solo le proteste popolari hanno abbattuto. Parliamo di ricordi tutto sommato recenti, con una “Tiananmen coreana” di cui non sappiamo niente, o poco, che ha lasciato ferite profondissime nella società. E del resto proprio l’atteggiamento di Yoon aveva evidenziato le crepe: accusare le femministe ha dimostrato la forza dei movimenti femministi in Corea del Sud (i movimenti “in fuga dal corsetto” e quello “dei quattro no”), nel Paese con la maggiore diseguaglianza di genere salariale dei Paesi sviluppati. Gli anatema di Yoon sugli orari di lavoro hanno evidenziato un altro tema gigantesco: i giovani sudcoreani non hanno più intenzione di lavorare in modo esagerato (e fedelissimi alle proprie aziende) come in passato: chiedono più tempo per la vita privata, smart working, settimana corta. Il tema del lavoro, proprio qualche giorno fa, è scoppiato perfino nel settore più cool della Corea del Sud, quello del K-pop: una delle NewJeans, uno dei gruppi femminili più in voga al momento, ha denunciato di «bullismo sul luogo di lavoro» la sua etichetta discografica, una succursale della Hybe, la stessa dei BTS. Una Corte ha sentenziato che quell’accusa non ha senso perché le star del K-pop «non sono lavoratori», fine. La decisione ha scoperchiato un mondo fatto di pressioni, di orari di lavoro senza alcun limite, di soprusi, di totale mancanza dei diritti e di organizzazioni sindacali in grado di contrastare la prepotenza delle etichette discografiche.

La società sudocoreana da sempre è attiva e vivace nella sua interpretazione della democrazia, considerato l’assetto istituzionale che permette di vivere al meglio ma anche di protestare, di opporsi. Da mesi sono in corso manifestazioni degli specializzandi in medicina, da tempo si parla di lavoro, di iper lavoro e di altissimi tassi di suicidio. A guardarla più da vicino, la Corea del Sud, è un Paese che sembra vivere spesso sul filo: il leader dell’opposizione, quello che ieri è entrato in parlamento in modo rocambolesco, riprendendosi in diretta in in un video, è figlio di due pulitori di bagni pubblici, ha fatto l’avvocato per difendere i lavoratori, ha perso contro Yoon, è stato accusato di essere un “criminale” filo nordcoreano, sono state avviate inchieste per corruzioni e un’altra serie di reati, finché a gennaio di quest’anno un uomo non ha visto bene di provare ad accoltellarlo al collo, riuscendoci. Un segnale di tensione politico evidente, con un presidente che ha vinto le elezioni per meno di un punto percentuale, che ha perso le elezioni parlamentari di maggio in modo netto e che si è ostinato a governare come avesse raccolto un plebiscito. E mentre la sua popolarità scendeva, come in uno dei drama politici sudcoreani che vanno di moda tra le serie tv, ha scelto la strada più azzardata. E ha perso, perché oggi politicamente sembra finito.

Potremmo cominciare a guardare alla Corea del Sud in modo diverso: non solo come il Paese del K-pop. Ma anche come il Paese la cui protesta delle donne diventa simbolica anche per le donne occidentali, ad esempio: dopo l’elezione di Trump alcune femministe americane hanno ripreso “i 4 no” delle sudcoreane del movimento 4B (bisekseu, no sesso; bihon, no matrimonio; biyeonae, no frequentazioni; bichulsan, no maternità). Una battaglia “asiatica” che diventa nota anche in Occidente e che potrebbe alzare un piccolo ma significativo velo sulle contraddizioni della società sudcoreana, facendo vedere anche i suoi lati più oscuri. Non solo quelli che ci sembrano migliori. O che ci piacciono di più. O che non mettono granché a rischio il mondo nel quale viviamo.

Simone Pieranni, giornalista, ha vissuto in Cina dal 2006 al 2014, periodo durante il quale ha fondato l’agenzia editoriale China Files. Tornato in Italia è stato responsabile della redazione esteri del Manifesto. Ora lavora a Chora Media. Il suo ultimo libro si intitola 2100 e lo trovate qui.

Nell’immagine in copertina: una foto di Chung Sung-Jun via Getty Images.