Stili di vita | Estate

I ciucci e l’ossessione per il gadget estivo più indimenticabile di sempre

Non avevano neanche un nome vero e proprio, erano solo "i ciucci": ciondoli in plastica a forma di succhiotti disponibili in infinite varianti di colore, da assemblare in collane che divennero la missione estiva dei ragazzini e delle ragazzine dei primi anni Novanta.

di Arianna Giorgia Bonazzi

Negli anni, ho visto ritentare quel successo infinite volte: con le molle arcobaleno, i bracciali che si arrotolavano al polso schioccando, i bastoncini luminosi poi rivelatisi cancerogeni, le torcette verdi, i fidget spinner, i pop-it; ma – probabilmente perché la purezza mi era stata ormai rubata nell’estate dei miei 9 anni – non ho mai conosciuto gadget estivo più indimenticabile dei ciucci. A differenza dei giocattoli che girano sulle pagine Facebook dei nostalgici (Mini Pony, Bebi Mia, Poochie, Polly Pocket e altri nomi che cercano di intrappolare la lallazione in un marchio cretino), loro non avevano neanche un nome: ciucci e basta. Chi se li può ricordare, lo faccia. Chi è più giovane, misero lui, provi a visualizzare grappoli di ciondoli in plastica a forma di succhiotti, disponibili in migliaia di varianti: piccoli, medi, grandi, giganti, trasparenti, fluo, pastello, lucidi, opachi, cromati, metallizzati, brillantinati, vuoti, pieni, marmorizzati, e provi a combinare tali varianti in infiniti modi all’interno delle infinite collezioni che ogni bambina o bambino (anzi bambinə: erano pure genderless) poteva accumulare durante tre lunghi mesi al mare, colmandone marsupi e componendo sonore catenelle, nella speranza di averne più di tutti, perché, a differenza delle collezioni Kinder, di quella raccolta non si intravedeva una fine.

Come il filatelico col francobollo dell’aquila bicipite, come Nabokov con la farfalla Licenide, come il numismatico col Dollaro Capelli Fluenti, io le mattine di quella piattissima estate uscivo di casa col nonno e poche lire appese al collo con l’unico obiettivo di avvistare, poggiato sull’espositore di fronte alle copie dei Gazzettino, l’esemplare mai visto. Perché forse, quella notte, un’entità misteriosa sulla cui terrena natura non mi interrogavo ne aveva plasmato un altro: un ciuccio bicolore bianco e nero, un ciuccio bronzeo o seppiato, un ciuccio a imitazione delle pietre dure, magari una dimensione intermedia tra piccoli e piccolissimi, oppure un ciuccio cangiante che mutasse colore con la temperatura delle mani, sotto il sole, o immerso in acqua, o ancora un ciuccio trasparente che dentro ne contenesse un altro, come facevano certi mostruosi mandarini. O forse quella notte essi avevano addirittura inventato un ciuccio di colore inedito, mai visto al mondo, brevettato per l’occasione dal dio dei ciucci fuori dallo spettro dell’iride! Ecco di quali idiozie erano popolati i miei ultimi sogni mattutini nel 1991.

A quel tempo, non mi ero ancora appassionata alla lettura, non mi piacevano i passatempi da spiaggia dei bambini, non mi interessava né vestirmi né il mio corpo, così – scevra di qualsiasi perturbazione intellettuale o mondana – indossavo qualsiasi pezza muffosa e poi, racchiusa nel mio sacco, attraversavo in semi-anestesia purissime giornate fatte solo di colori che danzavano sotto le palpebre, formicolii da eritema solare, puzza di alghe e melone. Finché, improvvisamente, furono i ciucci: il primo ingresso nel mondo della moda, del desiderio e della mania di possesso. Non dico del “desiderio di essere come tutti” perché, mentre li accumulavo, non ero propriamente conscia di partecipare a un fenomeno di massa. Sì, li vedevo al collo e sulle borse degli altri bambini, ma l’intera faccenda era più una cosa tra me e i ciucci. Ero io, insulso essere vibrante di vita animale, in giro col retino nell’alba rosata a catturare pesci d’oro; io, strisciante tra le rocce marine, alla ricerca della conchiglia perfetta da portare in una tana che presto avrebbe odorato di marcio.

Quando a settembre entrai in classe, illuminata dai ciucci appesi alla cartella di cuoio di Enrico Coveri, per la prima volta capii di essere stata, fino allora, una reietta con la cartella di cuoio di Enrico Coveri. Ma adesso era tutto diverso. Le bambine snobbissime che si erano inerpicate sui ghiacciai alpini e avevano raggiunto la Puglia in camper si volevano sedere vicino a me, che avevo passato l’estate ricoperta di crema 60 a guardare partite di bocce. Il tutto perché i miei nonni reduci di guerra vivevano l’acquisto compulsivo di robaccia come una missione di civiltà, e fecero una questione d’onore del mio ammassare ciucci. Ho ragione di credere, tutti i ciucci che esistevano.

Durò poco. Il giorno dopo mia madre, raggiante dopo i tre mesi di separazione estiva, mi tolse quegli orpelli per questioni di bon ton. Non importava, perché per la prima e l’ultima volta mi ero sentita parte di tutte le allucinazioni collettive che non avevano e non avrebbero mai attecchito su di me. I ciucci erano stati i frontman delle future boyband, le figurine di Beverly Hills, i ragazzi da mettere nel “letto di rose.” Forse non mi sarei mai più sentita così per un gadget, un accessorio, un tormentone o uno status symbol. Ma aver aderito anima e corpo a qualcosa con l’ottusità dei 9 anni mi avrebbe lasciato per sempre dentro la traccia degli insondabili meccanismi dell’appartenenza.