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Vogliamo la modernità per tutto ma non per il cibo

La norma che approva il divieto di produzione di alimenti creati in provetta è l'ennesima conferma del sentimento antiscientifico dominante quando si parla di cucina in Italia.

di Antonio Pascale

Fate un test, chiedete in giro: preferite essere operati da un dentista del 1920 o da uno moderno? Fate la prova, vedete se trovate un masochista che con piglio e sicumera dice: io voglio il dentista di una volta, perché come si trapanavano allora i denti… allora sì, che c’erano bravi dentisti. Cambiate domanda: preferite il pane del contadino di una volta o di uno moderno? Qui la risposta non è scontata, anzi probabilmente sarà pure bipartisan, cioè molti anziani e giovani, molti di destra e sinistra concorderanno: il pane di una volta era meglio. Fate la prova, e vedrete. L’agricoltura è uno dei pochi settori produttivi dove l’innovazione non è ricercata, non è amata, è vista come uno strumento di corruzione. Se tutti noi percepiamo la differenza tra il trapano di una volta e uno moderno, sul cibo no, quello che conta è il passato, la tradizione, il recinto culturale che fa tanto vanto. FdI, Fratoianni, il Pd e pure quello che resta degli extraparlamentari si danno la mano e si incontrano a tavola: tutti amici, tutti a guardare la tradizione.

Peccato, perché l’innovazione è fondamentale. A parte che il pane di una volta nessuno se lo ricorda, ma non era certo la nostra eccellenza, per vari motivi, tecnici e agronomi che ora è lunga spiegare. Sarà che il cibo veicola legami familiari, nonne con nipoti, amici e nemici. Sarà questo. Poi noi italiani per carità, come cuciniamo noi… Quante volte ci hanno emendato peccati mortali grazie al cibo. I tedeschi hanno avuto Herr Hitler, ma noi abbiamo cominciato prima con i dittatori, anzi siamo stati d’esempio, eppure noi italiani ce la siamo cavata. Anche col cibo. Quelli, i tedeschi, hanno i crauti, noi invece quanto ben di Dio nelle dispense, quanta cultura, quanti antropologi a discettare, quante diete prelibate e cibi dimenticati da riscoprire, quanti percorsi culinari, quante liti per tutto, pure per il tiramisù, giusto per citare un dolce che vecchio non è.

Quindi quando si leggono le nuove norme, contro i fantomatici cibi sintetici che non possiamo produrre – però probabilmente potremmo importare – il sospetto che il passato agricolo culinario abbia un insopportabile peso specifico viene. Che non si può toccare niente, che le trattorie devono essere come quelle di una volta come le nonne, il latte, la carne, le albicocche, le fragole, tutto come quello di una volta. Una conservazione permanente, un museo come un carcere, che nemmeno quelli come Tommaso Montanari approverebbero.

Che poi domandate, per curiosità di una volta quanto? La risposta è: come quando? Quando ero giovane. Ah, quanto eri giovane. Che va bene, è un parametro sentimentale, con la sua importanza ma andrebbe preso con le molle. Anche perché la statistica dice altro, anche la storia alimentare. La statistica dice che la nostra agricoltura soffre, proprio perché è rimasta veramente quella di una volta. Aziende piccole, sottodimensionate, costi molti alti, agricoltori anziani, stanchi, le mani pieni di calli, tasso di scolarizzazione molto basso, pochi laureati, pochi giovani, poche donne, poco ricambio, quindi innovazione bassa, inesistente. E tanti schiavi a raccogliere pomodori e altro. Ecco cosa dice la statistica. La storia alimentare poi, quella è una sorpresa, ci accapigliamo per  recintare le tradizioni e non ci rendiamo conto che quello che abbiamo oggi, dalla pizza al parmigiano è stato costruito dai nostri immigrati che viaggiando, lavorando hanno trasformato i cibi e contaminato (fortunatamente) le culture. Facciamo davvero un torto alla memoria dei nostri nonni emigrati quando ricerchiamo la staticità e tradizione in cibi che sono frutto del dinamismo e della fantasia dei nostri emigrati.

Quindi, quando leggiamo le nuove norme sul cibo sintetico capiamo perché destra e sinistra, anziani e giovani, sulla cucina si assomigliano, abbiamo tutti lo stesso immaginario, andiamo tutti a comprare ai mercatini della Coldiretti, siamo tutti bio, siamo intransigenti col cibo degli altri, l’olio è buono perché è italiano, quello straniero per carità. Viva il made in Italy, mica ti fidi degli spagnoli? La lega calcistica spagnola va bene, lì sì, c’è un calcio innovativo, ma l’agricoltura no, noi siamo i No Pasaran! A sentire noi italiani esistono solo pregi, sarà tutta colpa del passato glorioso passato, ed è inutile sottolineare con un certo allarme che si può vivere sempre di rendita, perché nessuno ci crederebbe. E mentre raccontiamo i mercatini della Coldiretti, dei nuovi negozi bio, alcuni nostri pregi diventano debolezza. Torniamo all’olivo, giusto per fare un esempio. Grande biodiversità. C’è effettivamente da vantarsi, 538 e passa cultivar censite. Ma qualcuno si prende cura di questo patrimonio varietale? Quanti campi collezione ci sono? La risposta è poco o niente, ma non importa, non importa nemmeno che per non affrontare il problema Xylella abbiamo trasformato olivi secolari in savana, cioè guardate dall’aereo la Puglia, sembra la pianura di Serengeti. Non importa, quello che conta è il racconto della tradizione, il contadino con cappello i paglia che raccoglie le olive in una bella, piacevole, ventilata giornata di sole.

I fatti crudi, invece? Quelli che non diventano nemmeno a nota a margine della narrazione generalista? Che le 538 e passa varietà di olivo non vengono studiate, non si sperimenta, non si cerca di capire quante di queste cultivar sono da migliorare geneticamente perché si adattano a nuovi criteri agronomici, anche in vista del mutamento climatico. Quanti di questi olivigni si adattano all’alta densità. Altri fatti spiacevoli? Che tutti stanno piantando Olivi. Cina, Giappone, Pakistan, India, e altri e altri ancora e vedrete: fra poco ci supereranno. Mentre loro sperimentano, noi no, noi no, noi no, come dicevano i grandi Mondaini e Vianello. C’è un rifiuto della modernità e un sentimento antiscientifico diffuso. No a piante transgeniche, non all’alta densità, no a cultivar straniere. Viva il piccolo si urla, ma a proposito di piccolo, abbiamo meno del 5% di aziende olivicole a carattere professionale. Abbiamo una superficie media olivetata inferiore all’ettaro. Capite perché con questo immaginario del c’era una volta si dice no al cibo sintetico senza nemmeno sapere cos’è. Senza nemmeno immaginare il lavoro che c’è dietro per produrre da una cellula staminale un miliardo di hamburger, e con grande beneficio dell’ambiente, poi.

Invece sarebbe una cosa buona e giusta provare a sperimentare. Tanto la fiorentina è salva, e anche gli allevatori, perché la carne la fai, l’osso no, non ancora. L’innovazione è fondamentale dappertutto, ancora più necessaria in agricoltura. Non ci credete?  Se prende piede la siccità (e purtroppo lo farà) pensate che possiamo continuare con le solite tradizionali cultivar? O pensate che forse è il caso di provare nuove soluzioni? Pensate davvero che dai laboratori esca cibo scadente e insalubre? Avete mai assaggiato la lattuga prodotta nei capannoni dove si pratica il fuori suolo o l’agricoltura verticale? Altro che campo sotto il sole e schiavi che raccolgono il prodotto. Dal fuori suolo e dai banconi verticali, messi al centro della città (altro che orti urbani) vengono fuori prodotti quisiti, sostenibili, perché si ricicla tutto, acqua e concime, controllati in ogni momento, chimica zero, vero bio. E invece noi? E noi respingiamo senza la minima curiosità intellettuale ogni nuova cosa.

La situazione è così incancrenita e stagnante che quando si chiede ma su cosa dovremmo investire, allora penso sempre che tutti noi, destra e sinistra, tutti noi antropologi raffinati, grandi cultori di cibo e dei mercatini che come compri là da nessuna parte, noi che se vieni appresso a me ti faccio conoscere un contadino ma un contadino come quello di una volta, insomma, quando ci chiediamo su cosa puntare per salvare l’agricoltura italiani, penso che tutti noi dovremmo puntare su un buon psicologo che si spieghi qualche problema abbiamo noi col passato. Ecco come possiamo tentare di salvare l’agricoltura italiana. Forse.