Cultura | Personaggi

Ha ancora senso scrivere di celebrity?

Viviamo nell'epoca delle interviste-monologo, dell'insofferenza alle critiche e dei flussi di coscienza su Instagram.

di Silvia Schirinzi

Riviste di moda esposte sugli scaffali di un'edicola di Manhattan il 14 gennaio 2008 a New York (Don Emmert/Afp/Getty Images)

Misurare lo spirito del tempo dal tipo di ricchi e famosi che quell’epoca produce è un esercizio divertente, se è vero (come è) che le personalità che scegliamo di innalzare sul piedistallo della celebrità dicono molto più di noi che di loro stesse. Raccontare un attore, un musicista, un politico, uno stilista, una modella, anche uno scrittore che ha schiere di fan devoti è anch’esso un esercizio divertente, e però molto difficile, un tipo di letteratura che solo i superficiali considerano minore e che richiede mestiere, prosa, capacità di leggere il momento. Senza scomodare Truman Capote, basterebbe ammettere il piacere che si prova a leggere di qualcuno che conduce una vita sfacciatamente al di fuori dai canoni della “normalità” e il cui lavoro consiste, il più delle volte, nel procurare appagamento immateriale a chi lo guarda, ascolta, segue, ne consuma i prodotti.

Tra le mie giornaliste preferite c’è Taffy Brodesser-Akner del New York Times, che nella vita, tra le altre cose, intervista quelli famosissimi: magari vi è capitato di leggere di quella volta che è andata a cena a casa di Gwyneth Paltrow o quando ha tentato di cavare da Bradley Cooper qualcosa che non fosse stato scritto e approvato dal suo ufficio stampa (e conseguentemente spalmato a macchia d’olio su tutti i giornali che parlavano di A Star Is Born). Profili come quelli che scrive Brodesser-Akner sono ormai abbastanza rari, perché lei è molto brava, certo, meglio degli altri, perché il suo giornale le garantisce un accesso e un distacco invidiabili, ma anche perché oggi la maggior parte delle celebrity si racconta meglio da sola su Instagram, e il cronista-cantore di quel mondo dorato sembra, pure lui come le riviste per cui era solito lavorare, una figura del passato. Ne aveva parlato già lo scorso settembre Jon Caramanica sempre sul Nyt, in una riflessione che mette a confronto un’intervista di Paul McCartney su Gq e il saggio-monologo “scritto” da Beyoncé in occasione della copertina del numero di settembre di Vogue Us. Mentre nel primo caso il giornalista Chris Heat era riuscito nell’impresa di far dire qualcosa di nuovo a qualcuno che è un monumento vivente e sul quale sono state scritte enciclopedie, “Beyoncé in her own words”, l’articolo che accompagna le foto di Tyler Mitchell su Vogue, più che «un potente saggio» – come lo definisce l’imperturbabile Anna Wintour nel suo editoriale – denuncia in realtà una mancanza del giornale, che non è evidentemente riuscito a contrattare una vera intervista.

Beyoncé non è l’unica celebrity a essersi ritirata in uno spazio mistico e a controllare maniacalmente la sua immagine, digitale e non: la stragrande maggioranza dei personaggi famosi oggi preferisce costruire in autonomia la propria narrazione pubblica utilizzando perlopiù Instagram e Twitter. In alcuni casi, i social sono l’unico motivo per cui certuni sono riusciti a riacchiappare uno scampolo di rilevanza: vedi alla voce Chrissy Teigen o Busy Philipps. Anche quelli che non ci sono o hanno profili puramente rappresentativi – come Emma Stone, Dakota Johnson, Jennifer Lawrence, Cillian Murphy o Christian Bale, per fare qualche esempio – in linea generale non scelgono comunque i giornali per raccontarsi a un livello più approfondito: non ne hanno bisogno, in fondo, perché tanto basta (non esserci o esserci con disinvolta sprezzatura) a fare statement. Ecco perché i magazine molte volte si accontentano di lasciare che le celebrity si intervistino fra di loro – spesso uno dei pochi modi per garantirsi l’accesso a determinati personaggi – o che si raccontino “con le loro parole”. Poi ci sono quelli della Generazione Z, che su internet ci sono nati, che di presupposta autenticità e sdoppiamento delle personalità digitali vivono e i cui flussi di coscienza nelle stories potrebbero mettere la pietra tombale su critici e giornalisti di costume. La celebrità ha cambiato forme di rappresentazione e si è assestata su un’auto-indulgenza da social che, questo possiamo prevederlo, prima o poi finirà per stancarci.

Marracash, Fedez e tutti i coinvolti nel recente “mancia-gate” che rimproverano (giustamente) ai giornalisti di non aver verificato la notizia prima di pubblicare la famigerata lista di proscrizione, Stormzy che dà degli sfigati a quelli di NME, Sophie Turner e Joe Jonas che mandano il matrimonio in diretta streaming sulle stories di Diplo (e i matrimoni “segreti” sono ormai la norma, alla faccia delle esclusive), Olivia Munn che sente il bisogno tirare in mezzo il #MeToo per aizzare i suoi followers contro due blogger colpevoli di averle criticato l’outfit, la stessa esistenza di TMZ, un po’ il Chi multimediale d’oltreoceano, dove tutto è tutto finto e tutto pre-concordato, e quella della “stan culture”, che ha oltrepassato e ridefinito quello che una volta era il fandom: è così facile parlare solo a chi ci ama già e derubricare tutti gli altri a una massa indefinita di “soloinvidiosi”. E se da una parte è un sollievo essersi lasciati alle spalle il gossip cattivo à la Perez Hilton dei primi anni Duemila e dall’altra ancora combattiamo contro i virgolettati che non sono mai esistiti, è interessante chiedersi dove (e se) possa ancora ritagliarsi uno spazio il racconto intimo delle vite straordinarie, oggi che l’opzione celebrità è – almeno su internet – alla portata di tutti. Un’altra di quelle cose che i giornali devono risolvere.