Piacciono solo ai galleristi, a quanto pare. E a un collezionista che ne ha acquistata una per quasi mezzo milione di dollari.
Le stagioni, si sa, tornano sempre. Ma non tornano mai uguali. Come Maurizio Cattelan. In occasione del quarto ciclo di Pensare come una montagna, il programma biennale della GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo diretta da Lorenzo Giusti, la nuova mostra dell’artista padovano, Seasons, mette in scena quattro opere in quattro sedi – che a volerla dire tutta suona già come una croce templare – e disegnano un itinerario artistico e urbano che è al tempo stesso pellegrinaggio laico e caccia al tesoro. C’è l’austera Sala delle Capriate. C’è la stessa GAMeC, che è la casa madre del contemporaneo cittadino. Poi c’è il vicino Ex Oratorio di San Lupo, dove la spiritualità si confonde con la cenere. Infine lo spazio pubblico, quello dove l’arte esce in strada e fa più rumore.
Il contrario di un’aquila
Il cuore simbolico del percorso è un’aquila. Ma non l’aquila imperiale, impettita e dorata, pronta a planare sulla mappa della dominazione. L’aquila di Cattelan si presenta fragile, spiumata, come se la storia l’avesse scambiata per un trofeo da imbalsamare e poi dimenticare in una sala riunioni. È l’immagine del potere spogliato, della forza che non ha più nulla da dire. Un rovesciamento di senso. O forse una confessione.
«L’artista oggi rischia di essere un marchio», ha detto l’autore di “!Comedian!” (la banana fissata a una parete col nastro adesivo) tempo fa. «Ma l’arte vera va oltre: è espressione e rottura del sistema che la celebra». Niente aquile da brand quindi, solo piume sparse da interpretare. Nella sede della GAMeC, invece, Cattelan presenta un’opera in vetro: una struttura cristallina, che evoca la trasparenza ma non la chiarezza, la fragilità ma non la resa. Una sorta di monumento al potere irrealizzato, alla rivoluzione che non scoppia mai. Come certe giornate storte che iniziano con la voglia di cambiare il mondo e finiscono su un divano davanti alla tv. Un cortocircuito tra desiderio e impossibilità. È qui che la poetica di Maurizio il grande si fa quasi beckettiana: un’arte che cerca il gesto e inciampa sulla sua ombra.
Altra tappa, altro scenario: un’installazione pubblica per uno dei luoghi simbolici della città. L’intervento rilegge i monumenti non come feticci marmorei della gloria nazionale, ma come campane rotte della coscienza collettiva. È un inno gentile alla ribellione, dice il comunicato distribuito ai giornalisti. Ma dietro la gentilezza si intravede il ghigno. Perché non si può parlare di unità nazionale senza pensare a quanto siamo diventati individualisti. E non si può evocare l’eroismo senza chiedersi chi, oggi, lo paga.
Le stagioni di Bergamo, la domenica infinita di Parigi
In questa giostra sottile, l’ultima opera, realizzata in marmo, affonda lo sguardo nella giustizia e nella libertà: parole grandi, spesso usate a sproposito. Cattelan le restituisce al loro peso, al loro dramma. Il marmo non è solo materiale nobile, ma anche eterno, inflessibile, per certi versi violento. È come scolpire una domanda che non ha risposta. Il contrasto con lo spazio espositivo non è solo estetico: è etico. L’opera parla di chi resta indietro, ma anche di chi potrebbe fare qualcosa e non lo fa. Di chi guarda e non vede. «L’artista come individuo è marginale, è la sua arte a essere utile», spiega Cattelan. «Apre spazi di riflessione, rompe schemi, racconta ciò che non si vede». A Bergamo, questi spazi si aprono tra le pietre medievali, le vetrate e i turisti.
Intanto, mentre Seasons occupa silenziosamente Bergamo fino al 26 ottobre 2025, Cattelan scopre di avere anche il dono dell’ubiquità e si ritrova anche in Francia, dove al Centre Pompidou-Metz ha allestito un’altra mostra. Titolo: Endless Sunday. Fino al 2 febbraio 2026 un ABC visionario, costruito con oltre 400 opere del museo e una quarantina delle sue. Una domenica senza fine, dove il giorno del riposo diventa il teatro della crisi e il luna park della consapevolezza.
Tra Duchamp e González-Torres, tra Meret Oppenheim e i suoi celebri provocatori come “L.O.V.E.” e “Comedian”, Cattelan costruisce un vero e proprio labirinto espositivo. Ogni stanza è una domanda, ogni opera un bivio. Il tutto con allestimento firmato Berger&Berger e testi scritti a quattro mani con le detenute della Giudecca. Donne recluse che riflettono sulla libertà nel giorno della libertà per antonomasia: la domenica appunto. Ironia? Compassione? Politica? Tutto insieme, e molto di più. Perché, come afferma ancora l’artista, «una volta che un’opera lascia il mio studio, non mi appartiene più. Mi interessa il dialogo che può generare, non tanto chi la possiede».
A proposito di possesso, non si può ignorare il recente aggiornamento giudiziario: pochi giorni fa, uno degli uomini coinvolti nel furto del suo celebre gabinetto d’oro – 18 carati, 4,8 milioni di sterline – è stato condannato. Frederick Doe, alias Frederick Sines, è stato giudicato colpevole di cospirazione nel trasferimento di beni criminali. Una storia che sembra uscita da un film dei fratelli Coen, e invece è pura cronaca giudiziaria. L’opera, parte di una mostra al Blenheim Palace nel 2019, è stata letteralmente svitata e portata via come se fosse un trofeo. E forse anche quest’episodio è una sorta di paradigma di quanto propugna l’esposizione bergamasca: la bellezza e la miseria, il sacro e il banale, l’alto e il basso si rincorrono a cicli alterni. Ogni stagione porta la sua verità, ma anche la sua menzogna. E l’arte, se è onesta, ci obbliga a riconoscerle entrambe.

Diario per John, "opera postuma" che raccoglie le conversazioni tra la scrittrice e il suo psichiatra, è finito al centro del dibattito letterario. Davvero tutto quello che gli scrittori scrivono è fatto per essere letto e pubblicato? Anche senza il loro consenso?