Caterina Barbieri ha trasformato la Biennale Musica

La direttrice di quest'edizione, nome noto nel mondo della musica elettronica ma lontano da quello della classica contemporanea, cura un programma di grande cambiamento: ne abbiamo parlato con lei.

10 Ottobre 2025

Dall’11 al 25 ottobre a Venezia si terrà la sessantanovesima edizione della Biennale Musica, o Festival internazionale di musica contemporanea, un’istituzione che nel corso degli anni ha visto sfilare nomi come Luciano Berio, Pierre Boulez, Steve Reich e le prime assolute di opere di Stravinskij, Prokofiev, Luigi Nono e tanti altri. Non più tardi di due anni fa eravamo stati a vedere lo spettacolo realizzato da Brian Eno per il suo Leone d’oro. La più grande novità di questa edizione dello storico festival è la nomina a direttrice di Caterina Barbieri, un nome noto a chiunque si interessi di musica elettronica ma, nonostante i suoi studi al Conservatorio, poco legato al tradizionale mondo della classica contemporanea. Non a caso, il programma da lei curato presenta una varietà di nomi che va da Ecco2K ai Sunn O))), passando per William Basinski, Fennesz, Meredith Monk (alla quale verrà assegnato il Leone d’oro di quest’anno), Actress in coppia con Suzanne Ciani, Rafael Toral, Nkisi, Moritz von Oswald, Moor Mother, Carl Craig e ovviamente moltissimi altri. Abbiamo fatto con lei una lunga chiacchierata, per farci raccontare questa sua prima direzione.

La prima cosa che volevo chiederti è come ti stai vivendo questo momento prima dell’inizio, se c’è più entusiasmo o più tensione rispetto a questa tua prima Biennale.
Sicuramente tanto entusiasmo: siamo in una fase trepidante di preparazione, che certo è impegnativa. Ci sono tanti aspetti da seguire, da quello logistico alle interviste, però direi che l’entusiasmo prevale sicuramente. Soprattutto poi arriverà la parte divertente, il momento della musica: è quello per cui si sogna e si costruisce tutto questo.

Questa tua prima Biennale è un bel cambiamento rispetto al passato e alla tradizione della classica contemporanea a cui come istituzione è storicamente più legata, una musica più legata alle partiture, a un certo tipo di composizione. Tu arrivi invece a portare un elemento di discontinuità e di cambiamento.
Vorrei vederlo sicuramente come un cambiamento, ma in continuità con quella che è la realtà di Biennale. Soprattutto questa prima edizione non la vedo come un festival di totale rottura, piuttosto una graduale trasformazione, un’apertura a un mondo più ampio del contemporaneo, per poter rappresentare la musica del presente in maniera più variegata e reale, non soltanto legata all’ambito accademico. Però ho cercato di creare una continuità. È un festival che trovo comunque piuttosto canonico, anche i nomi della musica elettronica o elettroacustica che ho invitato sono molto spesso quelli di pionieri, perché mi interessava accompagnare il pubblico in questo cambiamento, piuttosto che vederlo come una rottura. Devo dire che da parte di Biennale ho trovato molta accoglienza e molto entusiasmo rispetto a questo. Chiaramente è un’istituzione molto strutturata, quindi c’è bisogno di lavoro anche rispetto alla modalità di ascolto, la fruizione. A me interessava fare anche eventi che andassero un po’ oltre l’idea di ascolto passivo formale del concerto dove ci si siede e si ascolta, un’idea più partecipativa, che parta dall’esperienza diretta dell’ascoltatore, e sembra banale ma anche soltanto realizzare formati più sperimentali d’ascolto in un contesto come quello di Biennale non è scontato, perché comunque c’è tutta un’istituzione dietro che ovviamente deve mantenere un certo livello di standard, di formalità, di sicurezza, e quindi tutto questo richiede lavoro ulteriore. Però mi sembra che ci sia molta voglia di fare questo lavoro insieme, quindi è stato bello. 

Come nasce il concept di La Stella Dentro, oltre ad essere, credo, un acronimo di LSD?
Totalmente non intenzionale! 

Però è legato anche a una ricerca di astrazione, psichedelia e riflessione su se stessi, no?
Certo, sicuramente c’è un’idea di musica come un mezzo attraverso cui espandere gli orizzonti della percezione, questa è una visione della musica che trovo affine anche alla mia pratica artistica: la musica come mezzo di connessione con sé stessi ma anche con una dimensione altra. 

L’immagine della stella dentro è un’immagine poetico-simbolica che è emersa in maniera molto spontanea quando ho iniziato a pensare a questo festival. Prima ancora di accettare questo incarico ero molto infervorata da questa prospettiva, da questa possibilità, ma anche tesa. Perché i tempi erano stretti, e quindi avevo il cervello in fiamme, e la notte del giorno in cui sono andata a conoscere il team di Biennale e ho iniziato a pensare alla possibilità del festival non riuscivo a dormire. Sono andata a San Marco, e all’alba ho visto queste ultime stelle sull’orizzonte. Lì è emersa un po’ come un flash questa immagine della musica come stella dentro, questo desiderio di vastità, quest’idea della musica come scintilla di mondi, nella sua natura generativa, capace di produrre cosmi in miniatura.

Dopo aver delineato e deciso anche per te stessa questo concept o quale sarebbe stata l’idea di questa Biennale, come si è tradotta e sviluppata nella creazione di un programma?
Mi sono un po’ lasciata guidare da un’idea di programmazione per risonanza, cercando di andare oltre l’idea di uno specifico stile, genere, epoca, geografia, quanto piuttosto di celebrare la musica nella sua natura generativa e metamorfica, cioè come può cambiare pelle attraverso i secoli, le geografie, anche attraverso diverse comunità, quindi ho cercato di far respirare questi mondi apparentemente lontani, accostandoli.

Prendiamo il 18 ottobre: si va dalla musica antica a Carl Craig, passando per Meredith Monk e Abdullah Miniawi. In una giornata puoi avere un esempio di questa sorta di capsula temporale che attraversa diversi orizzonti, accostando anche tradizioni musicali apparentemente distanti ma che in qualche modo possano presentare delle risonanze, delle affinità. In realtà c’è proprio un intento programmatico dietro questa cosa, c’è l’idea di sfatare quel mito che ci siano necessariamente codici alti e bassi della cultura, o una musica che è più di valore di un’altra, e in qualche modo anche un po’ smorzare questa mentalità così rigida, museale e conservativa, che un po’ abbiamo in Italia nel mondo accademico.

Oltre che nei generi, anche nel tempo si spazia dalla musica antica e ovviamente l’organo, fino ad arrivare alla composizione generativa e alle soluzioni più avanzate della contemporaneità.
Sì, secondo me la musica è uno di quei linguaggi che esprime la relatività del concetto di tempo, lo comprime, lo espande, lo accelera, lo decelera. Nella musica possiamo veramente sperimentare con la percezione del tempo e ci rendiamo conto di quanto appunto sia relativo: viaggiamo spazio-temporalmente, ascoltiamo la musica antica e ci sembra più contemporanea di un disco rock degli anni Sessanta. Questa porosità della materia spazio-temporale è qualcosa che la musica riesce secondo me a celebrare in maniera sempre molto bella, elegante e accessibile, quindi l’idea è quella di far vedere il continuum, e come fondamentalmente nella bellezza e nel trasporto emotivo dell’ascolto anche questi concetti temporali così rigidi si possano dissolvere. Un’esperienza anche un po’ di alterazione spazio-temporale, psichedelica, che in realtà è connaturata per me tantissimo all’esperienza sensoriale di Venezia, che ha questo paesaggio d’acqua, di luce in continua mutazione, così psichedelico in termini di apertura delle possibilità. Un sole che sorge a Venezia è sempre diverso, per questo gioco che c’è di riflessi di luce, di movimento. È una città che veramente non finisce mai di stupire, e questo linguaggio della città secondo me è un linguaggio altamente musicale: quando giro per Venezia mi sembra di vedere la musica materializzarsi. 

Guardando il programma saltano all’occhio la presenza di opere di Eliane Radigue e di Laurie Spiegel, e quella di Suzanne Ciani. Pioniere della musica elettronica che magari noi diamo ormai per acquisite, mentre dal mondo accademico probabilmente non è ancora stata del tutto sdoganata e valorizzata l’importanza di queste figure, soprattutto per chi studia nei conservatori o questo tipo di istituzioni.
Da una parte mi sento in qualche modo figlia di quella tradizione, perché nell’ambito della musica elettronica trovo che le pioniere donne abbiano sviluppato un pensiero musicale estremamente specifico e innovativo che ancora oggi in realtà stiamo scoprendo e stiamo valorizzando, che ho sempre trovato molto dirompente e di ispirazione, e l’hanno fatto spesso con visionarietà e capacità di stare fuori dall’impostazione più accademica, conservatrice, tra l’altro dominata da figure maschili. Quindi in qualche modo è prima di tutto un tributo estetico-musicale in risonanza con quello che è il mio percorso; e poi sicuramente è per dare anche un segnale. Perché è vero che negli ultimi dieci, quindici anni c’è stato questo lavoro di riscoperta e valorizzazione, ma trovo che in Italia, in particolare, ce ne sia ancora bisogno, soprattutto a un livello così istituzionale e formativo come quello che può essere il potenziale di Biennale. Io ho studiato al conservatorio a Bologna ma nella mia formazione non si è mai neanche citata una figura femminile. Si parla di quindici anni fa, però comunque immaginati cosa significa non avere nessun riferimento femminile in quello che è un mondo a cui magari una giovane studentessa si vuole approcciare. Quindi c’è sicuramente quel desiderio. E ho cercato di inserire anche nomi meno noti, come quello di Catherine Christer Hennix, morta alla fine del 2023, il cui lavoro meriterebbe di essere più conosciuto.

Non so se hai voglia di dirmi qualcosa anche sul discorso sull’identità extra occidentale, o sul superamento dell’identità di genere, altre tematiche che ricorrono nella composizione del cartellone, che suppongo ancora una volta sia qualcosa che è semplicemente successo: tra i nomi più interessanti del contemporaneo accade che ci siano artisti da tutto il mondo e che si identificano in qualsiasi tipo di genere, quindi nel programma si riflette questa cosa.
Esattamente. Io tra l’altro sono anche abbastanza delicata e sensibile a non impostare la programmazione in maniera così esplicita, perché non è il percorso che mi porta a programmare in questo modo, per me avviene in maniera molto organica. Se ti guardi attorno, sei partecipe di quello che è il mondo del contemporaneo, ti rendi conto che appunto molto spesso la forza del presente sta proprio in questa diversità, varietà di voci. Non è un caso che anche se guardi le classifiche dei migliori album degli ultimi anni spesso ci sono molti dischi di compositrici donne, non penso per una questione mediatica, ma semplicemente perché le voci che a lungo sono rimaste più marginali hanno una forza dirompente, hanno qualcosa da dire, e questa sorta di urgenza espressiva poi si trasmette, arriva alle persone, per cui effettivamente negli ultimi anni ci sono stati molti dischi interessanti e innovativi per questo motivo, ed è questo che mi spinge a voler dare voce a quest’urgenza espressiva, anche perché è in questo modo che accediamo al contemporaneo.

Nella programmazione in maniera naturale e organica c’è molta varietà: anche il Leone d’argento, ChuquimamaniCondori – il suo lavoro rompe tutte le categorie. Origini boliviane, con questa forte identità legata alla comunità indigena aymara, un lavoro radicato in un discorso decoloniale, che attraverso la musica e l’arte porta avanti un discorso di resistenza politica e culturale, molto legata anche all’identità queer. Tutti questi temi ci sono, però io semplicemente sono una grandissima ammiratrice del suo lavoro e trovo che si meriti il Leone d’argento al di là di tutti questi discorsi per l’urgenza espressiva del suo lavoro e per l’innovazione, perché poi i Leoni della Biennale devono prima di tutto celebrare l’aspetto innovativo e dirompente dell’espressione artistica, quindi mi sono lasciata guidare soprattutto da questi valori. 

Com’è avvenuta invece la scelta di Meredith Monk per il Leone d’oro?
Il Leone d’oro va alla carriera e a quelli che sono i traguardi dell’artista: per me era interessante e importante darlo a una figura pionieristica. La forza del lavoro di Meredith Monk sta nella sua sperimentazione vocale, l’uso esteso delle tecniche vocali, e l’unicità del suo lavoro sta proprio nel fondare tutto il suo mondo artistico che è così espanso, così multidisciplinare, su un elemento minimale, fragile e vulnerabile come quello della voce umana. Nel suo lavoro si incontrano tantissime forme d’arte, per cui il Leone va anche alla dimensione interdisciplinare della sua pratica artistica, che in qualche modo rompe qualsiasi categoria, perché lei mescola teatro, opera, poesia, performance art, installazioni… Quindi veramente un’artista il cui lavoro non si può limitare a un campo dell’espressione, ma in qualche modo si va oltre a questo concetto, e per me l’aspetto generativo del suo mondo artistico è anche un po’ quello che trova una profonda connessione con il tema del festival.

L’ultima domanda riguarda il fatto che sarebbe difficile, e probabilmente anche sbagliato, ignorare che comunque mentre ci occupiamo di arte e di musica il mondo non è in una buona situazione, e in particolare c’è un genocidio in corso – la questione di Gaza ha anche molto movimentato il Festival del Cinema. Questo tema avrà a che fare in qualche modo con questa tua Biennale o la tua idea è di lasciare libertà a chi volesse occuparsene senza che ci sia qualche cosa di ufficiale?

Gli artisti hanno totale libertà e ci sono state già conversazioni, discussioni, dialoghi, tra loro e anche con me. Trovo che in generale la musica abbia sempre una potenzialità politica, una funzione politica, creando occasioni di coesione, di confronto e di catarsi collettiva e sociale. C’è questa dimensione politica all’interno del festival, questo desiderio che in qualche modo la musica possa offrire un momento appunto di catarsi, di trasformazione di tutte queste emozioni che sono legate al lutto, alla tristezza, alla rabbia e a questo senso di generale impotenza e disperazione per quello che sta accadendo. Non c’è, devo dire, un’intenzione programmatica per ora, nel momento in cui parliamo (a qualche settimana dall’inizio del festival, nda). Al di fuori di Biennale ci sono una serie di attività rispetto a cui i musicisti si stanno muovendo, adesso per esempio c’è No Music for Genocide, per bloccare, attraverso la geolocalizzazione, la diffusione della propria musica in Israele da parte delle piattaforme, che è un’iniziativa che supporto appieno, anche con il catalogo della mia etichetta. Fin dall’inizio, anche nella mia proposta di festival, ho cercato di mettere in luce l’importanza di riconnettere una dimensione politica della musica, perché la musica ci dà tantissimo questa possibilità di trovare nuovi strumenti di empatia e coesistenza essere in grado di ascoltare, ascoltare l’altro. Questa secondo me è anche la dimensione più nobile del viversi la musica. Per ora non mi sento di entrare più nel dettaglio perché non c’è a oggi un’idea di attivazione più specifica, però siamo sempre in discussione, e come posso cerco sempre di amplificare, di dare spazio ovviamente alla totale libertà. Vivo tra l’altro questo contrasto rispetto alla Germania, dove abito, e dove è pessima la situazione da questo punto di vista, perché c’è un approccio di censura molto più forte. La situazione ormai è talmente assurda che ci sono tanti artisti che hanno deciso di lasciare Berlino e la Germania proprio per questo motivo. Trovo che tutto sommato in Italia ci sia molta più possibilità di portare questi temi anche a un livello più pubblico e istituzionale, mentre a Berlino quest’anno il dialogo con le istituzioni è stato veramente difficile. Alla Biennale fortunatamente ci sarà sicuramente la massima libertà di prendere posizione ed esporsi, e sono temi che probabilmente e inevitabilmente verranno fuori, visto che la musica ha sempre in sé la possibilità di generare trasformazione e dialogo socio-politico.

È uscito il primo trailer di Father Mother Sister Brother, il film con cui Jim Jarmusch ha vinto il Leone d’oro a Venezia

Nelle sale americane lo distribuirà Mubi a partire dal 24 dicembre, in Italia invece lo porterà Lucky Red.

La nuova mostra di Nan Goldin ci ricorda che per lei l’arte è una battaglia dopo l’altra

Tra intimità, memoria e attivismo: negli spazi di Pirelli HangarBicocca di Milano il più grande corpus di slideshow mai riunito dall’artista invita a ripensare il legame tra immagine e vita, prima che sia troppo tardi.

Leggi anche ↓
È uscito il primo trailer di Father Mother Sister Brother, il film con cui Jim Jarmusch ha vinto il Leone d’oro a Venezia

Nelle sale americane lo distribuirà Mubi a partire dal 24 dicembre, in Italia invece lo porterà Lucky Red.

La nuova mostra di Nan Goldin ci ricorda che per lei l’arte è una battaglia dopo l’altra

Tra intimità, memoria e attivismo: negli spazi di Pirelli HangarBicocca di Milano il più grande corpus di slideshow mai riunito dall’artista invita a ripensare il legame tra immagine e vita, prima che sia troppo tardi.

László Krasznahorkai ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura 2025

Lo scrittore ungherese, 71 anni, è stato premiato «per la sua opera trascinante e visionaria, capace, in un'epoca di terrori apocalittici, di riaffermare il potere dell'arte».

Dopo il successo al cinema di Le città di pianura, su Mubi arriva l’opera prima di Francesco Sossai, Altri cannibali

È un horror, parla di cannibali (ovviamente) e finora era stato praticamente introvabile a causa della mancata uscita nelle sale.

di Studio
Nel film di Tre ciotole si sente la voce di Michela Murgia, ma c’è anche molto altro

Giovedì 9 ottobre arriva nelle sale l'adattamento dell'ultimo libro di Michela Murgia, Tre ciotole, diretto da Isabel Coixet, con protagonisti Alba Rohrwacher ed Elio Germano.

Francis Ford Coppola sta cercando attori in Calabria per il suo nuovo film, che sarà girato tutto in italiano

Distant Vision è un liberissimo adattamento dei Buddenbrook: sarà il primo film in italiano del regista e pure il suo primo film girato in Calabria.