Stili di vita | Coronavirus
Le cose che ci hanno salvato in quarantena
I cibi, gli oggetti, la musica e le altre nuove abitudini che hanno definito le nostre giornate durante il lockdown.
Un particolare del poster di Jordan Bolton dedicato a Call Me by Your Name (2018) di Luca Guadagnino
Qualche tempo fa un artista di Manchester ha iniziato a realizzare una serie di poster in grado di rappresentare alcuni film soltanto mostrandone gli oggetti di scena, quelli fondamentali per la costruzione dei protagonisti. Una bibbia e una bottiglia di Rosewood per Le Ali della libertà, una camicia azzurra, una pesca e uno spartito per Call Me by Your Name, con l’idea che siano proprio gli oggetti che scegliamo e da cui ci lasciamo circondare a definirci. Lo abbiamo fatto anche noi, traslando questo discorso alla situazione attuale, e raccontando così attraverso una serie di elementi, tre o quattro, cioè che ci ha salvato e che ha definito la nostra quarantena. Che si trovassero in frigorifero, accanto al giradischi, dentro a uno schermo o nei cassetti dell’armadio: cose che sono state per cinquantacinque giorni e oltre, parte di un piccolo e personale kit di sopravvivenza.
L’Old Fashioned, la colatura di alici, la musica di Hiroshi Yoshimura
«Ora che il mondo sta crollando, ho bisogno di un drink che sia corto, forte e che vada al sodo – ecco perché ho scelto l’Old Fashioned per la mia ricetta da bunker», è quanto ho letto su un articolo a firma Alice Lascelles, pubblicato sull’FTWeekend di qualche settimana fa, una frase che mi rappresenta alla perfezione: uno dei riti che hanno caratterizzato la mia quarantena è stato infatti l’Old Fashioned di fine giornata lavorativa pre-cena, diciamo delle 19 e 30, preparato con una base di Wild Turkey (bourbon) o Jim Beam (Rye) e poi la solita angostura, lo zucchero e, dopo aver seguito la ricetta di Lascelles, la scorza di limone invece dell’arancia. Non so se mi abbia salvato la vita ma di sicuro quel piccolo stordimento dolce-amaro è il sapore che contraddistingue la mia quarantena. Insieme magari alla colatura di alici, la meravigliosa e magica acquina prodotta a Cetara, Costiera amalfitana, che si mette soprattutto sulla pasta, meglio se una semplicissima aglio, olio, peperoncino e che ho riscoperto per caso, ma che mi è sembrato un cibo molto adatto all’apocalisse. Per le giornate silenziose, che, da padre separato, sono state più o meno la metà di questo tempo trascorso in isolamento (l’altra metà sono state molto rumorose), ho trovato una sintonia perfetta con la musica di Hiroshi Yoshimura, mitologico padre dell’ambient giapponese (morto nel 2003), soprattutto il suo disco Music for Nine Postcards (1982), che ho ascoltato lavorando appunto e buttando un occhio alla strada vuota, oltre il balcone. (Cristiano de Majo)
Le uova, il telecomando, le candele
«Con tre uova al giorno campi 100 anni», me lo ha detto mia nonna al telefono quando le ho raccontato che le uova in pacchi da sei mi stanno salvando la vita da oltre due mesi. Sapere contadino, tentativo di conforto, non so se funzioni. Intanto, ho imparato un dodicesimo modo per cucinarle a colazione, pranzo e cena, mentre accendo compulsivamente tutte le candele con cui ho riempito il mio salotto, dove dopo le 21:00 immagino ci sia la stessa atmosfera del transetto del Duomo di Vienna. Ai miei dvd, poi, devo la compagnia di notti insonni, e al telecomando le nuove certezze su cui sono sicura fonderò la mia esistenza. Che qualsiasi cosa potrà mai accadere, da qualche parte in seconda serata troverete Candido, il “cartomante dell’amore”, e persino La mosca di Cronenberg se sarete fortunati. Qualche sera fa, mi sono imbattuta in Novecento, Bertolucci, 318 minuti, «non sono mai riuscita a finirlo, o adesso o mai più», e ha cambiato per sempre la mia vita, nel senso che non penso riuscirò più a considerare un film che duri meno di quattro ore. Ma camperò 100 anni. Almeno, occuperò il mio tempo. (Corinne Corci)
Pinterest, fare le pulizie di notte, le playlist con le canzoni di TikTok
Mentre tutti scoprivano Zoom, io, che non amo gli aperitivi e le chiacchierate di gruppo – online o reali che siano – ho riscoperto Pinterest. Quando mi stufavo di acquistare su Amazon decorazioni per la nail art che riceverò non prima del 27 luglio e mi stancavo di stare sul balcone fissando un punto imprecisato all’orizzonte (durante questa quarantena ho ufficialmente smesso di fumare per la prima volta in 15 anni – ma continuo a prendermi delle pause “fuori”) mi perdevo tra le immagini brutte di Pinterest, in cerca dell’immagine perfetta che riassumesse, ad esempio, lo “stile goth anni ’80”. Ho dormito moltissimo, ma nelle rare nottate di insonnia mi hanno salvato le pulizie notturne. Mi sono spesso chiesta, in questo periodo, che fine fanno tutti i momenti che passiamo da soli, se rimangono nella memoria come quelli vissuti insieme alle persone che amiamo o se si indeboliscono fino a sparire. Chissà se ricorderò le ore passate a pulire la casa nel cuore della notte, tenendo accese soltanto le abat-jour, cercando di non fare troppo rumore, e intorno a me Milano immersa in un silenzio mai udito prima. Sicuramente ricorderò le pulizie energiche del weekend (l’unica attività fisica che sono riuscita a intraprendere, nonostante i buoni propositi), fatte ascoltando le playlist con le hit di TikTok del 2020 e dimenandomi a caso, dopo aver provato per 45 minuti a imparare un balletto di 12 secondi, e aver rinunciato. (Clara Mazzoleni)
La vignarola, Heimat, finire i libri
Nessuno ha mai specificato di che forma dovesse essere la meditazione, quando si diceva che sarebbe stata un’attività utile – se non necessaria – nelle giornate vuote di quarantena. La mia era fatta (lo è tuttora, finché regge la stagione) di una ricetta in particolare: di lenti movimenti delle dita che aprono per il lungo il baccello dei piselli per farli cadere in una ciotola, poi le fave, che se sono grosse vanno anche private della buccia, e si dedicano ai carciofi con lo spelucchino. Un cipollotto e un po’ di guanciale a soffriggere, un brodo vegetale a coprire tutto per venti minuti. Infine, il profumo della menta. I pomeriggi in silenzio a preparare la vignarola da mangiare lungo tutta la settimana, senza fretta, hanno scandito queste settimane di quarantena. Quando non ero impegnato a mangiare o cucinare, mi sono dedicato ad altre attività che richiedevano tempo e pazienza: non le serie tv, non l’ansia del cosa guardo stasera, ma la distillazione lenta di Heimat, il capolavoro di Edgar Reitz del 1984, oltre 15 ore impossibili da guardare in binge watching per la lentezza con cui si dipanano lungo l’intero secolo tedesco. La solitudine è servita anche a sistemare diverse cose, chiuderle e metterle via, metaforicamente e non. Ho sempre avuto una certa ritrosia verso le fini, e in giro per la casa questo problema si manifesta in decine di libri impilati e non terminati: non, però, lasciati a metà, o abbandonati dopo le prime pagine. Ma a cinque, dieci, quindici pagine dal termine. Il perché è lungo da spiegare, e mi costa 60 euro a seduta da un po’ di anni: ma giorno dopo giorno li ho affrontati tutti. Alcuni valevano lo sforzo, altri no. Ma è un piacere, finire le cose. (Davide Coppo)
ll forno, i film horror, le tute
Non saprei dire se ci sono delle cose, degli oggetti, che mi hanno salvato, o in qualche modo aiutato, durante i due mesi che ho passato chiusa in casa a Milano, uscendo solo una volta a settimana per fare la spesa. Di sicuro ce ne sono stati di putativi, e cioè di oggetti che, se avessi dovuto immaginare, facciamo tre mesi fa, di dover passare tutto quel tempo da sola in casa, avrei certamente reputato molto importanti per la mia sanità psicofisica. Come il tappetino per gli esercizi che mi ha regalato un amico, ad esempio, molto bello, ma usato una sola volta, al terzo giorno, e che ora staziona tra la finestra o lo specchio sia mai che la mattina abbia voglia di fare stretching visto che la quarantena m’ha regalato l’insonnia, oppure, abbonando a un’abitudine uno stato materico, la voglia e il piacere di cucinare, che invece no, mentre l’Italia si dava alla panificazione compulsiva, non mi ha mai posseduto. Mi sono comunque ritrovata a riscoprire il forno, però, perché ci ho buttato dentro molte verdure (dalle carote ai cavolfiori quando ancora erano di stagione) e ho scoperto che le rende più buone e non è poi tutto questo sbattimento. Poi ci sono stati i film horror e i thriller, come Midsommar, Old Boy, A Quiet Place, gli unici che mi stordivano abbastanza da dormire il sonno confuso di questi giorni, e infine le tute, di solito relegate ai viaggi o alle passeggiate in montagna, che mi sono preoccupata di abbinare per colore per non perdere del tutto la dignità. In realtà erano tutte nere, ma ne ho trovata una verde che evidentemente avevo comprato proprio per questo momento. (Silvia Schirinzi)