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Nella casa imperfetta di Inga Sempé

Abbiamo parlato con la designer della mostra-appartamento visitabile in Triennale Milano fino a settembre: un raffinato paesaggio di oggetti in cui decine di scorie quotidiane si mimetizzano tra gli arredi firmati da lei.

18 Luglio 2024

Fino al primo settembre, all’interno dello spazio espositivo Design Platform di Triennale Milano, c’è la Casa imperfetta di Inga Sempé, 150 metri quadri realizzati in collaborazione con studio A/C, dov’è ricostruita una casa «fresca di vita» come se «il proprietario uscito per comprare il pane avesse avuto un infarto o un incidente». Sentendo che la designer – che di cognome faceva Sempé, come il Jean-Jacques che con Goscinny inventò Le petit Nicolas – schiacciava pisolini all’interno dell’installazione, sono stata attirata in questo spazio, che è parso subito aderirmi come un guscio. Niente di più fuorviante dell’espressione “museo” per rendere l’idea dell’operazione artistica che questa designer  – che non vuole essere chiamata artista – ha compiuto nel suo raffinato paesaggio di oggetti: decine di scorie quotidiane mimetizzate tra arredi firmati da lei, tutti basati sul piacere ludico del meccanismo. Queste stanze, separate da pareti in tessuto, hanno telecomandi rotti buttati negli angoli, fatture sulle scrivanie, e forse avanzi in frigo e calzini sotto al letto. Il curatore Sammicheli ha scritto che su Sempé c’è pochissima letteratura scientifica, e che la sua è stata un’ostinata ricerca di autonomia dall’intellighenzia parigina e dall’ombra lunga di un padre ingombrante. Lo stesso vale per il suo design, che, secondo il professor Bosoni, è servizievole, non arrogante e non preoccupato di affermare l’estetica magniloquente dei modelli dominanti in Francia.

ⓢ Lei lasciò il Politecnico perché troppo teorico, e si definisce “solamente” una designer industriale. La mia impressione, però, entrando nella sua casa, è stata quella di entrare in un romanzo o in un dipinto… Davvero non si considera un’artista?
Non mi piace essere ricondotta a riferimenti culturali, a padrini, a citazioni. [Quando le dico che il gusto dei suoi ambienti è stato avvicinato alle atmosfere di Zazie sul metrò, lei risponde di non averlo mai letto, ndr]. La mia dimensione artistica si esaurisce nel criterio che l’oggetto mi piaccia: ma sempre sullo scheletro della tecnica, della produttibilità e della commercializzazione. Nella Casa imperfetta, volevo fare una casa che sembrasse abitata, vivace, piena di difetti: con tutte le imperfezioni che nascondiamo quando qualcuno viene a cena.

È vero che per dare questa impressione ogni tanto va a dormire nella sua mostra?
È successo solo una volta, e non mi ero messa nel letto, ma sul divano [Moël di Ligne Roset]. Mi sono addormentata perché venivo da un lungo viaggio e da un’influenza. Ma avrò dormito 20 minuti.

Questa intervista è per un giornale che si occupa molto di moda. Ma “il fuori moda”, protagonista della sua ricerca, è per me una categoria esistenziale.
Il fuori moda mi interessa tantissimo, e c’è pochissima gente che possa intenderlo. Per la gente, il bello è la moda. Per me, ciò che scompare e riappare dopo essere stato popolare si stacca dall’approvazione sociale e perde la volgarità del vistoso. In proposito, lessi un libro sulla popolarità dei nomi di battesimo: spiegava come l’onda del gusto si muove nel tempo, e che un nome, dopo essere stato inflazionato, deve essere lasciato a lungo nel purgatorio per poi tornare accettabile e interessante. Per quanto riguarda gli oggetti, vale la stessa cosa. Ho frequentato tanto i mercatini delle pulci, e mi succedeva di comprare cose immettibili lì per lì, ma che trovavo belle fuori dal tempo. C’è anche il fuori moda brutto, ma a me interessava quello che ha sapore.

In questa famiglia di oggetti inattuali, nella Casa imperfetta, ho visto anche certe pistoline d’acqua…
Le pistolette d’acqua sono parte di un ragionamento diverso: rappresentano quegli oggetti che si hanno in casa ma che non si sono scelti, perché per esempio si vive con bambini. Così sono andata da mia madre [l’illustratrice Mette Ivers], e le ho chiesto di darmi delle cose brutte: oggetti anonimi prodotti in Cina che abbiamo quasi tutti in tutti i paesi, che potessero porsi in contrasto agli oggetti disegnati da me. Da un’amica incasinata, ho trovato un termometro di plastica che ho poi messo in cucina, tutto coperto di grasso. Ho aggiunto anche oggetti bruttini dal mio studio: un pezzo di carta con 3 nomi di legni in inglese e le loro traduzioni in francese, perché da anni non riesco a impararli.

Anche quel sapone molto usato che è nel bagno fa parte dell’operazione?
Anche quello l’ho preso da mia madre. Assomiglia così tanto a un formaggio che nemmeno in tre anni sarei riuscita a ridurre un sapone così. C’è anche una spugna consumata e un pettine giallastro, mia mamma è venuta a vedere la mostra a Milano e mi ha detto: lo cercavo dappertutto, è così schifoso che non pensavo ti servisse!

Se ho capito bene, la scelta di tutti questi dettagli vivi serve a togliere il design dal piedistallo.
A 21 anni, sono stata al museo del design a Londra. Mi ha fatto tristezza vedere tanti oggetti che avevo visto esposti nei mercatini messi sottovetro. Oggi capisco che fossero importanti, ma quel che interessava me era vedere gli oggetti a casa di qualcuno, in un negozio, non scelti e ben ordinati da una specialista. Non volevo che un esperto scegliesse ciò che dovevo ammirare. Preferivo la vita degli oggetti.

Nei tuoi progetti, c’è un occultamento della tecnologia. Io amo molto i romanzi e i film dove per scelta non ci sono smartphone, e ho visto che nella Casa imperfetta non ci sono schermi. È una questione estetica o morale?
Non è del tutto vero che nella mia casa non c’è tecnologia scoperta: per esempio, ci sono dei telecomandi. La tecnica è molto importante nel mio mestiere, e anche se i miei oggetti vogliono sembrare un po’ leggeri, c’è tantissima tecnologia. Io parto sempre dalla tecnica, dalla funzione, non mi concentro sull’estetica se non a un livello incosciente. La tecnica deve essere integrata all’estetica. Non direi che rifuggo la tecnologia. Io faccio tante lampade, e ora le lampade sono imprescindibili dall’elettronica. Non mi è mai successo di disegnare uno schermo, ma lo farei.

ⓢ  Lei ha detto che «nel 2000 ha fondato il suo studio, ovvero ha aperto un quaderno sul tavolo della cucina». I giornalisti sono sempre rimasti scioccati dalla semplicità dei suoi atelier ricavati in corridoi di case caotiche, dove viveva col suo bambino… L’umiltà è una disciplina autoimposta o un modo di essere?
Io faccio cose che trovo interessanti, e in questo non sono umile. Però non cambio la vita della gente: il mio impatto è leggerissimo. Non lavoro nel campo della scoperta scientifica, non ho inventato l’i-Phone. L’umiltà è la mia pura e semplice verità. Se viene un giornalista a trovarmi, non pulirò mai lo studio. Si tratta di onestà ma anche di pigrizia. Sono annoiata e stupita dai designer che mostrano grandi luoghi bianchi e puri, mentre per fare un oggetto bisogna fare tanti modellini e tanta polvere. Non capisco perché il design debba essere legato a un freddo immaginario fantascientifico, quando è un’attività industriale. Sarebbe come uno che fa riparazioni per le macchine e non ha olio sotto le unghie!

Sin dall’inizio della sua carriera, lavora con materiali inattesi: spazzoloni industriali per un mobile contenitore; tessuti agricoli per i lampadari; vassoi di cuoio. Sembra che giochi coi materiali come un bambino che immagina oggetti impossibili…
Non c’è un approccio giocoso dietro alla scelta dei miei materiali. Li ho sempre scelti perché erano una soluzione. Se c’è tanto tessuto, è perché nella mia casa d’infanzia non c’era nemmeno un trapano, e io non sapevo come le cose fossero fatte dentro. Così ho cominciato a manipolare la carta, il cartone, la stoffa e l’argilla. Ho cominciato dai materiali che c’erano in casa, non potevo certo lavorare il legno o il metallo. E poiché dovevo dare struttura, togliere fiacchezza a carta e tessuti, ho iniziato a fare le pieghe, a plissettare.

È per questo che molti dei tuoi mobili hanno le pieghe.
Certo, per una questione partica. Brosse [Edra], il mio mobile fatto con spazzole industriali, è nato perché volevo che lo scaffale fosse chiuso alla vista ma aperto, e volevo evitare l’effetto delle frange hawaiane fricchettone. Volevo che avesse un aspetto industriale. Per quanto riguarda la lampada estendibile Plissé [prodotta da Luceplan] avevo bisogno che si allungasse come i tavoli, e ho trovato un tessuto metallico usato in agricoltura che aveva questa proprietà.

Quindi ha iniziato a progettare da bambina?
Sì, disegnavo e facevo cose in volume già da piccola: scatole per mettere gli inchiostri di mia madre, posaceneri con teste di gatto e cane perché lei fumava tantissimo, giochi di carte e altre cose che avessero un uso quotidiano immediato.

A casa ha degli oggetti progettati da lei?
Vivo dove lavoro, e le ditte mi danno qualche esemplare per contratto. Ecco perché li ho. Ma non sono circondata dai miei oggetti: il mio scopo non è farli per me.

ⓢ Nella Casa imperfetta, c’è un oggetto a cui tiene in special modo?
Non saprei. Brosse e la lampada plissettata sono stati i primi in assoluto a essere prodotti, e furono prodotti in Italia, che per me è stato il paese delle opportunità. E poi ci sono tanti quadri di mia madre: ovvio che ci tengo. Ma in effetti, non sono così attaccata agli oggetti. Ce ne sono sempre di nuovi: a ogni periodo, ci sono sempre degli oggetti, così come dei libri e dei film, interessanti. Io per fortuna sono ottimista e guardo a quelli che devono ancora venire.

Qualcuno degli oggetti sottratti tornerà a casa di sua madre?
Non penso. La spugna disgustosa forse la regalerò al museo.

Tutte le fotografie sono di Gianluca Di Ioia © Triennale Milano, tranne l’ultima © Inga Sempé.

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