Si inizia a parlare di settimana corta, di riduzione delle ore lavorative. Prima, però, vanno ripensati i confini tra il tempo libero e il tempo del lavoro.
Prima reporter, poi editor, audience specialist e oggi persino dream wrangler – un titolo da chi promette di trasformare i sogni in realtà che sembra uscito da un romanzo di fantascienza. Eppure è parte del ruolo ufficiale che Bridget Thoreson ricopre in una società che aiuta le redazioni a rafforzare il legame tra giornalismo, comunità e democrazia. Le si addice. Thoreson ha infatti il raro talento di trasformare visioni in strumenti concreti, capaci di scardinare le tradizionali aspettative sul lavoro. Come il career river, la metafora con cui quattro anni fa ha cominciato a raccontare la carriera non più come una scalata, ma come un fiume – con passaggi tortuosi, correnti e ramificazioni. In un’epoca segnata da burnout, dimissioni di massa e nuove forme di ambizione, abbiamo parlato con lei della trappola del “lavoro dei sogni” e di come imparare a ridefinire il successo senza lasciarsi spaventare dall’incertezza.
ⓢ Qual è il peggior consiglio che hai ricevuto sul lavoro?
All’università, mi sono sentita dire dal mio tutor: «Non fare giornalismo, non c’è più lavoro. Vai a studiare Legge». Il posto fisso in redazione, in effetti, sarebbe diventato quasi un miraggio, ma quello che lui non vedeva erano le nuove possibilità che si stavano aprendo.
ⓢ È un esempio di come alcuni schemi tradizionali, compresa la scalata di carriera, oggi non funzionino più.
La “scalata” è un modello superato, pensato più per le aziende che per chi ci lavora. Le nuove generazioni lo capiscono presto: magari inizi con entusiasmo in ruoli molto impegnativi e stressanti, che alla fine ti esauriscono. E ti rendi conto che, nonostante studi ed esperienze, non esiste un percorso lineare. È frustrante, ma anche un segnale della necessità di esplorare nuove strade.
ⓢ Per questo scrivi che bisognerebbe lasciar perdere il “lavoro dei sogni”?
Non credo più al “lavoro dei sogni” e la ritengo un’idea pericolosa che rischia di farci confondere quello che facciamo con quello che vogliamo dalla vita. Un lavoro resta sempre un lavoro, con i suoi lati negativi. Oggi cerco ruoli che rispondano a ciò che mi serve in quel momento, dentro e fuori la professione. Immaginare la carriera come un fiume mi ha insegnato che i sogni cambiano nel tempo, e che accettarlo è liberatorio.
ⓢ Se non per trovare il lavoro dei sogni, a cosa serve guardare alla carriera come a un fiume?
È un modo diverso di raccontare il successo: non più una scalata verticale, ma un flusso nel quale ogni esperienza, perfino un fallimento, diventa parte del percorso. Questa visione libera dalla paura di fare la “mossa sbagliata”. Spesso non ci concediamo il diritto di fare passi incerti o di rallentare, perché ci aspettiamo di essere sempre al massimo, come ingranaggi in una catena di montaggio. La metafora del fiume ci ricorda invece che anche i tentativi, le pause e i cambi di direzione hanno un valore.
ⓢ Il Career River è nato anche da una crisi personale. Ce la racconti?
Sì, nel 2021 stavo attraversando un momento molto difficile. L’azienda per cui lavoravo stava cambiando direzione, lontano dal tipo di lavoro che volevo fare, e io non vedevo più una strada davanti a me. Mi sentivo bloccata, senza prospettive, al punto da ritrovarmi a piangere sul pavimento della cucina. Già prima, raccontando il mio percorso, avevo usato l’immagine del delta del Nilo: rami che si intrecciano, pieni di curve e deviazioni. Ma solo in quel momento ho capito che tutta la mia carriera poteva essere un fiume. E che quell’immagine poteva aiutarmi ad andare avanti senza caricarmi di pressioni eccessive, lasciandomi libera di esplorare e trovare l’opportunità giusta – arrivata otto mesi dopo.
ⓢ Secondo te perché così tante persone, in tutto il mondo, si riconoscono in questa idea?
La prima volta che ne ho parlato pubblicamente, con un post pubblicato di getto, non immaginavo avrebbe avuto quella diffusione. Ho capito subito che non riguardava solo me o il giornalismo, perché hanno iniziato a scrivermi persone di campi diversissimi, dalla sanità al tech. Credo che funzioni perché il fiume evoca scoperta, mentre la scalata impone di puntare sempre al gradino successivo, anche quando non è quello che desideri, scaricando tutta la responsabilità su di noi. Nella mia newsletter ho poi intervistato più di 130 professionisti e professioniste – anche dall’Italia – su come hanno affrontato momenti di incertezza o svolte impreviste. E ho condiviso il framework del Career River con centinaia di persone, attraverso workshop ed eventi. La verità è che i post celebrativi su LinkedIn non mostrano tutto: dietro ci sono anche fatica, tentativi, errori. Più raccontiamo questo processo con trasparenza, più diventiamo capaci di affrontarlo.
ⓢ In pratica, da dove si comincia?
Consiglio tre cose. Primo: accettare che la nostra definizione di successo cambierà nel tempo. Secondo: vedere l’incertezza come una fase di scoperta, che porta nuove informazioni. Terzo, forse il più importante: coltivare relazioni. Sono i nostri affluenti. A volte ci accompagnano per lunghi tratti, altre volte basta un incontro o un consiglio che resta con noi e ci guida. Non intendo “fare networking” per scambi di favori, ma creare una comunità che si sostiene a vicenda.
ⓢ A proposito di affluenti, nel tuo approccio usi tante immagini. Perché funzionano?
Perché il fiume non smette mai di restituire nuovi significati. Le rocce, ad esempio, sono ostacoli che non sempre si possono abbattere, soprattutto se hai poche risorse o affronti problemi sistemici. A volte devi aggirarli: non è colpa tua, è la natura del percorso.
ⓢ Quand’è stata una volta in cui hai dovuto aggirare un ostacolo?
All’inizio della mia carriera mi è stato vietato di occuparmi di temi Lgbtq+ perché sono lesbica: secondo i vertici avrebbe minato l’obiettività del giornale. Era un ostacolo che, per quanto doloroso, non potevo abbattere. Ma ho potuto orientare le mie scelte future verso contesti che valorizzassero la mia prospettiva. Con il tempo ho capito che non sempre serve sfondare le barriere: a volte conviene conservare energie e trasformare l’esperienza in una lezione.
ⓢ E guardando al futuro, qual è la direzione verso cui ti muovi oggi?
La mia direzione – l’oceano a cui voglio contribuire con il mio lavoro – è aiutare le persone a sentirsi più libere e a scrollarsi di dosso la pressione di seguire modelli imposti. Ogni volta che il Career River aiuta qualcuno a provare meno ansia, sento di avvicinarmi a quella meta finale.
ⓢ Come si fa a capire qual è il proprio oceano?
Puoi chiederti: “Che cosa voglio lasciare con il mio lavoro?”. E ascoltarti davvero. In psicologia si parla di stato di flow: quei momenti in cui sei così immersa in quello che fai che tutto il resto scompare. A inizio carriera è difficile sapere quale sarà il tuo oceano, o persino cosa farai tra cinque anni. Ma puoi osservare quali attività ti portano in quello stato e provare a dedicarti a quelle. Il mio oceano è emerso nel tempo, imparando a riconoscere quale tipo di lavoro arricchisse non solo la mia vita professionale, ma anche quella personale.
ⓢ Quindi anche esperienze molto diverse, dai progetti personali ai cambi di settore, sono utili?
Sì, ognuna ha un valore. Perfino un lavoro che non ti piace, perché ti insegna cosa non vuoi fare in futuro. A volte sei nella posizione giusta per cercare un ruolo che ti rispecchi davvero, altre volte ti serve semplicemente uno stipendio per sopravvivere: anche questo fa parte del percorso. Quando aiuto le persone a mappare la loro carriera come un fiume, scoprono competenze trasferibili – non i software che hanno imparato a usare, ma capacità come analizzare, insegnare, organizzare. Sono risorse che restano con te, indipendentemente dal titolo o dall’azienda.
ⓢ È un cambio di prospettiva che apre più possibilità, in qualsiasi settore.
Assolutamente. Oggi il lavoro è così imprevedibile che limitarsi a un’unica definizione di sé è rischioso.
ⓢ E quando inevitabilmente ci paragoniamo ad altre persone, che sembrano avere più successo?
Intanto, ricordiamoci che solo noi possiamo definire cosa sia il successo. Per alcune persone è scalare una gerarchia aziendale, per altre avere più tempo per la vita fuori dal lavoro. Chi si prende cura di figli o di genitori, ad esempio, può considerare un successo ridurre le ore in ufficio se questo permette di vivere come si vuole. Il fiume insegna anche a guardare oltre la fatica del presente: quello che vivi adesso non durerà per sempre. Ci sono inverni lenti e primavere di slancio, e va bene così.
ⓢ Il tuo fiume ha mai preso una svolta inattesa?
Quando ho lasciato un lavoro di redazione in cui gestivo dieci persone per un ruolo con meno responsabilità. All’epoca l’ho vissuto come un passo indietro. Solo anni dopo ho capito che non lo era affatto: in quel momento avevo una bambina piccola, non volevo più essere reperibile 24 ore su 24, desideravo tempo per studiare. Quel cambiamento mi ha permesso di conseguire un master e intraprendere strade diverse. Oggi mi preparo a un’altra sfida: scrivere un libro. Gli dedico 25 minuti al giorno, dopo aver messo a letto i bambini. In questo modo ho già scritto cinquanta pagine: la prova che anche poco alla volta, con costanza, si va avanti.
ⓢ Cosa diresti a chi si sente in ansia per il futuro?
Di essere paziente con se stessa o se stesso. Quando quella vocina dentro di te dice che non sei abbastanza, pensa a che parole useresti con una persona cara in difficoltà. Le sfide arriveranno, è inevitabile. Ma se sai già che dovrai superare alcuni ostacoli, sarai più preparata ad affrontarli. Concediti la possibilità di provare, sbagliare, imparare.

Ma anche se prendesse non cambierebbe nulla, perché Fred Ramsell, neo Premio Nobel per la Medicina, il telefono lo ha anche spento.