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I visti negati a tre cittadini ghanesi invitati alla Biennale di Venezia sono diventati un caso politico

L’ambasciata italiana ad Accra ha negato il visto a tre collaboratori della curatrice Lesley Lokko, che per più di due anni hanno contribuito a organizzare l'edizione 2023, interamente dedicata all'Africa.

di Caterina Capelli

Per la prima volta dalla sua prima edizione del 1980, il focus della Biennale Architettura 2023 sarà l’Africa. A curare l’edizione di quest’anno, intitolata The Laboratory of the Future, è stata scelta Lesley Lokko, architetta, accademica e scrittrice di origini ghanesi, la prima curatrice afrodiscendente nella storia di uno degli eventi più importanti nel panorama internazionale dell’architettura, a cui prenderanno parte nomi celebri come il premio Pritzker Francis Kéré e David Adjaye, designer dello Smithsonian National Museum of African American History and Culture di Washington. «L’Africa è il laboratorio del futuro. Siamo il continente più giovane del mondo, con un’età media pari alla metà di quella dell’Europa e degli Stati Uniti, e un decennio più giovane dell’Asia. Siamo il continente che si sta urbanizzando più velocemente al mondo, con una crescita di quasi il 4 per cento all’anno», ha spiegato Lokko nel suo primo statement.

In occasione della conferenza stampa e vernissage di apertura, Lokko ha chiesto a sei collaboratori del suo team in Ghana di essere presenti a Venezia per la pre-apertura. Nonostante fossero tutti «giovani ghanesi istruiti, con un buon lavoro, spese coperte e un invito da parte della Biennale», a tre di loro è stato negato il visto, e non potranno quindi entrare in Italia per prendere parte all’evento che, ha affermato la curatrice, hanno contribuito ad organizzare per più di due anni. «Il mio fotografo personale, un giovane e talentuoso fotografo ghanese, ha contribuito sia alla mostra che al catalogo, in tutte le sue sezioni. A loro è stato negato il visto dal governo italiano, in particolare dall’ambasciatrice italiana in Ghana, Daniela d’Orlandi, che mi ha accusato di cercare di portare in Europa “giovani non essenziali”. La Biennale ha fatto tutto il possibile per aiutarli, ma senza successo».

Perché? Lokko ha espresso la preoccupazione che d’Orlando –che la curatrice ha chiamato “ambiziosa diplomatica” – abbia voluto «fare colpo sul governo conservatore italiano», anteponendo le speranze per la sua carriera alla legittimità delle richieste del suo team. Dal canto suo D’Orlando, intervistata, ha negato di essersi mai rivolta in questi termini a Lokko, dicendo di aver semplicemente applicato il Codice sui visti dell’UE, per cui evidentemente i richiedenti non “presentavano i requisiti” per l’ingresso previsti dal codice. Non sappiamo però quali fossero questi requisiti, perché «l’Ambasciata non è autorizzata a condividere informazioni e dettagli sulle domande e sui motivi del diniego».

Come hanno sottolineato i tanti tweet circolati in questi giorni (tra cui quello della giornalista Rula Jebreal), suona ironico che da una manifestazione che ha lo scopo di promuovere il lavoro e le voci di professionisti africani vengano esclusi – per motivi non chiariti – proprio coloro che, dall’Africa, hanno contribuito a metterla in piedi. Leggendo il documento pubblicato dalla Farnesina, e tenendo a mente che i collaboratori di Lokko avrebbero avuto, secondo quando dichiarato, giustificazioni legittime per partecipare, spese pagate, voli prenotati, documenti pronti – perché la negazione del visto è arrivata solo qualche giorno prima della partenza – e, apparentemente, nessun motivo per cui essere ritenuti “pericolosi”, è difficile immaginare quale tra i requisiti non sia stato soddisfatto. Ma, appunto, possiamo solo immaginare. Lesley Lokko ha già annunciato che approfitterà della conferenza stampa di oggi, per «evidenziare l’assurdità e l’ipocrisia di un evento sull’Africa a cui agli africani è stato negato l’accesso. Alcune cose, a quanto pare, non cambiano mai!».

Nel 2012, Killian O’ Dochartaigh – architetto, ricercatore, professore all’Edinburgh College of Art e fondatore di Architectural [Field] Office studio – ottenne dal fondo Prince Claus un finanziamento per visti, viaggio e alloggio per portare una sua studentessa ruandese della facoltà di architettura in Italia, prima al World Urban Forum di Napoli, e poi a visitare la Biennale di Venezia di quell’anno. Ma, ha spiegato a Rivista Studio Doherty, che ha vissuto in Rwanda dal 2010 al 2013, «il suo visto è stato negato dalle autorità di immigrazione nonostante [la visita] fosse sponsorizzata da un’organizzazione italiana e finanziata dalla clausola Prince. Il visto le è stato negato per “alto rischio di fuga”, ovvero per il sospetto che avrebbe tentato di chiedere asilo in Italia».

Il team che Lokko aveva invitato a partecipare era formato da giovani professionisti impiegati all’African Futures Institute, la scuola di specializzazione che Lokko ha fondato ad Accra, Ghana, solo pochi mesi prima di essere chiamata a curare questa Biennale. Nata con l’obiettivo di insegnare al Nord del mondo «come integrare diversità e inclusione nell’insegnamento dell’architettura», e di invertire «quasi mille anni di pratiche di sfruttamento» l’African Futures Institute offre master e corsi e ospita eventi sul tema. Nonostante le polemiche e le difficoltà, Lesley Lokko dice di pensare alla “razza” come a una categoria di esplorazione ed espressione creativa: «Ero stufa che gli unici modi per parlare di identità, razza e Africa nell’architettura fossero legati alla povertà e all’”informalità”, una parola che detesto».

La necessità di progetti come questo e – almeno sulla carta – anche di Biennali che includano voci non occidentali nel mondo del progetto, è evidente. Adjaye, tra i patrons dell’African Futures Institute, ha spiegato al New York Times che «una certa generazione di architetti ha visto “nell’altro” – l’Europa o l’America – il modello a cui aspirare, e scardinarlo per interpretare la propria modernità è molto difficile». La Biennale aprirà ufficialmente al pubblico sabato 20 maggio, con più della metà dei partecipanti provenienti dal sud del mondo. Anche se per alcuni resta un «evento europeo esclusivo per il pubblico occidentale», quest’anno la manifestazione pare aver colto il desiderio del continente africano – e della sua diaspora – di reimmaginare se stesso. Il perché dei visti negati però, resta una questione aperta.

Immagine: David Adjaye, courtesy of La Biennale di Venezia