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Zohran Mamdani ha fatto una performance in un museo di New York invitando i cittadini a dirgli quello che vogliono da lui Ispirandosi alla celebre performance di Marina Abramović, il sindaco ha offerto colloqui di tre minuti a chiunque volesse parlargli.
Negli anni ’60 la Cia ha perso un ordigno nucleare sull’Himalaya e ancora non l’ha ritrovato Nel 1965, sulla vetta di Nanda Devi, l'intelligence americana ha perso un dispositivo alimentato a plutonio. È ancora lì, da qualche parte.
Cosa c’è nei primi sei minuti dell’Odissea di Christopher Nolan che sono già stati mostrati nei cinema americani Questo "prologo" è stato proiettato in diverse sale negli Usa e ovviamente è già stato piratato e diffuso online.
I Talebani in Afghanistan hanno un nuovo nemico: i giovani che si vestono da Peaky Blinders Quattro ragazzi di 20 anni sono stati sottoposti a un «programma di riabilitazione» dopo aver sfoggiato outfit ispirati a Tommy Shelby e compari.
Il neo Presidente del Cile José Antonio Kast ha detto che se Pinochet fosse ancora vivo voterebbe per lui Ed evidentemente anche questo è piaciuto agli elettori, o almeno al 58 per cento di quelli che hanno votato al ballottaggio e che lo hanno eletto Presidente.
Dopo l’attentato a Bondi Beach, in Australia vogliono introdurre leggi durissime sul porto d’armi visto che quelle usate nella strage erano tutte detenute legalmente Intestate tutte a Sajid Akram, l'uomo che insieme al figlio Naveed ha ucciso 15 persone che si erano radunate in spiaggia per festeggiare Hannukkah.
Nonostante diversi media parlino già di omicidio e accusino il figlio Nick, della morte di Rob Reiner e di sua moglie Michelle non si sa ancora quasi nulla La polizia di Los Angeles ha confermato solo il ritrovamento dei cadaveri e l'inizio di un'indagine che contempla anche la «possibilità di omicidio».
Hbo ha svelato le prime immagini di Euphoria 3 ma della trama di questa nuova stagione non si capisce ancora niente Ben 13 secondi di video che anticipano la terza stagione, in arrivo nel mese di aprile, in cui si vedono tutti i protagonisti e le protagoniste.

Una Biennale per tutti i gusti

Ha inaugurato a Venezia la sedicesima edizione della mostra di architettura: un'esposizione sempre più generalista, ma non è detto che sia un male.

28 Maggio 2018

Crescendo sempre di più, la Biennale di Venezia non poteva che farsi generalista come la televisione, del resto la prima Mostra Internazionale di Architettura ufficiale diretta da Paolo Portoghesi è stata varata nel 1980, l’anno della nascita ufficiale della tv privata, di Canale 5 (e Fininvest). Col passare degli anni, i titoli si sono fatti sempre più elastici e vaghi come appunto Freespace di questa 16a edizione curata dalle irlandesi Yvonne Farrell e Shelley McNamara, anche se People meet in architecture (2010, curatrice Kazuyo Sejima) e Common Ground (2012, curatore David Chipperfield) non erano da meno. Del resto, se le archistar e i temi imposti non vanno più bene, avanti dunque con il generico.

Il risultato è che i visitatori si muovono per bande e ciascuna di queste trova il suo canale-padiglione preferito: l’onnipresente verde ora in versione countryside (Australia, Cina, Antigua e Barbudo), lo spazio pubblico (Grecia, Francia), l’informalità degli slum (Pakistan, Egitto), l’analisi politico-antropologica (Cile, Germania, Albania), l’impegno sociale (Filippine, vaghissimo quello degli Usa), lo storicismo nostalgico (Lussemburgo e Gran Bretagna, dove il rimpianto di Aldo Rossi è inconsolabile) o l’analisi storica intelligente (Israele, sui monumenti contesi e la loro ristrutturazione). Ecco allora i giovani carini e postmoderni andare all’Unfolding Pavilion alla Giudecca distanti anni luce anche antropologicamente dagli architetti e operatori della filiera del legno che vanno all’Arcipelago Italia curato da Mario Cucinella (un bagno di realtà nelle zone interne del Paese, ancora più disagiate delle periferie), gli anglofoni che si cercano fra loro con naturalezza, persino i religiosi con sfilata di cardinali per il primo Padiglione del Vaticano all’Isola di San Giorgio (preso letteralmente d’assalto), fino alle femministe che hanno improvvisato un flash mob “Voices of Women” ai Giardini, subito contestate – udite, udite – dal Cruising Pavilion degli architetti gay, dedicato ai luoghi deputati al sesso occasionale che denuncia come la Biennale sia un luogo «di produzione etero-normativa dello spazio».

Insomma, ce n’è davvero per tutti i gusti quest’anno e una delle cose più divertenti della vernice è senza dubbio saltare da una categoria all’altra, accodandosi alla rinfusa. Curioso che in tanti si lamentino della mancanza di guizzi teorici delle curatrici, visto che sono ottime professioniste senza troppi grilli per la testa. In questo senso la loro mostra al padiglione centrale e alle corderie dell’Arsenale è estremamente onesta: nella prima sala ci sono i modelli di sedici progetti paradigmatici per la loro idea di “freespace”, architetture non celeberrime, di qualità medio-alta, senza ambizioni normative o teoretiche, ma capaci di indicare una via praticabile lontano dai clamori e dalle mode, dispensando ogni tanto qualche perla di saggezza come questa di Auguste Perret incisa su una cassa: «Creerò per te una camera che canti come un violino». In questo senso la prima sala è anche un autoritratto del duo irlandese, così come un arredamento o una biblioteca personale descrive la personalità di chi la possiede. Ciononostante la mostra ospita anche stanze riservate a Bjarke Ingels, Cino Zucchi, Odile Decq, Peter Zumthor, Lacaton & Vassal nel padiglione centrale e poi modelli e plastici di Rafael Moneo, Diller e Scofidio e tantissimi altri alle Corderie, benché per la prima volta dal 1980 l’asse centrale del lunghissimo edificio – l’unico citato da Dante, «Quale ne l’arzanà de’ Viniziani / bolle l’inverno la tenace pece / a rimpalmare i legni lor non sani, / ché navicar non ponno» – sia completamente libero e dunque visibile dando un grande senso di ariosità alla mostra, che per molti è diventato subito horror vacui. Chi scrive, in verità, nutre assai di più l’horror pleni: ma andare alla Biennale è sempre istruttivo e rassicurante, perché si incontra inevitabilmente quello che da sempre la pensa al contrario di noi.

È pur vero che molti padiglioni sono letteralmente vuoti come il Belgio, significativamente dedicato all’Unione europea, o la Spagna, ma il vuoto si sa «è estremamente conveniente da realizzare», come nota Peter St John, co-curatore della Gran Bretagna con impeccabile british humour da demoralizzato post-Brexit. I Leoni d’oro sono andati invece al padiglione svizzero, tutto giocato sulla percezione di interni non arredati e affastellati secondo scale diverse incastrate, sfidando la nostra percezione come in un’incisione di Escher; al portoghese Eduardo Souto de Moura, Pritzker Prize molto apprezzato sia per la sua installazione sia per la cappella realizzata nel padiglione vaticano. Infine, quello alla carriera è andato a Kenneth Frampton, storico dell’architettura inglese da tempo trasferitosi a New York, autore del più diffuso manuale di storia dell’architettura moderna e della monografia principale sullo studio delle due curatrici, Grafton Architects: un uomo insomma buono per tutte le stagioni. Proprio lui che si era dimesso in polemica dal board della prima Biennale del 1980 uscendone dalla finestra, ora ci rientra definitivamente dalla porta principale. Alla Biennale, come alla televisione, non si sfugge.

Immagini Getty
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