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La presidente della Tanzania Samia Suluhu Hassan ha nominato il nuovo governo e ha fatto ministri tutti i membri della sua famiglia In un colpo solo ha sistemato due figlie, un nipote, un genero, un cognato e pure un carissimo amico di famiglia.
Sally Rooney ha detto che i suoi libri potrebbero essere vietati in tutto il Regno Unito a causa del suo sostegno a Palestine Action E potrebbe addirittura essere costretta a ritirare dal commercio i suoi libri attualmente in vendita.
In Francia è scoppiato un nuovo, inquietante caso di “sottomissione chimica” simile a quello di Gisèle Pelicot Un funzionario del ministero della Cultura ha drogato centinaia di donne durante colloqui di lavoro per poi costringerle a urinare in pubblico.
Dopo quasi 10 anni di attesa finalmente possiamo vedere le prime immagini di Dead Man’s Wire, il nuovo film di Gus Van Sant Presentato all'ultima Mostra del cinema di Venezia, è il film che segna il ritorno alla regia di Van Sant dopo una pausa lunga 7 anni.
Un esperimento sulla metro di Milano ha dimostrato che le persone sono più disponibili a cedere il posto agli anziani se nel vagone è presente un uomo vestito da Batman Non è uno scherzo ma una vera ricerca dell'Università Cattolica, le cui conclusioni sono già state ribattezzate "effetto Batman".
Secondo una ricerca dell’università di Cambridge l’adolescenza non finisce a 18 anni ma dura fino ai 30 e oltre Secondo nuove analisi neuroscientifiche, la piena maturità cerebrale degli adulti arriva molto dopo la maggiore età.
I fratelli Duffer hanno spiegato come settare la tv per guardare al meglio l’ultima stagione di Stranger Things I creatori della serie hanno invitato i fan a disattivare tutte le “funzioni spazzatura” delle moderne tv che compromettono l'estetica anni '80 di Stranger Things.
L’incendio di Hong Kong potrebbe essere stato causato dalle tradizionali impalcature in bambù usate nell’edilizia della città Le vittime accertate sono 55, ci sono molti dispersi e feriti gravi. Sembra che il rogo sia stato accelerato dal bambù usato nei lavori di ristrutturazione.

Una Biennale per tutti i gusti

Ha inaugurato a Venezia la sedicesima edizione della mostra di architettura: un'esposizione sempre più generalista, ma non è detto che sia un male.

28 Maggio 2018

Crescendo sempre di più, la Biennale di Venezia non poteva che farsi generalista come la televisione, del resto la prima Mostra Internazionale di Architettura ufficiale diretta da Paolo Portoghesi è stata varata nel 1980, l’anno della nascita ufficiale della tv privata, di Canale 5 (e Fininvest). Col passare degli anni, i titoli si sono fatti sempre più elastici e vaghi come appunto Freespace di questa 16a edizione curata dalle irlandesi Yvonne Farrell e Shelley McNamara, anche se People meet in architecture (2010, curatrice Kazuyo Sejima) e Common Ground (2012, curatore David Chipperfield) non erano da meno. Del resto, se le archistar e i temi imposti non vanno più bene, avanti dunque con il generico.

Il risultato è che i visitatori si muovono per bande e ciascuna di queste trova il suo canale-padiglione preferito: l’onnipresente verde ora in versione countryside (Australia, Cina, Antigua e Barbudo), lo spazio pubblico (Grecia, Francia), l’informalità degli slum (Pakistan, Egitto), l’analisi politico-antropologica (Cile, Germania, Albania), l’impegno sociale (Filippine, vaghissimo quello degli Usa), lo storicismo nostalgico (Lussemburgo e Gran Bretagna, dove il rimpianto di Aldo Rossi è inconsolabile) o l’analisi storica intelligente (Israele, sui monumenti contesi e la loro ristrutturazione). Ecco allora i giovani carini e postmoderni andare all’Unfolding Pavilion alla Giudecca distanti anni luce anche antropologicamente dagli architetti e operatori della filiera del legno che vanno all’Arcipelago Italia curato da Mario Cucinella (un bagno di realtà nelle zone interne del Paese, ancora più disagiate delle periferie), gli anglofoni che si cercano fra loro con naturalezza, persino i religiosi con sfilata di cardinali per il primo Padiglione del Vaticano all’Isola di San Giorgio (preso letteralmente d’assalto), fino alle femministe che hanno improvvisato un flash mob “Voices of Women” ai Giardini, subito contestate – udite, udite – dal Cruising Pavilion degli architetti gay, dedicato ai luoghi deputati al sesso occasionale che denuncia come la Biennale sia un luogo «di produzione etero-normativa dello spazio».

Insomma, ce n’è davvero per tutti i gusti quest’anno e una delle cose più divertenti della vernice è senza dubbio saltare da una categoria all’altra, accodandosi alla rinfusa. Curioso che in tanti si lamentino della mancanza di guizzi teorici delle curatrici, visto che sono ottime professioniste senza troppi grilli per la testa. In questo senso la loro mostra al padiglione centrale e alle corderie dell’Arsenale è estremamente onesta: nella prima sala ci sono i modelli di sedici progetti paradigmatici per la loro idea di “freespace”, architetture non celeberrime, di qualità medio-alta, senza ambizioni normative o teoretiche, ma capaci di indicare una via praticabile lontano dai clamori e dalle mode, dispensando ogni tanto qualche perla di saggezza come questa di Auguste Perret incisa su una cassa: «Creerò per te una camera che canti come un violino». In questo senso la prima sala è anche un autoritratto del duo irlandese, così come un arredamento o una biblioteca personale descrive la personalità di chi la possiede. Ciononostante la mostra ospita anche stanze riservate a Bjarke Ingels, Cino Zucchi, Odile Decq, Peter Zumthor, Lacaton & Vassal nel padiglione centrale e poi modelli e plastici di Rafael Moneo, Diller e Scofidio e tantissimi altri alle Corderie, benché per la prima volta dal 1980 l’asse centrale del lunghissimo edificio – l’unico citato da Dante, «Quale ne l’arzanà de’ Viniziani / bolle l’inverno la tenace pece / a rimpalmare i legni lor non sani, / ché navicar non ponno» – sia completamente libero e dunque visibile dando un grande senso di ariosità alla mostra, che per molti è diventato subito horror vacui. Chi scrive, in verità, nutre assai di più l’horror pleni: ma andare alla Biennale è sempre istruttivo e rassicurante, perché si incontra inevitabilmente quello che da sempre la pensa al contrario di noi.

È pur vero che molti padiglioni sono letteralmente vuoti come il Belgio, significativamente dedicato all’Unione europea, o la Spagna, ma il vuoto si sa «è estremamente conveniente da realizzare», come nota Peter St John, co-curatore della Gran Bretagna con impeccabile british humour da demoralizzato post-Brexit. I Leoni d’oro sono andati invece al padiglione svizzero, tutto giocato sulla percezione di interni non arredati e affastellati secondo scale diverse incastrate, sfidando la nostra percezione come in un’incisione di Escher; al portoghese Eduardo Souto de Moura, Pritzker Prize molto apprezzato sia per la sua installazione sia per la cappella realizzata nel padiglione vaticano. Infine, quello alla carriera è andato a Kenneth Frampton, storico dell’architettura inglese da tempo trasferitosi a New York, autore del più diffuso manuale di storia dell’architettura moderna e della monografia principale sullo studio delle due curatrici, Grafton Architects: un uomo insomma buono per tutte le stagioni. Proprio lui che si era dimesso in polemica dal board della prima Biennale del 1980 uscendone dalla finestra, ora ci rientra definitivamente dalla porta principale. Alla Biennale, come alla televisione, non si sfugge.

Immagini Getty
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