Francesco Bianconi e i Baustelle, 25 anni di musica non provinciale

La gioventù e la vecchiaia, la diversità e il conformismo, la Toscana e la metropoli: intervista al frontman del gruppo che ha appena raggiunto un traguardo importante festeggiando con due concerti, a Roma (la scorsa settimana) e Milano (stasera).

12 Dicembre 2025

Incontro Francesco Bianconi nei giorni che passano tra il concerto di Roma del 5 dicembre e quello di Milano del 12 dicembre al Forum di Assago. Sono i due concerti con cui i Baustelle hanno deciso di celebrare i loro 25 anni di carriera, in un anno, il 2025, in cui sono successe tante cose: un nuovo disco, El Galactico, un tour estivo, un piccolo festival a Firenze (El Galattico Festival) da loro curato, e il Premio Tenco alla carriera, con la motivazione di essere stati dei precursori. Dal 2000 (anno in cui è uscito il loro primo disco, Sussidiario illustrato della giovinezza) a oggi, è successo di tutto, nel mondo e nel mondo della musica, ma la band è rimasta sempre coerente e intelligente, sempre al confine tra musica alternativa e mainstream (anche oggi che questa differenza non c’è più) continuando a produrre bei dischi e grandi canzoni. Nel suo studio, un ampio e accogliente monolocale con le travi di legno, pieno di strumenti, chitarre e tastiere analogiche, e quadretti appesi alle pareti, abbiamo parlato di questo e di molto altro.

Allora Francesco, come è andato il concerto a Roma?
È stato bellissimo, per noi era una novità questa cosa del palasport, abbiamo scelto di fare due concerti finali nei palazzetti perché ci sembrava un modo per festeggiare, per portare dentro più gente, ma per certi versi non è il nostro habitat naturale. Mi piace suonare in posti più raccolti, mi piacciono i club, mi piacciono i teatri, i concerti più belli che ho visto da spettatore sono sempre in club da 3 mila persone, per cui ero anche un po’ impaurito ma invece mi sono molto divertito, e il timore iniziale, già dal primo pezzo è subito subito svanito, c’era un bellissimo pubblico. 

Ma qual è oggi il pubblico di Baustelle? Sono le persone che vi seguono dagli inizi?
In realtà è un mix, la cosa di cui sono molto orgoglioso e felice è che ci sono persone che ci seguivano prima ma vedo anche molte facce giovani di 18-20 anni, qualcosa è stato tramandato in qualche modo. Noi potremmo anche dire ma chi se ne frega: basta non facciamo più dischi, facciamo concerti… Ma per me vedere che in un palazzetto dello sport nelle prime file ci sono dei 20enni è una cosa che mi fa dire: dai, allora vale la pena continuare a scrivere canzoni nuove.

Strano perché poi la quasi totalità dei ragazzi di oggi praticamente ascolta solo rap o trap, cioè proprio non esiste altro tipo di musica per loro.
Mia figlia che ha 12 anni e fa la seconda media dice che i maschi della sua classe ascoltano tutti la stessa musica. “La trap?”, le ho chiesto. “No papà, non è che ascoltano trap, ascoltano due cose soltanto, Shiva e Sfera”, mi ha detto lei. Quindi a maggior ragione, se ci sono dei 20enni ai concerti di Baustelle, mi viene da pensare che c’è ancora qualcosa che funziona nello stesso vecchio modo anarchico di un tempo, di quando per esempio ero piccolo io e ascoltare i cantautori oppure un certo tipo di rock significava voler essere diversi. In un mondo in cui è sempre più figo essere conformi o adesivi, evidentemente c’è ancora una scheggia deviante impazzita che funziona nel vecchio modo.  Spero che i ragazzi ritornino a voler essere diversi e ad ascoltare musica o a fare musica per essere diversi, non per essere uguali a tutti.

Quando hai iniziato ad ascoltare musica volevi essere diverso?
Ma assolutamente, anzi, è stata la prima cosa. Noi abbiamo formato la band proprio perché venivamo da un posto in provincia dove non succedeva niente, dove non c’erano band, o meglio c’erano ma suonavano soltanto heavy metal, per dire quanto è cambiato il mondo. Noi volevamo essere diversi anche da quella diversità lì e quindi abbiamo formato la band per quello, perché non ci sentivamo in sintonia con il mondo, con lo scenario in cui ci trovavamo, volevamo andare da un’altra parte, anche proprio geograficamente, un luogo che non fosse la Toscana, un posto che era anche molto bello paesaggisticamente, un mondo cartolina, però noi volevamo essere da un’altra parte e già da piccoli, appena appena formati, avevamo le idee chiarissime. Una volta il vecchio mondo del rock era così, partivi da subito con le idee chiarissime, sceglievi subito di essere una cosa, mi piace il mellotron, l’organo, l’amplificatore di un certo tipo, solo sintetizzatori analogici, da subito quello è stato il nostro mondo. 

Quali erano i vostri gruppi di riferimento?
Quando sono nati i Baustelle avevamo questo sogno di unire una parte di tradizione italiana, “tradizione” può sembrare una parola conservativa, ma in realtà no, per cui dico tradizione per intendere cose italiane che a noi sembravano fighe e all’Italia in quel momento no, tipo i compositori delle colonne sonore, non solo Ennio Morricone, ma tutti i minori che negli anni ’90 non conosceva nessuno, mentre fuori, se pensi agli Stereolab, c’era un’onda di…

Exotica si chiamava all’epoca.
Exotica sì, uscì anche quel libro bellissimo di Adinolfi, Mondo Exotica, che è uno studio su tutte le musiche altre, spesso legate al cinema, spesso denigrate come secondarie, questo grande insieme di musiche da Bacharach al Pop Orchestra degli anni Sessanta fino appunto alla musica dei film di genere. Noi eravamo assolutamente attratti dalla parte italiana di questo grande insieme di musica. Volevamo essere una band che univa quello e, per esempio, i cantautori italiani degli anni ’60, ’70, eravamo molto interessati anche alla parte francese del cantautorato, con una parte rock che andava a legare tutto quanto. Parte rock che era comunque legata anche a epoche precedenti alla nostra, gli anni ’60 e ’70, perché io fin da ragazzino sono cresciuto in questo ambiente che ti dicevo prima, di provincia, in questo ambiente cartolina, in un paesino di 2 mila abitanti in cui non c’era un negozio di dischi, dovevi andare a cercarlo a Siena, Perugia, Arezzo, Firenze, quindi fare dei chilometri. E quindi, come dire, sono cresciuto in questa assenza di possibilità alternativa di musica in cui arrivava la musica degli anni ’80 che mi disgustava, poi certe cose le ho recuperate da grande, ma io mi trovavo in un mondo di musica che non mi piaceva, per cui sono stato costretto dall’orrore dell’epoca a tornare indietro e quindi mi piacevano solo i gruppi beat, garage, gruppi di gente con la frangia, con le chitarre e odiavo questo mondo di musica dance commerciale o di fenomeni da classifica, gli anni ’80 mi sembravano tutti di plastica.

Tipo i Duran Duran?
Li odiavo, poi li ho rivalutati, però mi sembrava veramente una musica non per me. Mi sbagliavo, ovviamente. Tuttora preferisco ascoltare altre cose, ma all’epoca per me quella non era musica per cui andavo ad ascoltare magari i cantautori che ascoltava mio padre degli anni ’70.

Come vi siete conosciuti? Andavate a scuola insieme?
In realtà con Claudio non andavamo a scuola insieme, ma le scuole erano vicine, lui era di Torrita di Siena, io di Abbadia di Montepulciano e a Montepulciano c’erano tutte le scuole superiori, lui faceva ragioneria, io facevo lo scientifico, anche lì poi ci si conosce fuori dalla scuola, come persone che suonano, quindi sì, ci siamo conosciuti facendo le superiori a Montepulciano. E appunto in quel mondo si fa presto a riconoscere i diversi. E poi il batterista e il bassista erano miei amici proprio di Abbadia. Michele, il batterista, anche lui faceva scuola a Montepulciano. Il bassista invece lavorava, faceva l’operaio, però loro erano amici super intimi, soprattutto Michele, il primo batterista dei Baustelle, ci conoscevamo fin dall’epoca dell’asilo, abbiamo sempre giocato insieme. E poi invece Fabrizio, elemento molto importante per la costruzione del suono dei Baustelle così come li conosciamo, lui l’ho conosciuto all’università, al primo anno di università, avevamo interessi comuni, per cui c’è stata subito sintonia.

E Rachele invece?
Rachele è arrivata un pochino dopo, un paio di anni dopo, io avevo questa idea che nel gruppo sarebbe stato interessante avere una voce femminile che un pochino facesse da contraltare e da elemento tonificante al mio timbro un po’ scuro e baritonale, per cui ci siamo messi a cercare una ragazza, ci piaceva l’idea che ci potesse essere una musicista, una ragazza che cantasse ma che sapesse suonare anche degli strumenti.

Come nelle leggende, con l’annuncio?
Allora, se non ricordo male, spargemmo un po’ la voce, non so se ci fu un annuncio vero e proprio. Ma a volte nella musica gli annunci funzionano. Per esempio gli Suede hanno litigato già al secondo disco e sembrava un gruppo definitivamente sciolto e invece misero questo annuncio, forse cercavano forse uno che suonasse proprio come il chitarrista degli Suede, e si presenta questo che pare sapesse a memoria tutti i pezzi loro lì. E insomma, il tipo nuovo era anche bravo come scrittore di canzoni, perché il disco successivo, Coming Up, è un disco di 10 hit scritte da questo qua.

Ma perché si litiga nei gruppi?
Penso che per forza di cose nei gruppi un po’ si deve litigare, per la tensione che porta alla creatività. Poi a volte questa tensione si incanala male oppure può raggiungere livelli pericolosi e sfondare gli argini. Però secondo me è bello quando c’è tensione, confronto anche fra idee diverse, ci deve essere, è anche vero che i gruppi non sono cose democratiche, non sono sistemi democratici.

Ci vuole un capo.
Ci vuole un capo, assolutamente, perché sennò è tensione che non porta a niente. Ci vuole il capo e spesso può succedere che questo ruolo di capo a volte viene riconosciuto o che il capo non sa fare bene il capo. Motivo per cui molte delle band fighissime che ci piacciono sono durate molto meno di 25 anni. 

Nei Rolling Stones e nei Beatles però non c’era una definizione chiara di capo.
Guarda che i Beatles sono durati pochissimo, meno di una decina d’anni. C’è una battuta bellissima che mi ha fatto non mi ricordo chi, mi ha detto sai quanto sono durati i Beatles? Ti ricordi il Covid, l’inizio del Covid? Ecco a oggi è la durata dei Beatles. 

No, dai!
Sì, i Beatles sono durati dal ’62, ’63 al ’69.

Sembra un tempo infinito anche forse perché hanno fatto una marea di canzoni.
Sono diventati così leggendari, hanno un mito che poi si estende a elastico e sembra che siano ancora in attività, ma sono durati pochissimo, invece i Rolling Stones stanno durando un casino. Tra l’altro quasi senza cambi, con due elementi tensivi e potenzialmente conflittuali ancora dentro. I Velvet Underground ne avevano due e si sono sciolti subito, Keith e Mick stanno ancora dentro e non so come facciano. Come dire, teniamo loro come modello per i Baustelle. 

Mi chiedo sempre se nei pensieri di un musicista di professione come te, come voi, non c’è poi il pensiero di dire non è un po’ ridicolo arrivare a fare i concerti come gli Stones da vecchi? Voglio dire, c’è un pensiero della tua carriera proiettato nella vecchiaia?
Certo, io ci penso molto alla vecchiaia. Sai, ridicolo è chi innanzitutto chi ridicolo ci si sente. Il problema è quando cominci a sentirti ridicolo. Finché non ti ci senti… Però io dalla posizione in cui sono adesso, a 53 anni, ti dico sì, ci penso molto spesso e ti dico che non mi ci vedo assolutamente a 80 anni a stare sul palco e fare i palasport, quindi al limite un teatrino con una sedia e un maglione a collo alto tutto nero, ma non bisogna far durare le cose per sempre o pensare di stare sui palchi per sempre. Questo fa parte della vita, bisogna averla chiara, questa cosa, secondo me. Anche se poi prendi gli Oasis o i grandi concerti dei gruppi che celebrano la propria carriera, con dei concerti, diciamo così, antologici. In quegli eventi si respira un po’ la stessa energia che c’è nelle partite di calcio, io sono contrario alle celebrazioni e ai revival però capisco che in alcuni casi, se tu hai fatto della musica significativa, è anche giusto che tu la metta a disposizione con l’energia popolare di una partita gigantesca di pallone.

Quello che è successo con gli Oasis è stato veramente incredibile.
Ha creato una specie di precedente. Bravi loro, bravi che hanno saputo farlo. Io non l’avrei immaginato. Sono stato fan degli Oasis, ma all’epoca e tuttora riascolto più volentieri i dischi dei Blur o dei Pulp o dei Suede. Però evidentemente c’era una forza nei loro dischi.

Ti capita mai di ascoltare cose nuove come la trap?
Sì, ho provato anche ad ascoltare delle robe di trap, ma non c’è niente che mi abbia mai appassionato, quando qualcuno mi dice “senti il poeta”, personalmente no, non ho mai trovato nessun poeta nella trap italiana degli ultimi anni, colpa magari della mia formazione o della mia ignoranza, eppure sono uno che è molto curioso, se leggo una recensione che mi dice questo è il Bob Dylan della trap lo vado ad ascoltare, però non l’ho mai trovato il Bob Dylan della trap. 

Con questi due concerti di Roma e Milano festeggiate 25 anni di carriera, dal 2000 al 2025: quanto è cambiato il mondo in questi 25 anni? Possiamo anche restare solo all’industria musicale, magari è più semplice…
La cosa che mi fa impressione è proprio questa, l’aver attraversato questi 25 anni in cui sono cambiate così tante cose e così in fretta, e di essere sopravvissuti anche a questi cambiamenti. Forse i 25 anni precedenti, dal ’75 fino al 2000 erano, musicalmente parlando, un po’ lo stesso mondo, invece noi abbiamo vissuto proprio dei grandi cambiamenti. Prima era normale il fatto che potesse passare del tempo anche fra un album e l’altro o anche fra un’apparizione e l’altra, adesso siamo nel mondo in cui bisogna essere costantemente presenti sul mercato perché c’è questo timore se poi chissà si ricorderanno di me… Parlavo con un giovane artista che ho incontrato in un locale una sera, non faccio nome e cognome, e gli ho chiesto: “Cosa fai, vai a Sanremo?”. Mi ha detto: “Sì, ho mandato la canzone però sono stato troppo assente, forse pago questo, non so se mi prenderanno, non ho marcato bene il territorio”, perché tra le caratteristiche per essere preso a Sanremo c’è anche quello. Per cui in questi 25 anni è cambiato questo, nella morfologia del cosiddetto artista musicale che deve essere un animale da combattimento perenne, sei pollo di allevamento che razzola sempre, non puoi permetterti di uscire, di entrare. E poi abbiamo passato l’epoca della pirateria, abbiamo passato l’epoca in cui non si vedevano più dischi perché si piratavano i dischi, abbiamo vissuto la nascita dello streaming.

Ma voi li guardate gli streaming?
Cioè, nel senso di quanti streaming facciamo? Sì, io sono convinto che comunque tu devi adeguarti al tempo, è anche giusto, devi essere cosciente, devi avere il controllo e se una volta era giusto che tu controllassi quanti dischi si vendevano, è giusto capire anche quanti streaming si fanno. Poi ovviamente sono d’accordo che la cosa dello streaming, forse più che nell’epoca delle copie vendute, crea una specie di distorsione proprio narrativa per cui si presenta il tale artista “ecco ed ecco a voi Tizio con i suoi 7 miliardi di streaming” e, come dire, la trovo una cosa cafona e che non mi rappresenta stilisticamente. È ovvio che ridurre a copie vendute o a streaming è riduttivo e che magari anche gli artisti vorrebbero essere descritti in altro modo, però è anche vero che giochiamo in questo campo fatto di logiche di mercato, per cui è inutile fare tanto gli schizzinosi.

ⓢ “Charlie fa surf” è la vostra canzone con più streaming?
Credo di sì. E devo dire, anche nei concerti, c’è questa attesa, questa cosa che dobbiamo farla per forza, nel senso “meno male che la stanno facendo” e magari nella costruzione della scaletta mi piacerebbe anche a volte mettere cose meno conosciute che sento più rappresentative, però fa parte del mestiere, anche giusto che tu faccia le canzoni che alla fine hanno avuto più successo, mi sembra anche una questione di rispetto per chi paga.

Non sei tanto affezionato a quella canzone?
Sono molto affezionato a quella canzone, ma mi piacerebbe anche avere la libertà di non suonarla in tutti i concerti. Poi c’è una parte di me che invece dice, no, guarda, Francesco, alla fine è un mestiere, e quindi se la gente ti conosce, ti conosce anche per quella canzone lì, per cui giusto che gliela fai. C’è stato un periodo in cui, proprio per superare questa cosa che non la volevamo far più, l’abbiamo fatta  in versione lenta, in versione non ritmica, abbiamo fatto vari arrangiamenti, adesso ho fatto pace con questa cosa e chi se ne frega anche perché chi la vuole sentire vuole sentirla com’è, il peggiore degli errori è quello di stravolgergliela.

Quest’anno avete ricevuto anche il premio Tenco alla Carriera con la motivazione che «I Baustelle hanno fondato la base culturale ed estetica di molta canzone d’autore degli ultimi vent’anni».
È una cosa molto bella e in tanti ce lo dicono che alla fine abbiamo contribuito a modificare la forma canzone italiana e abbiamo fatto un po’ da precursori per cose che sono venute dopo. “La Guerra è finita” era una canzone di un gruppo rock con le chitarre che raccontava un suicidio giovanile e passava in radio in un’epoca in cui in radio non passavano canzoni di quel tipo. Non potevi dire determinate parole, io facevo allo stesso tempo anche l’autore per altri e mi dicevano “questa parola nel ritornello non si può utilizzare, che qua giochiamo nel mondo del pop, tu con i Baustelle se vuoi la puoi usare, ma qua no”. Adesso siamo in un mondo in cui si può dire in una canzone “Paracetamolo”, “Tachipirina”, e puoi andare nelle radio che ti pare, puoi andare in prima serata in televisione, in network commerciali, non c’è più distinzione. Se puoi dire Paracetamolo o Tachipirina 1000 in una canzone forse è anche un pochino merito del lavoro di sperimentazione che hanno fatto i Baustelle

Che rapporto hai col mondo culturale italiano in senso largo?
Sono ammiratore di alcune persone e altri no, ci sono tanti che non conosco e tanti altri che non ammiro, però sì, sono un autore, se parliamo dell’editoria, della letteratura, è un modo di cui un po’ faccio parte, ho scritto dei romanzi.

Ti senti anche uno scrittore, diciamo, di narrativa?
Sì, mi sento uno scrittore di narrativa che si prende delle lunghe pause.

In termini di scrittura, magari è una mia interpretazione, diciamo, azzardata, ma c’è nei testi dei Baustelle, non tutti, un filo, che si caratterizza per una sorta di critica, oltre che al mondo dei consumi, anche alla sinistra, diciamo così. C’è sempre un po’ un sarcasmo, una critica velata magari verso un certo tipo di atteggiamento di sinistra. Prendi “Contro il mondo”. È un attitudine in cui ti riconosci?
Mi riconosco nei panni di uno che scrive e che ha un punto di vista critico e quindi non mi è mai interessato scrivere per far piacere o per applaudire qualcuno. C’è questa sorta di diffidenza, che molto probabilmente fa parte della mia origine provinciale o di campagna addirittura. Il campagnolo, che dalla provincia arriva in città dove tutto sembra scintillare, tutto sembra funzionare, dove ci sono le grandi scene, le grandi correnti, le grandi amicizie, il campagnolo che arriva e che viene invitato ai party e nei salotti o rincoglionisce e comincia a far parte della festa oppure in altri casi, secondo me i casi migliori, sta un po’ in disparte, osserva e analizza e critica. Nell’ambito della letteratura, ci sono scrittori che adoro, che hanno questo tipo di atteggiamento, ne cito uno banale, per rimanere all’Italia, citato in alcune canzoni dei Baustelle, Luciano Bianciardi, che ha in comune “Bian”, una parte del cognome con me, ma anche il fatto di essere venuto dalla provincia, dalla Toscana, a Milano, in un’altra epoca. Ma comunque aveva questo sguardo critico, indagatore, è arrivato a Milano nell’epoca del boom e ha scritto libri in cui faceva vedere un po’ le crepe che già cominciavano a verificarsi al di là dell’esteriorità scintillante. Quindi mi piace essere nella tradizione degli scrittori e degli intellettuali di questo tipo. Nella canzone “Contro il mondo” che tu hai citato, mi metto pure io dentro la critica, questo atteggiamento critico è anche un atteggiamento autocritico. Volevo descrivere questa figura attraverso una storia d’amore finita male, volevo fare l’identikit di questo personaggio che lamenta una serie di cose, di questo che sta in questa posizione di sinistra, di gauche caviar, no? Che si lamenta di tutto, della sinistra appunto che non c’è, con questa maschera di anticonformista conformista.

Ma tu torni spesso lì, diciamo, nei tuoi posti?
Ci torno a Montepulciano, ci torno sempre anche molto volentieri ma non spessissimo. Ci torno perché c’è mia madre, vado a trovare lei, mi accorgo sempre di più che sono dei posti meravigliosi, ma mi dico anche che poi alla fine è stato giusto che me ne sia staccato, per cui non è che torno a Montepulciano e dico “che bello, questa sì che è vita”, anche questo mito del ritorno in campagna, la lentezza. A me piace anche la velocità, non so come dire, anzi, ci sto bene nella città brulicante in cui si fanno tante cose, in cui manca sempre il tempo. Mi piace pure quello, così come mi piacerebbe che l’uomo moderno potesse alternare questa cosa con dei momenti in cui stai in campagna senza fare niente. Un giorno di riposo te lo puoi concedere, in cui vai a cercare i funghi. Però mi sembrano tutte delle grandi costruzioni, riappropriamoci del nostro tempo, il lavoro fa male, tutte queste cose qua, questa cosa un po’ alla “Gianni, 40 anni, ha cambiato vita, da top manager adesso produce mandorle in Sicilia”.

Suonare a Milano lo come consideri come giocare in casa?
Diciamo di sì, ormai è un po’ casa, è dal ’99 che sono a Milano, suonare in casa ha le sue comodità. Però è anche ambivalente perché poi è come quando suoni davanti ai tuoi genitori o ai parenti, è bello ma allo stesso tempo è anche un po’ più emozionante proprio perché le storie che racconto nelle canzoni sono  molto spesso milanesi, e vedo che i milanesi ricambiano con affetto questa cosa, per cui ai concerti di Milano c’è sempre molta partecipazione.

Foto di Marco La Conte.

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