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Come ripensare alla casa secondo Piero Lissoni

Una riflessione con l’architetto italiano sul modo in cui dovremmo pensare agli spazi in cui stiamo passando il nostro tempo, e a come cambieranno.

di Enrico Ratto

Interno di una villa privata di Milano realizzata da Piero Lissoni

Il futuro, quella cosa che fino a un mese fa era materia per addetti ai lavori, è improvvisamente entrato a far parte del vocabolario e delle preoccupazioni di tutti. Che cosa succederà dopo? Per quanto tempo ancora dovremo restare chiusi qui dentro? Piero Lissoni, architetto e, per definizione, persona che con il futuro ci convive per mestiere e per attitudine, è piuttosto stanco. «Ogni giorno dobbiamo inventarci il futuro. Non ne posso più di sentire parlare di nuovi modelli di vita», ci dice al telefono dalla sua quarantena.

ⓢ Parliamo allora del presente, quello fatto di pareti, corridoi, cucine, divani e qualche finestra che ci permette di intuire cosa c’è fuori, ma un decreto ci vieta di toccarlo. Forse, pensando la nostra casa, ci siamo entusiasmati per i dettagli, ma ci è sfuggito che avremmo dovuto viverci. Dove abbiamo sbagliato?
Regole generali per progettare uno spazio in cui vivere non ce ne sono. E, per fortuna, non ci sono nemmeno regole di buon senso. Tutto dipende da un numero impressionante di fattori. Non si disegnano le case, gli spazi, le architetture, partendo da quell’idea, con rispetto parlando, un po’ socialista. Non puoi standardizzare gli ambienti, perché non puoi predeterminare la vita altrui. Di volta in volta, ogni casa dev’essere riumanizzata e, ciascun individuo, dovrebbe essere in grado di ridisegnare il proprio spazio da solo, anche chi di mestiere non fa l’architetto.

ⓢ È chiaro che chiunque dovrebbe avere la capacità, e forse un’intima necessità, di intervenire sugli spazi in cui poi dovrà vivere. Ma il problema è quando, nella maggioranza dei casi, non parti da zero. Quando scegli un compromesso che ti viene proposto in un determinato momento della tua vita.
Già, si tratta di mettere in equilibrio molti fattori, è molto complicato. Nel mio lavoro, parto da un punto di partenza privilegiato, molto spesso i miei clienti, i miei interlocutori, mi chiedono di partire da zero. Ma facciamo un passo indietro. L’architettura è qualcosa di complicato perché si sviluppa in un sistema di ibridazione culturale molto complesso. Prima della tecnologia, prima di ogni altra tentazione, devi essere capace di ragionare con un modello umanistico. Devi mettere in campo tantissimi elementi che permettono di far diventare un’architettura una specie di regola fisica del buon vivere. Però, devo dire la verità, negli ultimi cento anni qualche errore è stato commesso da tutti noi architetti.

ⓢ Ci sono responsabilità, è vero, ma anche il contesto storico fa continuamente la sua parte, e gli edifici, per loro natura, durano molto più a lungo di una, due o tre generazioni. Pareti e pilastri sono meno flessibili delle trasformazioni sociali. Il vero problema è come poter adattare una struttura rigida al mondo in cui viviamo.
Gli esseri umani sanno come sovrapporre i vari fogli, gli strati della storia. In Italia, ed in gran parte d’Europa, siamo abituati a vivere in città preparate per essere città storiche, abbiamo imparato a convivere con epoche differenti. Prendiamo una città come Roma, o una città come Venezia, o Milano. La miscela della storia è fondamentale. Nelle nostre case succede la stessa cosa. Abbiamo tutti questa capacità di sovrapporre, di mescolare la storia. Dobbiamo tenerne conto, e allenarci a svilupparla costantemente. Sennò vivremmo ancora dentro case medioevali senza acqua, senza riscaldamento, con il caminetto come unica fonte di calore.

ⓢ Il passato è affascinante se sai come gestirlo, altrimenti ti abitui alla sicurezza, o peggio alla rassicurazione, ed eviti di pensare non solo al domani, ma anche a quell’oggi in cui ti trovi a vivere.
Intanto, ogni casa, deve vivere nel presente. Trovo ridicolo che le case disegnate nel 2020 abbiano elementi che le riportano nel passato. Nel 2020 disegni case del 2020, con una certa percezione dello spazio della luce, con la capacità di diminuire alcune funzioni ed aumentarne altre. Faccio un esempio semplice: la libreria. Al di là del piacere personale di collezionare libri, nel 2020 il supporto dell’informazione, della conoscenza e della cultura è stato spostato su memorie che occupano pochissimo spazio. E chi pensa ad una casa, oggi, ne deve tenere conto. Mi sembra molto riduttivo guardare alla parte più rassicurante del passato, devi correre dei rischi per guardare avanti.

ⓢ Nel giro di poco più di un mese, è entrato a far parte del nostro vocabolario il “distanziamento sociale”. Nessuno ci aveva mai pensato, se non per scelta personale. Tenere conto di queste due parole è qualcosa che riguarderà gli architetti?
No, non credo, stiamo parlando di qualcosa di molto recente e legato all’emergenza. Leggevo qualche giorno fa un articolo su come gli stati italiani del 1500 hanno affrontato le epidemie di peste, imparando da ciò che era successo nel 1300 e 1400. Bene, sono stati riadattati gli usi e le prassi, non tanto i modelli architettonici. Nel 1520 iniziano a comparire i primi lazzaretti, nascono a Venezia ed erano degli ospedali speciali dove mettere le persone con malattie da considerare infette, oppure vengono destinati alle quarantene. Però, se io devo ragionare nel 2020, sulla base di quello che sta succedendo, ci andrei con molta cautela nel dire che ci saranno cambiamenti sostanziali, epocali, al nostro modo di vivere e di organizzare gli spazi.

ⓢ L’idea diffusa è che, se per gestire il presente servono medici ed economisti, per ricostruire il futuro dovranno intervenire sociologi ed architetti. Renzo Piano, in queste settimane, ha sottolineato più volte il fatto che ci sarà bisogno di molto lavoro, e molte idee, da parte di chi sa progettare.
Renzo Piano ha assolutamente ragione. Il problema è che la mia categoria ha discrete colpe. Spero che gli architetti di cui parla Renzo Piano siano quelli evoluti e siano quelli capaci di tentare di marchiare il futuro con il proprio segno. Fino ad ora, molti di quelli che hanno tentato questa operazione sono spesso stati, professionalmente parlando, delle canaglie. Gli incapaci hanno spesso pensato di cambiare il futuro, quelli capaci sono sempre stati molto cauti.