Stili di vita | Architettura

Andrew Geller, l’architetto della felicità

Un estratto dal libro che celebra la storia, la carriera e i progetti di uno dei migliori interpreti del tempo libero e del relax.

di Andrea Mammarella

Picnic presso la George House (Sagaponack, 1963)

Negli anni Sessanta, sull’isola di Long Island, l’architetto Andrew Geller diventa l’interprete di una nuova modalità di sperimentare l’ultima versione del sogno americano, in cui l’uso del tempo libero e il relax danno la misura di una nuova forma di benessere. Pubblichiamo un estratto dell’edizione italiana, recentemente ristampata, di Le case al mare di Andrew Geller (Franco Angeli Edizioni), di Alastair Gordon, a cura di Andrea Mammarella e Gianmichele Panarelli.

Quando, il giorno di Natale del 2011, Andrew Geller passò a miglior vita, Alastair Gordon, l’autore di questa monografia pubblicata la prima volta nel 2003 e riedita nel 2014 per i tipi della Princeton Architectural Press, scrisse un testo dal titolo significativo, “l’architetto della felicità”, da cui questo scritto prende spunto. Colpisce l’associazione della parola felicità al mestiere dell’architetto. Ancora oggi, evidentemente, resta radicata nella sensibilità collettiva l’idea che questa disciplina sia collegata ad altre tipologie di finalità: efficienza, funzionalità, bellezza… dando l’idea che, in qualche modo, lo scopo di coloro che si occupano di architettura sia naturalmente ed esclusivamente collegato al conseguimento di almeno una di queste ultime categorie.

In effetti, fino allo scorso secolo, il discrimine valoriale che si attribuiva all’atto di immaginare e realizzare spazi e manufatti era direttamente collegato alla capacità di conseguire una serie crescente e consecutiva di standard evolutivi: fossero essi di carattere tecnologico piuttosto che antropologico. La stessa poetica positivista del novecento veniva addirittura definita attraverso una biunivoca relazione con quella della macchina, della salubrità progressista, dell’efficienza produttiva, magari di massa…

Andrew Geller, architetto visionario del primo dopoguerra americano, così come diversi suoi colleghi d’oltreoceano, giunge (con minore o maggiore consapevolezza, poco importa…) ad operare attraverso uno schema mentale e culturale diametralmente opposto. Come ben sottolinea Alastair Gordon, la sua architettura si pone degli obiettivi che vanno in direzione esattamente contraria rispetto a quelli del Moderno, ancora largamente indiscussi in quegli anni (e – a ben vedere – ancora radicati nel profondo di molti tratti dei nostri giorni).

Tutti si godono una bella giornata al mare (a sinistra). Shirley Geller (a destra) mima le pareti svasate della Levitas House con la sua gonna
La Strick House a forma di Sfinge

«Si può parlare dell’opera di Geller come qualcosa di profondamente antimoderno, proprio nel suo voler evitare l’ideologia stessa della produzione di massa fatta in fabbrica, tipica del Bauhaus. Le sue case erano espressione dell’individualismo, non certo dell’uniformità. Celebrare l’individuo: questo era l’obiettivo!». In un misto di pragmatismo americano e naïvetè postbellica, i progetti di Geller nascono e si affermano dunque con lo scopo prioritario di rendere più piacevole la vita dei suoi committenti, seppure in una porzione limitata di tempo e di spazio, in piccoli edifici extra-urbani ed utilizzati prevalentemente nel fine settimana. È certamente questo uno dei vantaggi di cui ha saputo godere l’opera di Geller e una delle chiavi del suo successo.

Progettare edifici con una serie ridotta di variabili da gestire e cui dare conto semplifica decisamente il lavoro del progettista che, senza la necessità di provvedere alle usuali necessità impiantistiche, di isolamento termo-acustico, normative edilizie e strutturali… si ritrova con le mani più libere e con un livello di complessità decisamente più governabile. Sdoppiato in una frenetica attività parallela che lo vedeva lavorare di giorno nel grande Office Loewy sulla Fifth Avenue e la notte ai suoi piccoli e strabilianti progetti fuori porta, il lavoro di Geller è riuscito così a concentrarsi su una serie ben definita e delimitata di questioni (le vedute, l’orientamento, le attività ricreative e circoscritte di una utenza ‘temporanea’ – e dunque più tollerante…) sfruttando al massimo la possibilità di esprimersi con un grado di libertà tale da permettergli di dedicare gran parte dei suoi sforzi proprio a quella soddisfazione onirica e spirituale che il popolo americano (e occidentale, in generale) stava in quegli anni iniziando a focalizzare e a pretendere.

La Levitas House, appoggiata e isolata sulla spiaggia rocciosa di Martha’s Vineyard

In quest’ottica, il valore sperimentale dell’attività progettuale di Geller si rivela in tutta la sua portata; una volta assodata l’esigenza di contenere i costi (ovvero di utilizzare materiali e tecnologie che oggi verrebbero definite ‘povere’ o quantomeno ‘low-tech’) e dedicandosi alla interpretazione dello stile di vita della nuova ed emergente classe sociale newyorkese (cui lui stesso, del resto, apparteneva), a Geller non resta che un mondo di forme da gestire e manipolare per ottenere – all’interno di un generale individualismo di riferimento – risultati sempre nuovi e stupefacenti. Una operazione, comunque, affatto facile da gestire, paradossalmente, proprio per la limitatezza delle variabili da tenere in conto. Cavare buona architettura da pochi elementi, confidando sostanzialmente su forme e geometria, è sempre stata un’operazione molto faticosa e rischiosa e che nelle prime opere di Geller sembra svolgersi in maniera assai più convincente di quanto non accada nelle fasi successive; quelle più mature e riconosciute, pur celebrate dalle riviste e dai media dell’epoca.

Forzando il carattere temporaneo, provvisorio, degli spazi domestici, Geller riesce brillantemente a far convivere astrazione figurativa geometrica e ambienti abitati (la prima casa Reese, casa Langman, casa George), attribuendo con grande creatività progettuale ad ogni angolo, ad ogni scorcio di luce prodotto dallo ‘sgangheramento dei suoi cubi’ una funzione ed una legittima e necessaria condizione d’uso, fino al limite estremo raggiunto nella casa Hunt in cui la sezione quadrata ruotata di 45 gradi diventa l’occasione per posizionare le sue inusuali camere da letto a castello, armadi, ripostigli e bagni di servizio. Fino a far sembrare la geometria dominante il punto di arrivo più appropriato, quasi necessario, a contenere quelle funzioni di quella piccola casa al mare. E non viceversa, come si potrebbe anche supporre…

Una casa al mare studiata per uomini e animali: vista della zona giorno della Frank House

È forse allora proprio in questa capacità creativa di utilizzare le forme per fornire risposte alle esigenze abitative dei suoi committenti – ivi comprese le aspirazioni oniriche dell’immaginario collettivo dell’epoca – che risiede il carattere più affascinante delle case al mare di Geller. Un fascino costruito su di un equilibrio sottile e delicatissimo e che in qualche caso è stato anche messo a dura prova (come in alcune parti delle case che Gordon definisce del periodo origami), ma che mostra con chiarezza la difficoltà e la sapienza che l’esperienza sperimentale delle architetture di Geller ha saputo entusiasticamente caricarsi sulle spalle.

Quale eredità lasciano le case sulle spiagge di Long Island di Andrew Geller all’architettura del ventunesimo secolo? Difficile da dire. Molto probabilmente, l’insegnamento più originale, valido ancora oggi, ha a che fare – per l’appunto – con la sua attenzione alla soddisfazione, alla felicità, dell’individuo. La dedizione alle esigenze e alle aspirazioni dei suoi committenti – che in più di una occasione lo ha anche portato a cestinare disinvoltamente progetti già fatti, che non corrispondevano però alle aspettative dei futuri abitanti – rappresenta davvero, in una certa qual misura, il carattere di una architettura il cui fine ultimo è e resta quello della felicità, dell’appagamento irrazionale di un desiderio. Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale e linguistica che, a partire da quegli anni della seconda metà del novecento, si è sviluppata senza soste e, spesso, senza piena consapevolezza o coscienza critica. Certo, vivere in un tempo di entusiasmi per il futuro, di rinascita emotiva e sociale è stato fondamentale per Geller e per il dispiegamento del suo indiscutibile talento. Verrebbe da chiedersi cosa avrebbe prodotto oggi, in un tempo che – sciaguratamente – sembra individuare la propria dimensione di felicità nella ostentazione di certezze effimere e nel compiacimento isterico di una ideale e rassicurante (seppur distorta) immagine del passato, fatta di villoni neo-palladiani con i tetti a timpano e topiarie zoomorfe in giardino.