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I massoni hanno fatto causa alla polizia inglese per una regola che impone ai poliziotti di rivelare se sono massoni Il nuovo regolamento impone agli agenti di rivelare legami con organizzazioni gerarchiche, in nome della trasparenza e dell’imparzialità.

Nuovi modi di raccontare la cronaca nera

Il docufilm, su Netflix dal 30 settembre, racconta un celebre caso di omicidio, quello di Shanann Watts e delle sue figlie, con tecnologie e social.

09 Ottobre 2020

Hannah Arendt parlava di banalità del male e il nuovo documentario American murder, la famiglia della porta accanto, in onda su Netflix, incarna questo assunto alla perfezione. Perché la storia raccontata nel lavoro diretto da Jenny Popplewell mostra un dolore che si fa sempre più intenso e opprimente e che trae linfa vitale dalla normalità quotidiana; quella fatta dai gerani sul balcone di casa e dai cornflakes mangiati tutte le mattine a colazione. La vicenda è drammaticamente vera e ha sconvolto l’America nell’estate del 2018. Si narra la storia di Chris Watts, impiegato in una compagnia di idrocarburi, colpevole dell’omicidio più tremendo che esiste: lo sterminio della propria famiglia. Nell’agosto di due anni fa, l’allora trentatreenne uccise la moglie Shanann, incinta di un bambino, e le due figlie Bella Marie e Celeste Cathryn “Cece”, di tre e quattro anni, confessando il delitto solo dopo giorni e giorni in cui aveva recitato la parte della vittima, facendo accorati annunci televisivi affinché i propri cari potessero tornare a casa.

Un omicidio, per quanto terribile, come tanti se ne leggono sui giornali. A renderlo diverso dagli altri, però, è il modo in cui viene raccontato. Nel docufilm non ci sono interviste, niente fiction, nessun intervento di criminologi, parenti o avvocati. Tutto si sviluppa solo ed esclusivamente attraverso documenti originali: i video delle telecamere a circuito chiuso, i messaggi su whatsapp, le immagini postate su Facebook, le registrazioni della polizia. Per un’ora e ventitré minuti si vede solo questo. La nuda e semplice realtà. Quella della famiglia Watts è la storia della classica famiglia americana. Siamo a Frederick, in Colorado, in un piccolo sobborgo fatto di tante villette a schiera, dove spuntano qua e là bandiere americane. Tutti si conoscono. Lui che corteggia lei. Lei che lo racconta alle amiche e cede, dopo la più classica delle resistenze strategiche. Poi il matrimonio e il rinfresco nel locale con le luci al neon, i fiori finti e il karaoke. Shanann posta continuamente video e foto sui social, tutto viene mostrato ai suoi (pochi) spettatori: la nascita delle figlie, il loro compleanno, le gite in campagna, i viaggi in North Carolina a trovare i nonni, i selfie. «Voglio che conosciate un po’ della mia storia», dice, «Ho trascorso uno dei periodi più bui della mia vita e, poi, ho incontrato Chris… lui è la cosa migliore che mi sia mai capitata». C’è un filmato sgranato in cui l’uomo fa volare una tartaruga di peluche davanti alla piccola Cece che non smette di ridere e un altro in cui una delle bimbe dice che il loro papà è il miglior supereroe del mondo.

Lentamente però, pezzo dopo pezzo, viene fuori il puzzle delle fragili bugie di Chris, mentre il montaggio firmato da Simon Barker, il vero gioiello dell’operazione, sottolinea quanto a volte possa essere drammaticamente fuorviante l’apparenza che i social media restituiscono delle persone. Un agente viene chiamato da un’amica di Shanann perché la donna non risponde ai messaggi da ore. «Chiamo perché sono preoccupata per una mia amica. L’ho lasciata a casa sua alle 2 della scorsa notte e non sono riuscita a mettermi in contatto con lei stamattina. Sono andata a casa sua e la macchina è lì. Non risponde alle telefonate, non risponde ai messaggi». Nel filmato si vede poi Chris che rientra di corsa dal lavoro, trafelato e preoccupato. Ha lo sguardo perso, sembra attonito; si scoprirà poi che è tutta una recita. La telecamera d’ordinanza che l’agente porta con sé ci mostra la prima perlustrazione nelle varie stanze della casa. L’obiettivo si insinua nella privacy di una famiglia apparentemente normale. Tutto sembra quasi congelato nell’attimo della tragedia: c’è il letto a baldacchino ancora sfatto, le pale del ventilatore che girano senza sosta, i giochi delle bimbe sparsi qua e là. I frame grezzi ci restituiscono l’atmosfera di quegli istanti. Della donna e delle due figlie, però, nessuna traccia. Intanto in sovrimpressione scorrono i testi dei messaggi che Shanann ha inviato alle amiche nei giorni e nelle settimane precedenti. Il marito la trascura da tempo, è diventato freddo, asettico e scostante.

È l’inizio della fine. Ogni cosa viene incredibilmente documentata: ci sono le riprese in cui Chris parla con gli investigatori e dice di non sapere nulla, quelle in cui confessa di avere una relazione extraconiugale con una certa Nichol Kessinger. In una si vede l’uomo sottoporsi alla macchina della verità e in un’altra gli inquirenti che gli dicono che non ha passato il test. Si apre una voragine. L’uomo, ripreso da una telecamera a circuito chiuso del commissariato, confesserà al padre ciò che è avvenuto: inizialmente accusa la moglie di aver soffocato le figlie e che lui poi l’ha uccisa, preso da un raptus. Ma la verità col passare delle ore assume contorni diversi: l’uomo ammette di aver commesso il triplice omicidio e indica dove trovare i corpi. Racconta: «Di tutte e tre, Bella è stata l’unica che ha provato a reagire. Sentirò la sua dolce vocina per il resto della mia vita mentre mi dice: “Papà, no!!!”». Tutto documentato, tutto è reale. Il movente? Anche questo troppo banale per una tragedia così. L’omicida sognava un nuovo inizio con la sua amante e voleva cancellare in un colpo solo il suo passato. Figlie comprese. Mentre Shanann gli mandava messaggi, lui scriveva a Nichol a tutte le ore della notte. Mentre Shanann leggeva libri di auto-aiuto per salvare la coppia, lui cercava in rete posti in cui andare con Nichol.

Verrà condannato a tre ergastoli. Nel film si vede Chris che non fa una piega dopo aver ascoltato la sentenza del giudice, che invece appare visibilmente turbato. In una delle ultime riprese di American Murder, c’è Frank Rzucek, padre di Shanann, in aula. «Mi fidavo di te», gli dice, «pensavo che ti saresti preso cura di loro, non che le avresti uccise. Non sai cos’è l’amore. Perché se lo avessi saputo, non avresti fatto quello che hai fatto. Le hai buttate via come spazzatura. Hai sepolto Shannan e Nico in una fossa e Bella e Cece in due container di petrolio».

Alla fine del viaggio ci si sente scossi, svuotati. American Murder è sconvolgente perché il mondo raccontato attraverso video casalinghi e foto del cellulare è vicinissimo a quello in cui viviamo tutti i giorni. La famiglia Watts, almeno in apparenza, può essere come la famiglia Colombo, Martini o Rossi. Non c’è nessuna iconografia del male che avvolge i protagonisti e che ci aiuterebbe a comprendere il perché di tanto orrore. Non ci sono personaggi alla Charles Manson che, paradossalmente, ci avrebbero rassicurato dando un senso alla tragedia. Invece non abbiamo alcun appiglio. È quest’ordinaria banalità a rendere tutto più buio, a dimostrarci che i mostri possono essere ovunque. E tecnologia e social, a volte, li rendono ancora più vicini.

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