All Her Fault non è una serie tv, è rage bait per maschi bianchi

La serie, con protagoniste Sarah Snook e Dakota Fanning, sembra un thriller ma in realtà è tutta una grande storia sulla sisterhood che vince sempre. E sull'impossibilità degli uomini di uscire puliti da qualsiasi situazione.

21 Dicembre 2025

La cosa più bella della miniserie All Her Fault (incentrata sull’incubo di tutti i genitori: il rapimento del figlio di 5 anni), disponibile in Italia su Sky, è che tiene incollate le coppie eteronormative a guardarlo, ma alla fine lui si incazzerò tantissimo e dirà che fa schifo, perché sembra un thriller ma in realtà è tutta una grande storia sulla sisterhood che vince sempre.

Ora occorre dire alcune cose sulla trama senza dirne troppe, perché comunque per tutto il tempo voi tutti e tutte penserete che è un mistery, e il mistery avrà anche una risibile soluzione, quindi non posso spoilerare troppo. Marissa-Sarah Snook ha ricevuto un messaggino da Jenny-Dakota Fanning, una mamma simpatica che ha visto solo una volta a un aperitivo in un grattacielo tra mamme ricche (tipo quelle di Big Little Lies, ma sul lago Michighan): non ha controllato il numero, chi mai lo farebbe, e pensa che il figlio Milo dopo la scuola sia andato a giocare a casa sua. Solo che quando si presenta a prenderlo scopre di aver ricevuto un indirizzo sbagliato da un numero inesistente, che Dakota non sapeva niente dell’appuntamento, e che la tata giovane e carina di Dakota è sparita con Milo.

Tutta colpa di una lei

Insomma, All Her Fault sin dal titolo promette ai mariti che si mettono a guardarlo con noi che alla fine sarà “colpa di una lei” (che carica male la lavastoviglie e chiede sempre quando torni dal calcetto): lei, la moglie distratta che manda il figlio di playdate da semi-sconosciuti per lavorare un’ora in più, o lei, la vicina che ha assunto una tata senza controllare bene le referenze perché era troppo impegnata a acquisire nuovo bestsellerista per mega casa editrice di Chicago; o quantomeno di lei, la rapitrice bellina a psicopatica che si era inventata le referenze da Mary Poppins. O magari di lei? La zia scoppiata che ha una dipendenza da farmaci e non si è mai resa del tutto indipendente dal fratello self-made-man? O perfino di lei: la mamma perfettina sempre davanti scuola col caffettone da asporto a far sentire in colpa quelle che lavorano mentre lei organizza raccolte fondi. Insomma: dateci da scannare una femmina workaholic, una femmina che se ne fotte del figlio, una che se ne fotte troppo, o una così squilibrata che è disposta a rapire un bambino.

Un sacco di false piste e cuore in gola, un sacco di indizi seminati secondo le regole del manuale del bravo sceneggiatore americano, e poi si scompagina un po’ tutto, e si arriva precipitosamente al punto in cui i mariti di tutte voi diranno che sono indignati, che hanno perso tempo, che non è possibile che la famigliola miliardaria non avesse neanche il giardiniere o la colf, o che il detective riesca a capire l’antifona attraverso un disegnino del pupo sul frigo anziché con un rilievo della scientifica. Ma non importa. O meglio, state tranquilli: anche secondo noi donne la trama gialla è un po’ pencolante. Ma non è un giallo, amici, la show-runner e le registe vi hanno presi per il naso.

La prima vera scena importante del film è il flashback in cui Sarah e Dakota si incontrano annoiate al bagno durante la serata del comitato genitori, notano subito che hanno lo stesso vestito, e allora si riconoscono e si appoggiano ai lavandini davanti allo specchio a parlar male di tutte le altre madri, bevono, si macchiano, si guardano i corpi difettosi attraverso lo stesso abito e quasi si seducono, al punto che io spero tutto il tempo mentre guardo che il segreto dietro al rapimento del bambino sia che queste due avevano una storia. E le altre scene importanti sono tutte le volte in cui – mentre la gente consiglia a Dakota di girare alla larga da Sarah perché sicuramente la denuncerà per aver assunto la rapitrice – lei, sempre mentre lavora ventre a terra in casa editrice e il marito le chiede sacrifici senza senso, continua ad andare a casa della mamma distrutta che ha visto solo quell’unica volta all’aperitivo e a prenderla tra le sue braccia, a dirle girl power, a pulire i divani con lei, e riescono perfino a mettersi a ridere come vecchie collegiali dimenticandosi per un attimo di essere immerse nel thriller psicologico.

Un po’ mistery un po’ thriller un po’ telenovela sudamericana

Ora io capisco la delusione maschile nel non vedere andare a posto tutte le tesserine alla Conan Doyle. Ma capisco ancora meglio la frustrazione maschile dentro un racconto dove l’unico meccanismo narrativo perfettamente tarato è l’impossibilità del maschio bianco di uscirne pulito (ci sono i maschi buoni, nella serie, ma sono rigorosamente appartenenti a minoranze). Io mi rendo conto che la brutalità con cui questa semplificazione morale si abbatte sulla storia possa darvi l’orticaria, almeno quanto le dimensioni della piscina della coppia, e la mancanza di addetti al filtraggio della stessa. Ma che ce ne importa, a noi mogli che abbiamo guardato la serie con voi uomini – e alle molte nostre amiche che ci avevano detto “guardala da sola, guardala prima che lui torni a casa o poi manda indietro” – cosa ci importa, dicevo, se il mistery sfocia un po’ nella soap opera sudamericana, e la vittoria delle mamme lavoratrici è portata a casa con una certa grossolanità di intreccio?

Questa è una serie sulle battaglie di coppia, quelle minime e quelle mastodontiche. E sulle amiche che ti aiutano a venirne fuori sghignazzando. Tanto che sul finire noi donne non ci chiediamo: ma il bambino non era allergico alla soia? No, ci chiediamo: perché quella grandissima tosta di Dakota Fanning è riuscita a acquisire il mega scrittore per la mega casa editrice, ma non è riuscita a liberarsi di quella palla al piede lamentosa del marito?

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