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Per definirci abbiamo ancora bisogno delle parole?
È la domanda che ci pone il collettivo di artisti Sacke & Sugar, che al Festival della Filosofia di Modena di quest'anno porta tre cortometraggi per raccontare i limiti delle parole nella definizione delle nuove identità.
Abbiamo davvero bisogno di definire qualcosa o qualcuno per legittimarne l’esistenza? Come si esiste, e come ci si esprime, fuori dalle parole? Nel 2007 l’attivista per i diritti della persone autistiche Mel Baggs pubblica In My Language. Nel video ci presenta la sua “lingua madre”, all’apparenza una sequenza ossessiva di gesti e spasmi senza significato, che poi traduce in un testo nella “nostra lingua”. Lo fa con l’aiuto di una tastiera e di una voce artificiale. Nella “traduzione” Baggs spiega che la sua comunicazione non si basa sulle parole ma «su una conversazione costante con ogni elemento dell’ambiente».
L’attivista, scomparsa nel 2020, ha passato la vita a raccontare cosa significa essere una persona autistica non verbale, e il suo impegno ha avuto un impatto importante nel campo delle neuroscienze e sulla nostra percezione dell’autismo. Il suo lavoro mette in discussione alcune nostre strutture mentali, spesso proprio legato al linguaggio. Come sottolinea nel video: «La nostra rigida definizione di pensiero determina in modo ridicolo chi è una persona e chi no». Fatichiamo a considerare persone come lei come “esseri pensanti” – almeno finché non le sentiamo “parlare” nella nostra lingua: «It is only when I type something in your language, that you refer to me as having communication».
La parola ha sempre avuto un potere ambiguo, quasi subdolo, nel determinare cosa o chi ha il diritto di esistere e chi no. Se non posso definirti, non posso pensarti, allora non sei. Un meccanismo che opprime tutte le persone che non condividono un linguaggio convenzionale. Nel suo libro Aurora delle trans cattive, l’attivista trans e scrittrice Porpora Marcasciano ha sottolineato come la mancanza di un registro narrativo condiviso, di un modo per descriversi ed essere descritte, abbia impedito per lungo tempo a lei e alle sue consorelle di essere “viste”: «Bisognava effettuare un’operazione ardua e semanticamente complicata per inserire quelle persone in un quadro di vita da cui erano state storicamente tenute fuori». Anche il movimento queer ha sempre dato molta importanza all’evoluzione del linguaggio e vocabolario, lavorando per la creazione di termini più inclusivi e rappresentativi delle molteplici identità Lgbtq+ perchè – come ha riconosciuto anche dal Consiglio Europeo nel 2010 – l’affermazione di un lessico corretto è il primo passo per contrastare la discriminazione basata sull’identità di genere.
D’altra parte, però, definire significa anche recintare, e lasciare inevitabilmente fuori qualcuno. È il caso delle femminelle napoletane intervistate da Francesco Ninno nel documentario Nè carne, nè pesce. Nel film, questa figura “ibrida” e misteriosa – la cui storia affonda le radici nel culto della sirena, e che proprio dal suo collocarsi “oltre” il maschile e il femminile deriva uno status divino – fatica a riconoscersi nelle categorie contemporanee. Il termine “femminella” o “femminiello” ha un significato fluttuante, impossibile da racchiudere nelle definizioni di genere. Come sottolinea Marzia Mauriello nel film, la femminella deve la sua ricchezza proprio al suo carattere sfuggente.
Cosa succede quindi negli spazi “grigi” liberi dalle definizioni convenzionali? È da questa domanda che nasce Afasia, il secondo progetto di Sacke & Sugar – un collettivo nato a Venezia alla fine del 2022 che lavora su ricerca, decostruzione e letture di genere, femminismi e movimenti sociali – che inaugura il prossimo 15 settembre al Festival della Filosofia di Modena. L’evento prende il nome dal termine che indica l’incapacità patologica di esprimersi a parole e «cerca di mettere in discussione il ruolo ontologico delle parole attraverso una serie di proiezioni», come spiegano le curatrici.
I tre corti di Afasia sono in mostra allo storico club modenese Snoopy. Ognuno è un’esplorazione artistica e originale delle identità e degli universi che esistono al di là del verbale. Il primo, Miss Italia, è un video “postporno” di Beatrice Favaretto, vincitrice del premio Lydia 2022 per l’arte contemporanea e finalista di Biennale College. Ludovica, una ventitreenne di Napoli, mostra la sua bellezza filmandosi ossessivamente in infinite versioni di sé, tra performance a riflessioni verbali: un “manifesto di libertà”, che nasce negli spazi lasciati vuoti dalla parola. Il secondo corto, di Enrico Boccioletti, inizia così: «I wish nothing was ever about something”/“Vorrei che nulla dovesse mai riguardare qualcosa». È un grido di protesta contro la necessità del “tema” ed esprime quello che l’artista pesarese chiama un «ardente desiderio extra-linguistico». Con uno script che sembra un flusso di coscienza di frasi scollegate tra loro, A shade of what remains usaid sancisce il «diritto a non dover spiegare», la possibilità (utopica?) di poter comunicare senza doversi rifare necessariamente a delle categorie predefinite. Infine, La discoteca, di Jacopo Milani, è un film distopico dove la discoteca, da sempre luogo dell’espressione corporea, è trasformata in una “camera dell’amore” iper controllata in cui non resta traccia del divertimento e della scoperta dell’altro, e ogni relazione autentica viene inibita. Forse non c’è niente di male nel non “saper dire” e, sembrano suggerire le opere, liberarci di questa necessità può aprirci a mondi inesplorati e nuovi gradi di libertà.