Abdulrazak Gurnah, tornare a essere uno scrittore dopo aver vinto il Nobel

Furto, appena uscito per La Nave di Teseo, è il primo romanzo di Gurnah dopo la vittoria del Nobel nel 2021. A Milano per partecipare alla Milanesiana, lo abbiamo incontrato e con lui abbiamo parlato del libro, di turismo, di furti e di Zanzibar.

04 Giugno 2025

Il 27 maggio 2025 la collana Oceani de La nave di Teseo si è arricchita di un nuovo titolo, molto atteso. È stato pubblicato Furto, l’ultimo romanzo di Abdurazak Gurnah, premio Nobel per la Letteratura nel 2021, tradotto dall’inglese da Alberto Cristofori. Nicoletta Brazzelli, che insegna letteratura inglese contemporanea alla Statale di Milano, ha incontrato lo scrittore il 28 maggio, prima della sua partecipazione all’evento della Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, “Mondi lontani e vicini” al Teatro Franco Parenti.

L’uscita del tuo primo romanzo dopo il conferimento del Premio Nobel era molto attesa e ha suscitato una grande curiosità. Prima di parlare nello specifico di quest’opera, Theft, apparsa in inglese lo scorso marzo per Bloomsbury, vorrei chiederti se davvero il Nobel ha cambiato la tua vita. Dall’ottobre del 2021 a oggi, hai accettato inviti in tutto il mondo, per lezioni, presentazioni, reading; hai rilasciato interviste e incontrato un gran numero di giornalisti, studiosi, lettori. Questo ha trasformato il tuo metodo di lavoro? La tua routine di scrittore?
Il mio lavoro non ha subito cambiamenti, continuo a scrivere nello stesso modo. Le idee e la scrittura davanti al computer non sono stati modificate; quando scrivo, non penso in maniera diversa perché ho vinto il Premio Nobel. L’esperienza, in questo senso, è separata dalla scrittura. Qualcuno sostiene che dopo che si è ricevuto il Nobel non si scrive più, e c’è una ragione. Spesso lo si riceve in età già avanzata, perché premia un’intera carriera e non un’opera singola. Il fatto importante è che, dopo che un autore lo ha vinto, molti lettori ed editori vogliono incontrarlo: dunque bisogna partecipare a un numero notevole di eventi e per farlo occorre tempo. Questo significa avere a disposizione meno tempo per scrivere, ma trovo che sia anche una bellissima opportunità. Ho sempre incontrato persone gentili e interessate, mi piace molto ascoltare le loro esperienze di lettura. Del resto, visto che l’editore si prende un rischio quando decide di pubblicare un libro, è giusto promuoverlo e questa attività è parte integrante del lavoro dello scrittore.

Torniamo indietro, solo per un momento. Hai parlato in molte occasioni dell’inizio della tua carriera di scrittore, anche durante il discorso tenuto per l’accettazione del Nobel. Vuoi aggiungere qualcosa a quanto già rivelato, ossia l’importanza dell’istruzione e della lettura nella tua formazione? Per esempio, per quale ragione hai scelto il romanzo, e non altri generi letterari? Forse perché permette, più di altre forme di scrittura, di raccontare storie?
Perché ho scoperto presto che la forma letteraria del romanzo era quella in cui mi trovavo più a mio agio. Ho provato anche con la poesia, ma non ho avuto risultati che mi soddisfacevano; il teatro mi interessava ma, visto che è una attività che implica una collaborazione, non ho trovato stimoli adeguati per proseguire. In effetti, non si tratta solo di raccontare storie. Quello che conta per me è il controllo del ritmo, il fatto che il romanzo non dipenda dall’interpretazione di altri soggetti, che nel caso del teatro sono gli attori, il regista. Trovo sia più facile per me scrivere in prosa, lì ho trovato il ritmo e la compostezza che cercavo.

Parliamo di Zanzibar, l’isola da cui provieni e che continua a costituire una fonte di ispirazione per le tue opere, come conferma anche l’ultimo romanzo. Di Zanzibar descrivi la vocazione multiculturale, gli scambi commerciali e linguistici, con tratti indubbiamente affascinanti per i lettori, ma racconti anche un luogo che ha subito pesantemente il colonialismo europeo. Per quanto vivi in Gran Bretagna dagli anni Sessanta del Novecento, mantieni un rapporto molto vivido con la tua madrepatria. Forse Zanzibar costituisce una sorta di ‘patria immaginaria’, come Salman Rushdie definisce i paesi di origine ricreati attraverso la scrittura?
Il fatto che Zanzibar sia centrale nella mia opera non è una scelta volontaria, studiata; non so dare una spiegazione razionale a questo rapporto così stretto con l’isola delle mie origini. Ci torno di continuo con la mente. Penso davvero tanto a Zanzibar, ogni giorno. Quando scrivo, comincio a sviluppare un’idea, lavoro su una particolare relazione, e inserisco quello che conosco di Zanzibar. Non sempre ambiento i miei romanzi a Zanzibar, perché alcune opere comprendono vicende che si verificano in Gran Bretagna, o anche in altri luoghi della costa orientale dell’Africa. Comunque, vado regolarmente in quella parte del mondo, anche se non sempre mi fermo a Zanzibar. Perciò, non si tratta solo di immaginazione, frequento davvero la regione, nonostante risieda in Gran Bretagna.

Alcuni dei tuoi romanzi sono molto legati alla tua esperienza di rifugiato che ha sperimentato direttamente l’alienazione e il razzismo al suo arrivo in Europa. Pensi che ce ne sia uno in particolare che sia rappresentativo in questo senso? Una delle opere più apprezzate dal pubblico e dalla critica è Sulla riva del mare, non a caso il primo (ri)proposto in italiano da La nave di Teseo subito dopo il Nobel. Ma c’è un’opera a cui sei più legato?
Ogni opera è diversa dall’altra e io non riesco a indicarne una in particolare. In ognuna esploro temi differenti, per cui trovo difficile, anzi impossibile, scegliere. È vero che affronto esperienze di dislocazione e alienazione nei miei romanzi. Per la verità, Paradiso è un racconto che si colloca temporalmente nel passato e costituisce un caso molto particolare all’interno della mia produzione. Voci in fuga, più recente, gli è molto vicino. Comunque, preferisco siano i lettori a dire quale libro preferiscono o ritengono migliore o più rappresentativo della mia opera di scrittore.

Sei uno scrittore inglese, britannico, nato a Zanzibar, in Tanzania, nell’Africa orientale. Delimitare un’identità così composita è complicato. Ma queste definizioni sono significative quando cercano di definire l’identità di un individuo? Le “etichette” sono ancora utili nel mondo contemporaneo ibrido e frammentato? Oppure ormai non servono più ed è meglio evitare di utilizzarle?
Tutto dipende da come queste definizioni vengono usate. Una definizione identitaria che si pone come definitiva non ha proprio senso. Parlare dei luoghi di origine in maniera assoluta non ha nessun significato, perché non dice nulla del sé, tuttavia non è nemmeno del tutto irrilevante, piuttosto, dipende da quanto c’è di definitivo. Le identità sono in continua trasformazione. Definizioni come inglese, africano, etc. servono per un libraio, per esempio, perché ha bisogno di dividere le opere in categorie, per ragioni pratiche. Ma servono anche per un docente, quando deve preparare un programma di studio. Per un lettore effettivamente non contano.

Per rimanere nell’ambito delle definizioni, cosa pensi dei termini “postcoloniale” e “diasporico”? Ha ancora senso usarli oggi? Inoltre, si tratta di due termini (e concetti) diversi, che però spesso vengono utilizzati come sinonimi. Qual è la tua opinione a riguardo?
Sia “postcoloniale” che “diasporico” non si riferiscono a luoghi, ma a esperienze storiche, e dunque sono più utili, sono generici e anche per questo includono significati diversi. Certamente continuano ad avere valore dal punto di vista didattico. Senza dubbio “postcoloniale” e “diasporico” non sono sinonimi, ma ormai si tende a usare questi termini in maniera piuttosto vaga, generica, libera. Inutile osservare che qualcosa si perde nel modo in cui esprimono “quasi” lo stesso concetto. Per intenderci, pensiamo per esempio al termine rifugiato, che, rispetto al suo significato originario, ormai indica chiunque, di solito non europeo, abbia lasciato la sua patria. Quando le parole entrano nel linguaggio pubblico, non sono più usate in maniera specifica.

Le tue narrazioni hanno il potere di affascinare chi legge invitandolo a scoprire legami “nascosti” fra i personaggi e a interrogarsi sul non detto. Hai in mente un lettore attivo e collaborativo nella costruzione del racconto? Intendo dire, pensi ai tuoi lettori quando scrivi? Romanzo dopo romanzo, il meccanismo dell’intreccio, come per magia, si ripropone. Questo è il risultato di una tecnica narrativa raffinata. È così?
Quando scrivo non mi aspetto che i lettori mettano insieme i vari pezzi della narrazione, piuttosto vorrei che provassero piacere nel leggere. E, in effetti, l’obiettivo di generare il piacere della lettura implica proprio creare le condizioni per cui si proceda a leggere con curiosità, far sì che il lettore sia in grado di cogliere le connessioni. Ma il puzzle che realizzo non è deliberato, scomposto in modo che venga ricomposto dal lettore. Dunque non penso a frammentare il racconto affinché venga ordinato. I miei lettori, comunque, fanno una sorta di lavoro supplementare, e certamente questa operazione può essere molto gratificante.

Scrivi in inglese, ossia nella lingua dei colonizzatori. Hai raccontato più di una volta come la tua istruzione coloniale a Zanzibar comprendesse, appunto, l’apprendimento della lingua inglese. In un tuo intervento di qualche anno fa, che mi ha particolarmente colpito, hai parlato della lingua inglese come di una «casa spaziosa e accogliente». Ma cosa comporta l’uso dell’inglese per chi ha una lingua madre diversa, è un processo di appropriazione?
Il modo con cui uno scrittore si relaziona alla lingua non è affatto semplice: non ha a che vedere con la scioltezza. E utilizzare la lingua di origine non è un obbligo da rispettare. Con la lingua lo scrittore si relaziona in maniera intima, intuitiva. Si può essere fluenti in italiano senza che l’italiano sia automaticamente la lingua in cui si scrive. Scrivere è qualcosa che accade quasi senza pensarci. Per me, scrivere in inglese grazie all’istruzione che mi è stata impartita è un piccolo dono dei colonizzatori. Il mio rapporto con lo swahili è diverso: anche se sono fluente in swahili, non so scrivere in swahili. Non è facile spiegarlo, ma non si tratta di una questione di scelta: la questione è se ci si sente a proprio agio con quella lingua. Aggiungo, per spiegarmi meglio, una metafora sportiva: se vuoi diventare un saltatore, devi avere il fisico per farlo.

Veniamo ora a Furto. Come ogni opera, anche questa ha le sue peculiarità. La più evidente, forse, è che presenta un contesto postcoloniale contemporaneo in cui i personaggi non si muovono dall’Africa verso l’Europa, ma crescono e diventano adulti nel loro Paese d’origine. Potresti spiegare questa scelta? I protagonisti Karim, Fauzia e Badar sognano il futuro nella loro nazione. È questo il motivo che ti interessava esplorare?
Non è la prima volta che non affronto direttamente il tema della migrazione nei miei romanzi. Ricordo ancora che in Paradise viene narrato inizialmente il passaggio dalla periferia alla città, che implica un senso di straniamento e di alienazione del giovane protagonista Yusuf. Dunque, non sempre scrivo di individui che si spostano dall’Africa verso l’Europa e sperimentano le problematiche della dislocazione in quel modo. Le stesse questioni possono essere esplorate anche in altre situazioni, che non sono legate allo spostamento da un continente all’altro. In questo nuovo romanzo non volevo complicare ulteriormente le vite dei personaggi, e dunque ho scelto di farli rimanere a casa.

Casa per loro significa una nazione ancora relativamente “giovane”, che ha conosciuto il colonialismo. Perciò le loro esistenze sono state modellate da quella devastante esperienza storica. Mi pare che il romanzo metta in evidenza la convivenza complicata, nel presente, fra i modi di vita tradizionali e le nuove prospettive della globalizzazione. È una osservazione corretta?
Certamente, il turismo, per esempio, porta nuove tentazioni in questo mondo. Si tratta proprio di un fenomeno globale che ha come effetto quello di introdurre nuove tentazioni. Il personaggio di Karim viene sedotto proprio all’interno di una dinamica che si sviluppa in relazione al turismo, che offre una nuova visione del mondo e fornisce nuove possibilità di vita. Karim non riesce a resistere alla tentazione, che si presenta attraverso la figura della giovane donna europea. Ma anche chi governa a Zanzibar viene tentato dal cambiamento, e questo è direttamente legato agli investimenti nel settore turistico. D’altro canto, lo sviluppo del turismo sull’isola ha anche portato cambiamenti positivi per tutta la popolazione, come la disponibilità dell’acqua e una nuova legalità. Mi interessa osservare comunque che si tratta di un fenomeno che cambia, con la massiccia circolazione di denaro, soprattutto i piccoli Paesi, appunto un’isola come Zanzibar. Invece, in Italia avete milioni di turisti ma anche una lunga tradizione in questo campo, e avete maturato una lunga esperienza. In questo caso, non si tratta di rovinare le vite degli abitanti. Al contrario, per i piccoli paesi è molto difficile resistere all’invasione dei turisti, e questo ha conseguenze inevitabili sulle esistenze di chi ci abita.

In Furto il personaggio di Badar all’inizio è un giovane servo, caratterizzato da tratti abbastanza comuni, è privo di istruzione, timido e passivo, mentre nel corso del romanzo si trasforma. Mi pare tu abbia dedicato una particolare attenzione a questo personaggio e lo abbia sviluppato con accuratezza. È solo una mia impressione, o davvero è una figura su cui hai lavorato particolarmente?
Innanzitutto Badar non è passivo, ma è semplicemente privo di qualsiasi potere, non ha il controllo della sua vita. Cosa poteva fare, nella sua condizione? Forse solo fuggire. Invece questo giovane servo osserva, fa attenzione a ogni dettaglio per comprendere e per imparare. È un esempio di come anche individui senza potere possano acquisire gradualmente la capacità di agire. Solo così, tenendo gli occhi bene aperti, le persone come lui acquisiscono gli strumenti per comprendere il mondo che li circonda e dunque anche per agire in prima persona al suo interno e dunque per sfuggire all’oppressione. È vero, è una figura importante, emblematica, nel romanzo.

Karim è l’altro personaggio maschile, che si muove da Zanzibar a Dar es Salaam per studiare all’università con una borsa di studio. Mi ha fatto pensare a Rashid in Il disertore, anche se Rashid si trasferisce in Gran Bretagna, mentre Karim dopo gli studi torna a Zanzibar per acquisire una posizione di prestigio nel suo Paese. È un personaggio ambizioso e sicuramente non positivo, vero?
Se si guarda attentamente al modo con cui è presentato, si capisce fin dall’inizio che Karim non è un personaggio positivo. È tentato dalla bellezza femminile, e dunque non dovrebbe giungere inaspettato il tradimento che segna la sua esistenza e quella degli altri personaggi. È particolarmente interessato a emergere, aspira al successo, ma ha questa debolezza, ed è incline al compromesso morale.

Riguardo ai personaggi femminili, trovo interessante come spesso le figure di giovani donne all’inizio diano l’impressione di essere creazioni secondarie, mentre poi si rivelino resilienti e centrali nella narrazione. Penso ad Afiya, in Voci in fuga e naturalmente a Fauzia, in Furto. Vuoi aggiungere qualcosa?
Spero davvero di essere riuscito a creare personaggi femminili forti e potenti. I lettori imparano a conoscere gradualmente queste figure che sono minori solo in apparenza, in realtà sono dotate di una grande forza.

Infine, vorrei porre l’attenzione sul titolo del romanzo. Il motivo del furto è cruciale e non soltanto perché l’intreccio comprende un’accusa di furto (falsa) nei confronti di un personaggio. Piuttosto, implica varie situazioni di espropriazione, e dunque è un emblema della perdita, a diversi livelli. Sicuramente quando uno scrittore come te, che si è concentrato sugli effetti della colonizzazione, parla di furto, fa subito pensare all’espropriazione delle risorse, della lingua e della cultura subite dai paesi colonizzati. È una interpretazione pertinente?
Sicuramente, e il furto è strettamente legato anche al tema delle vite rubate, sottratte alla libertà. Il motivo del furto si ritrova anche in relazione all’hotel, che costituisce un luogo importante nella narrazione, perché in realtà è una casa ‘rubata’, espropriata, sottratta ai legittimi proprietari. Questa è una pratica comune, in relazione allo sviluppo turistico di Zanzibar. Comunque, a parte un punto specifico dell’intreccio che fa riferimento a un furto, il motivo risuona in molti altri modi nel romanzo. Pensiamo anche al tradimento. Le vite si possono “rubare” in tanti modi, ipotecando il futuro.

La nave di Teseo ha già pubblicato in italiano sette dei tuoi undici romanzi. Mancano le tue prime opere. Personalmente, come lettrice, ma anche come docente di letteratura inglese e studiosa della narrativa postcoloniale, mi aspetto che compaia quanto prima Admiring Silence. Avete già stabilito quale sarà la prossima traduzione?
No, per il momento non so ancora quale sarà.

La ragione della mia aspettativa dipende dal fatto che Admiring Silence è connesso intertestualmente con L’ultimo dono, apparso in traduzione lo scorso anno. Questa strategia di collegare fra loro narrazioni diverse e distanti nel tempo è particolarmente interessante per i lettori, che trovano intrigante, per esempio, il passaggio di un personaggio da un romanzo all’altro. Del resto, questo avviene anche nel caso di Paradiso e Voci in fuga. Cosa ne pensi?
Il mio lavoro è orientato verso il lettore, e per uno scrittore come me è fondamentale pensare al piacere che il lettore trae dalla lettura. Non mi stanco mai di ascoltare i miei lettori, di incontrarli e di sentire le loro interpretazioni dei miei romanzi.

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