Dal marito di Gisèle Pelicot a quelli del gruppo Facebook “Mia moglie”, la colpa è sempre di un uomo qualunque

Troppo spesso nel discorso sulla violenza di genere si finisce a parlare di mostri o di pervertiti, di devianze e di eccezioni. I tanti fatti di cronaca, invece, ci dicono tutt'altro, ormai da anni.

26 Agosto 2025

«Sono andata a vedere se c’era qualcuno che conoscevo», mi hanno detto alcune amiche, con un po’ di inquietudine, nei giorni scorsi. Avevano appena digitato nella barra di ricerca di Facebook “Mia moglie”, il gruppo in cui, dal 2019, 32 mila iscritti condividevano foto delle compagne in costume da bagno o in abbigliamento intimo, o semplicemente con un abito un po’ scollato o un paio di jeans attillati, per il sollazzo dei maschi che le avrebbero guardate. Una breve descrizione ad accompagnamento della foto, o una domanda, “Cosa fareste a mia moglie se la trovaste così sul divano?”, e giù di epiteti sessisti e fantasie sboccate. Questa, in sintesi, l’attività del gruppo – dettaglio ulteriormente nauseante: al nome seguivano tre cuoricini rossi, che dovevano forse indicare amore, qualunque cosa questa parola significasse per gli iscritti.

Non erano foto volutamente sexy o troppo esplicite; perlopiù si trattava immagini ordinarie, domestiche. L’elemento eccitante, infatti, risiedeva altrove, ovvero nell’ingenuità con cui le mogli si mostravano all’obiettivo, fiduciose dell’uso che avrebbe fatto di quell’immagine. Altre foto erano state scattate nella totale inconsapevolezza della vittima, che magari stava dormendo o comunque non sapeva che qualcuno la stava fotografando.

Mio marito

La matrice è la stessa del caso Pelicot: all’interno di una dimensione famigliare – quindi di fiducia –si disumanizza un corpo femminile e lo si trasforma in un prodotto di consumo atto a soddisfare il piacere di altri maschi. Gisèle Pelicot è stata vittima di decine di abusi orchestrati dal marito a sua insaputa, e ha detto più volte che la vergogna deve cambiare lato, che non deve gravare sulle donne ma sugli uomini che quegli abusi li hanno commessi. Al contempo, la sua storia ha ribadito ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che le donne non corrono rischi solo quando si trovano per strada, di notte, da sole, ma che spesso il luogo più pericoloso è proprio la casa che dividono con l’uomo che hanno sposato.

È un problema sistemico e culturale che purtroppo non si risolverà con la chiusura di questo gruppo. La costante violazione del consenso – che non viene mai tematizzato, come se si trattasse di un dettaglio trascurabile e non del cardine su cui dovrebbe reggersi ogni singolo rapporto – è figlia dell’analfabetismo emotivo di maschi cresciuti in un contesto patriarcale che non fa che ripetere loro che i corpi delle donne con cui condividono lo spazio domestico, quello pubblico o professionale, appartengono a loro, di diritto. È un fil rouge che parte dal cat calling per finire nella tragedia dei 60 femminicidi che si sono consumati in Italia solo dall’inizio di quest’anno, passando proprio dalla pratica di condividere foto private per il solo gusto di compiacere altri maschi, di risvegliarne le fantasie, di gonfiare il petto davanti a loro – guardate com’è bella mia moglie, la mia preda, il mio trofeo.

Sembrerebbe controintuitivo che in un Paese dove la gelosia è vista ancora, e tanto spesso, come sinonimo di amore, un uomo non provi fastidio al pensiero di altri uomini che si masturbano davanti alla foto della propria moglie in bikini – e in un certo senso lo è. Alcune psicologhe si sono pubblicamente spinte molto in là con l’esegesi, fino a vederci i tratti di una omosessualità latente, repressa – rivelando invece un’omofobia che si manifesta senza problemi.

Si tratta, piuttosto, di omofilia. È il desiderio di compiacere i propri simili, di cercare complicità attraverso la costruzione di un linguaggio comune e la condivisione di un terreno di scambio e confronto, anche a costo di tradire la fiducia della persona con cui ci si corica tutte le sere offrendo le sue immagini private a una massa di sconosciuti che a loro volta potranno moltiplicarle, diffonderle, usarle per altri scopi in altri luoghi, virtuali e non.

Che i maschi fatichino a stringere legami emotivamente significativi fra loro non è un mistero. Internet è un pozzo inesauribile (e a tratti esilarante, se la realtà poi non fosse così preoccupante) di meme e video ironici sulle difficoltà che incontrano due uomini che si trovano costretti a parlare della loro vita sentimentale fra le quattro mura di uno spogliatoio. Quegli stessi uomini che hanno però un bisogno vitale della validazione da parte di altri maschi, di essere riconosciuti e ammirati nella loro virilità – e per stringere alleanze e sodalizi si rivalgono qui sui corpi delle donne, inscenando, come ha scritto Carolina Capria, la scrittrice dalla cui denuncia è partito tutto, un vero e proprio rituale di stupro online.

Le conseguenze di una denuncia

Dopo che la pagina è stato cancellata si è aperta una faglia fra le attiviste femministe online. Era giusto, si chiedono alcune, attirare così tanta attenzione sul gruppo? Forse la segnalazione pubblica ha contribuito a farlo chiudere prima, ma a discapito delle vittime, le cui foto sono state visualizzate da migliaia di utenti in più, e che magari proprio a causa dell’eco mediatica della notizia hanno scoperto, e in modo piuttosto brutale, di essere state esposte pubblicamente, e che il loro marito è diverso dall’uomo che pensavano di aver sposato. Sarebbe stato più corretto, dicono, segnalare il gruppo alla Polizia Postale e lasciare che la giustizia facesse il suo corso – lunghissimo, lo sappiamo – mettendo, prima di tutto, le vittime in sicurezza.

La questione è tutt’altro che oziosa, soprattutto se si pensa che gli iscritti sono semplicemente migrati su altri canali, dove continueranno a scambiarsi le immagini delle donne che dicono di amare come se fossero le figurine di un album. È, se ce ne fosse bisogno, l’ulteriore conferma del disorientamento istituzionale, e di conseguenza sociale, di fronte a un fenomeno gravissimo e dilagante.

Persone normali

Un report dell’associazione Permesso Negato, che si occupa di sostegno alle vittime di revenge porn, ha stimato che nel 2023, solo su Telegram, solo in Italia, fossero 147 i gruppi in cui veniva condiviso materiale pornografico non consensuale, con più di 16 milioni di iscrizioni – il dato fa riferimento a utenti non unici: significa che un singolo utente può essere presente in più gruppi ed essere conteggiato più di una volta. In ogni caso, troppi per poter parlare di anomalie. La retorica del mostro che viene spesso applicata a casi come questo serve solo a esorcizzare la paura, a illuderci che il problema riguardi pochi contesti emarginati o devianti, pochi pervertiti, quando invece riguarda tutti: sono in primo luogo gli stessi uomini con cui dividiamo le nostre vite, padri di famiglia, persone normali, l’uomo qualunque, a diffondere immagini private. Sono i monsieur tout-le-monde, come i media francesi hanno ribattezzato gli uomini che hanno violentato Pelicot. Ed è proprio questa ordinarietà a rivelare quanto sia radicato e pervasivo il problema, e quanto lavoro ci sia ancora da fare.

Dopo essersi accertata di non conoscere nessuno nel gruppo, una mia amica ha fatto un’altra ricerca. Ha guardato, senza troppa convinzione, se esistesse un corrispondente “Mio marito”. Sorpresa: esiste (anche se ha un nome un po’ diverso) e conta poco più di 2 mila iscritte. L’attività di questa pagina, però, non è paragonabile a quella dell’altra né per intensità né per contenuti. Se là il bisogno era quello di guadagnarsi l’approvazione degli altri uomini, qui si cerca il conforto di altre mogli che vivono situazioni analoghe alla propria. I messaggi lasciati in bacheca spalancano scenari di solitudini deprimenti: le donne si confidano sul carico di lavoro domestico che tocca sempre a loro, sulle incessanti rivalità con la suocera, sulla totale assenza di una rete di supporto esterna alla famiglia, sulle pretese inesaudibili che si trovano a dover soddisfare, sul marito che non parla mai con loro, che non le aiuta e non le degna mai di uno sguardo attento, gentile. Fino a che “Come ti sta bene questa maglietta, aspetta, ti faccio una foto”.

Se gruppi Facebook come “Mia Moglie”, in cui uomini pubblicano foto delle compagne senza il loro consenso, rimangono aperti è anche per colpa dell’AI

Se ne sta parlando moltissimo dopo la denuncia della scrittrice Carolina Capria: il gruppo, a cui erano iscritti 32 mila uomini, è rimasto aperto e pubblico per 6 anni, sfuggendo a ogni moderazione.

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