Le 55 nazioni dell'Unione africana vogliono cestinare la mappa di Mercatore, vecchia di secoli, e sostituirla con una più moderna e realistica.

Dove il turista vede solo rovine, l’urbexer trova un tesoro
L’urban exploration esiste da trent’anni almeno, ma grazie ai social e alla Fomo sta diventando un fenomeno pop. Per la rabbia dei veri appassionati, che alla differenza tra esploratori e viaggiatori tengono ancora moltissimo.
Questo articolo è tratto dall’ultimo numero di Rivista Studio, intitolato “Gran Turismo”. Lo trovate in edicola, nelle librerie selezionate oppure, più semplicemente, sul nostro store online.
Prima che tutti i dispositivi diventassero uno soltanto (lo smartphone), il marchio del turista era indubbiamente la macchina fotografica. Piccola, grigia e digitale, grossa, nera e analogica, sempre appesa al collo con un apposito laccio di corda o di plastica. Lo straniero con la macchina fotografica non può che essere un turista: se l’italiano fosse una di quelle lingue che formano le parole legando i concetti tra di loro invece che attaccando sillabe l’una all’altra, “straniero” e “macchina fotografica” sarebbero sicuramente i concetti indispensabili per formare la parola “turista”.
Ma in realtà a questa etimologia mancherebbe un pezzo, uno fondamentale: la folla. Un turista che se ne sta da solo, nel mezzo di un posto isolato, disabitato, abbandonato, dimenticato da Dio e dagli uomini, è ancora un turista? È la domanda che devono essersi poste le prime persone dedite a quell’attività che oggi si chiama urban exploration (accorciato in urbex): chi siamo noi? E in che cosa, in quale modo siamo diversi dai turisti? Lo siamo, diversi? A giudicare dalle macchine fotografiche che ci portiamo sempre appresso pure noi, forse no, non siamo diversi. Ma nei posti in cui andiamo noi ci siamo soltanto noi, nessun altro, quindi forse sì, una differenza c’è.
L’estetica del decadimento
L’urbex comincia quando le cose iniziano ad andare male, e questa è un’altra differenza sostanziale che separa il turista e l’esploratore (un titolo che può sembrare pomposo ma tant’è, se lo sono scelto loro, a loro piace, a noi che importa). All’urbexer non interessano affatto le cose tenute in buono stato di conservazione, anzi: l’urban exploration è sostanzialmente estetica del decadimento, intonaco marcito, piastrelle sbriciolate, muffa, polvere, abbandono. Non è un caso che le origini della pratica – difficile definire hobby una cosa che può portarti all’ospedale o in galera o prima in uno e poi nell’altra – siano convenzionalmente ricondotte all’inizio degli anni Duemila. Leggendo questo passaggio, un praticante di urbex potrebbe sobbalzare: ma come, e il leggendario Philibert Aspairt, portiere che nel 1793 decise di esplorare, torcia in mano, le catacombe di Parigi, si perse, morì e fu ritrovato solo dieci anni dopo? E il pioniere Jeff Chapman (aka Ninjalicious), fondatore della zine Infiltration e autore del libro Access All Areas, già attivo nel 1996?
Ora, miti fondativi e padri nobili a parte, la santissima trinità dell’urbex è Y2K: Bradley Garret, che nel 2013 pubblica Explore Everything: Place-Hacking the City; Rebecca Litchfield, autrice del favoloso libro fotografico Soviet Ghosts (2014); e poi Bob Thissen, divulgatore digitale, vlogger e avventuriero e creatore del popolarissimo canale YouTube Exploring the Unbeaten Path.
Gli anni Duemila, dicevamo: crolli finanziari e attentati terroristici, l’11 settembre e la crisi dei subprime, la sensazione che il mondo stesse crollando su se stesso e che, una volta diradatasi la nuvola di polvere, solo le rovine sarebbero rimaste. Non è un caso neanche che all’urbex degli inizi proprio gli americani abbiano dato un contributo notevolissimo: l’esplorazione urbana viene meglio nei Paesi industrializzati, la mappa dell’urberxer si allarga di crisi ciclica in crisi ciclica, depressione industriale dopo depressione industriale.
Scoprire cosa è andato storto
Unknow Cameraman, uno dei più famosi e apprezzati urbexer americani, spiega che per lui l’esplorazione urbana non è una passione in sé ma la conseguenza di una passione: «Scoprire cosa è andato storto» (quanto Zeitgeist c’è in questa frase, e chi di noi non si è posto seriamente il problema in tempi recenti?). Il turista si bea delle umane testimonianze che riemergono dalle sabbie del tempo, da questo trae consolazione per il futuro della specie: se l’Impero romano è arrivato fino a noi, anche noi supereremo lo spazio e il tempo proprio come hanno fatto loro, anche noi diventeremo un anello nell’infinita, eterna catena della memoria. Il rapporto tra l’urbexer e i suoi “monumenti” è quasi l’opposto: che sia una fabbrica chiusa, un ospedale abbandonato, una base militare dismessa, una villa distrutta, un bunker fatiscente o un parco giochi dimenticato, l’urbexer non si chiede mai chissà chi è che l’ha costruito e perché, ma chissà chi erano le ultime persone che ci hanno messo piede e perché non sono tornate mai più.
L’esploratore urbano sospetta da tempo quello che noialtri stiamo trovando solo adesso la forza di ammettere: è probabile che di questa nostra epoca resteranno soltanto le macerie, la catena della memoria si spezza con noi, ai posteri non lasceremo monumenti ma immagini di “monumenti” che nel frattempo saranno diventati polvere sotto i piedi. L’estetica dell’abbandono, appunto. Il turismo del pessimismo, anche. D’altronde, l’urbex è considerato una delle tantissime manifestazioni del tanatoturismo, il viaggio nei luoghi della morte e della tragedia, che a sua volta è un ramo del grande albero nero del turismo estremo. E cosa c’è di più mortifero, di più tragico, di un luogo pensato per gli esseri umani, privato dell’umana presenza?
Perché l’urbexer scatta fotografie? È una domanda essenziale – esistenziale, si potrebbe azzardare – e come tutte le domande essenziali ovviamente non ha una risposta. La fotografia è talmente legata a questa pratica che c’è chi la considera come una sua branca, un sottogenere, una scuola. Secondo questa corrente di pensiero, l’urbex non avrebbe niente a che vedere con il turismo né con l’esplorazione ma tutto a che vedere con la fotografia (e, di conseguenza, con l’architettura).
A che serve una fotografia?
Uno dei più noti e longevi esploratori urbani d’Europa è Ciarán Fahey, irlandese che vive a Berlino e che, quando ancora i blog esistevano (peccato le rovine dei blog non vengano bene in fotografia, quella sì che sarebbe estetica dell’abbandono), ne ha fondato uno intitolato Abandoned Berlin. All’epoca in cui Fahey ha iniziato a fare urbex, l’urbex come lo conosciamo oggi non esisteva ancora, non era ancora stata definita una deontologia dell’esploratore urbano. Lui è stato uno dei primi a chiedersi che fare: queste foto di Spreepark che ho scattato, le pubblico su internet o me le tengo per me? Se le foto le pubblico su internet, ci metto anche la geolocalizzazione del parco, tante volte ci fossero altri come me che amano andarsene per posti morti? Dice: «Ho pensato che sarebbe stato un peccato se questo posto stupendo fosse rimando chiuso, nascosto, senza nessuno che potesse usarlo. Volevo condividerlo, davvero. Ho continuato a farlo perché credo che la vita di questi luoghi non sia infinita e penso che le persone dovrebbero goderseli finché possono. Non mi piace questa roba di trattare i luoghi come fossero dei segreti, nascondendoli dal mondo come se fossero delle cose mie. Questi luoghi non mi appartengono, non sono di nessuno. Sono liberi, abbandonati, accessibili a tutti e secondo me sono proprietà di tutti».
Oggi i dubbi di Fahey sono stati ampiamente superati: piaccia o non piaccia ai pionieri, quella dell’urbex è ormai una community vera e propria, con tutta la strumentazione digitale del caso. Gli esploratori vecchi e nuovi si raccolgono tra Reddit, Discord e soprattutto Urbexology, sito-mappa che raccoglie tutti i luoghi POTENZIALMENTE (il maiuscolo è loro) abbandonati del mondo, con indicazioni e accortezze allegate in apposito, comode schede. Ogni luogo POTENZIALMENTE abbandonato è contrassegnato da un puntatore blu. C’è n’è uno anche in Antartide. In Italia, invece, le località più apprezzate sono ormai note alle cronache: Consonno, il borgo fantasma (Lecco), le Officine Reggiane e l’Acquaria Park (Reggio Emilia), il Castello di Rovasenda (Piemonte), l’ex Manicomio di Volterra (Toscana). Se uno volesse, se uno fosse presuntuoso e incosciente abbastanza, grazie a Urbexology potrebbe mettersi a organizzare un’esplorazione urbex come si organizza un viaggio vacanza. E si ritorna sempre alla domanda: ma allora l’urbex è turismo o no?
Di certo l’esplorazione urbana non ha ancora l’economia del turismo – nonostante il successo di Abandoned Berlin, per visitare Spreepark al momento non è previsto il pagamento del biglietto, differenza fondamentale tra un posto da visitare e uno da esplorare – ma talvolta, sempre più spesso, porta conseguenze simili. D’altronde l’urbex è anche e soprattutto un fenomeno di internet e come tutte le cose di internet ci mette pochissimo a diventare spiacevole. Nonostante i veterani dell’esplorazione urbana vivano seguendo fedelmente la regola aurea “take nothing but photos, leave nothing but footprints” (di regola aurea l’urbex in realtà ne ha anche un’altra, ma a questa ci arriviamo tra un po’), lo stesso non si può pretenderlo dai novizi né aspettarselo dai curiosi, dagli improvvisati, dagli impreparati, dagli imprudenti. È la ragione, questa, per la quale l’urbexer duro e puro odia i mezzi che hanno contribuito a fare della sua passione un fenomeno: Instagram e YouTube.
Da exploration a experience
A Hong Kong ci sono due esploratori urbani di una certa fama, nelle rare comunicazioni con i media si firmano con gli evocativissimi nomi d’arte E e Ghost. E e Ghost detestano Instagram, dicono, perché nelle immagini che si vedono lì «non c’è nessuna sostanza». Per loro l’urbex è un linguaggio a scopo narrativo, le fotografie sono racconti, hanno in spregio (giustamente) il termine “contenuti”. Come tutti gli urbexer, sono perfettamente, dolorosamente consapevoli della contraddizione che incarnano: nel momento stesso in cui mostrano un luogo abbandonato, quel luogo smetterà di essere abbandonato, verrà raggiunto da un numero comunque eccessivo di persone che lo useranno come sfondo in fotografie, come passerella in cui sfoggiare outfit post-apocalittici attentamente elaborati con lo scopo di massimizzare like ed engagement. Esattamente come per il turismo – nonostante tutte le prosopopee sull’autenticità viste, lette e sentite in questi anni – ci vuole un attimo a trasformare l’exploration in experience, i rituali in servizi, una sottocultura in un’estetica.
Con la differenza che al turista indisciplinato (mentre scrivo, sulle homepage di tutti i siti del mondo c’è la notizia di un tizio che si è lanciato tra i soldati dell’Esercito di terracotta, uccidendone un paio) la cosa peggiore che può capitare è un cazziatone, una multa salata, un Daspo. All’esploratore impreparato può succedere di farsi male, anche seriamente. Di respirare amianto, di infilzarsi con le lance d’acciaio arrugginito che sporgono dai piloni distrutti, di precipitare in un buco nascosto dal buio e dalla sporcizia. Di essere arrestato, anche (la scorsa estate l’urbex ha vissuto un inaspettato boom di popolarità in Inghilterra, tale che in nelle West Midlands la polizia è stata costretta a diramare un comunicato stampa per ricordare a tutti gli esploratori di non farsi beccare, perché se si fossero fatti beccare le conseguenze sarebbero state le più gravi consentite dalla legge).
E e Ghost passano moltissimo tempo a tra le macerie, almeno il doppio, se non il triplo, a casa a prepararsi: trovare i vestiti giusti, affittare i cavi e le imbracature, impacchettare le lenti fotografiche per evitare che si spacchino durante gli spostamenti (l’urbex è tutt’altro che economico, non è consigliabile a chi cerca un’alternativa low cost per le ferie estive). Come tutti i veri esploratori urbani, E e Ghost mantengono il sacro terrore del cartello “No Trespassing” che superano all’inizio di ogni missione. Ed è da questo sacro terrore che viene la seconda regola aurea dell’urbex, che è finalmente il momento di svelare: “never alone”, mai da soli, perché da soli il rischio è troppo. Certo, tra l’assicurarsi di non essere mai soli e ritrovarsi in mezzo a una folla c’è una notevole differenza. La stessa che c’è tra un esploratore e un turista.

La donna che viaggia da sola per ritrovare sé stessa è un luogo comune che passa per Mangia, prega, ama e arriva fino alle solo travel influencer di oggi, anche se continua a nascondere un suo lato oscuro di disagio e delusione: forse, per godersi davvero il viaggio, sarebbe meglio partire già ritrovate.