Un libro, uscito quest'estate, ripercorre il ruolo di una città ambigua, fascista nell'architettura e selvaggia nella natura, che non ha mai smesso di attrarre celebrità e vip.
Il cielo sabbioso di prima mattina è un’eco di un cielo, una nube di afa e particolato. Seduto al tavolino del bar ****, come ogni mattina da quindici anni quando sono a Napoli, alle 6.37 di un martedì di fine luglio, ascolto tre uomini anziani parlare di armi. Sono del quartiere, la loro faccia stalattitica è la carta da parati della mia infelicità. È un giorno qualsiasi. Potrei avere dieci anni in meno e guardare le impalcature che coprono le insegne della Lavanderia Anna con gli stessi pensieri di adesso. E questo per un solo motivo – i turisti non si sono ancora svegliati.
La morfologia, la plastica interna del bar, ha in realtà subìto una chirurgia invasiva. Gli arredamenti si sono adeguati alla domanda, abbandonando il legno di noce per un design più industriale. La cornetteria si è ampliata sino a inglobare non solo impasti vegani e marmellate di ogni tipo, ma sfogliatelle e altre specialità (solitamente servite in confezioni generose da portare in treno o in aereo). Un cartello appeso all’entrata avverte in inglese che la granita industriale venduta da sempre, da prima che io nascessi, è fatta con i limoni della costiera, che il pistacchio utilizzato per le farciture è immancabilmente di Bronte, un paese che non è mai esistito. Un altro ricorda che è possibile lasciare lì i bagagli per un prezzo tutto sommato conveniente. Le attività rivolte all’utenza indigena, il pagamento delle bollette, le ricariche Postepay, sono piano piano sparite. Rimangono solo il lotto e i gratta e vinci, il cui indotto, a quanto pare, può gareggiare con quello dei visitatori europei in cerca di esotismo a basso costo, che, a partire dalle 9, solitamente vestiti o con indumenti da trekking o come fossimo in una località balneare – una spiaggia diffusa – colorati e innovativi nei tagli degli abiti, che qui al Sud rimangono invariabili per la maggioranza delle persone, invadono il bar del mio quartiere, borghese e popolare, rialzato dal centro da una faticosa scalinata, ma non per questo, come credevo prima del Covid, immune alle trasformazioni radicali imposte dai flussi turistici.
Il turismo ha reso le persone professionali. Quello da cui dipende il loro guadagno è spesso la loro cortesia, la loro attenzione verso i nostri simili, visti come potenziali clienti. Il mercato è ormai nello spazio fra i corpi, nell’ossigeno che respiriamo. A Napoli la recita dell’identità, dell’altro, del folklore dell’ultimo villaggio, la tempesta neurovegetativa dell’autenticità a scopo di lucro, ha ormai lasciato spazio a un atteggiamento più produttivo, teso a ridurre gli sforzi, a una calcolata prassi commerciale. Un’intera popolazione ha trovato impiego nella catena di montaggio dell’accoglienza e inizia a palesare segni di logoramento. Nella meccanicità con cui i proprietari di casa evitano il contatto con i propri ospiti, a cui lasciano le chiavi dell’immobile in apposite cassette, è possibile percepire tutta l’ironia dei codici dell’ospitalità. Nelle voci dei negozianti c’è la stanchezza dell’ultima replica, una dose non quantificabile di insensibilità e disillusione. Lo noto quando saluto i due gestori del bar, prima sempre pronti a parlarmi della loro famiglia, ora esausti, ma con un mutuo intestato. I turisti rimangono delusi nel vederci guidare col casco, rispettare i divieti, fare la differenziata. Mi chiedo se alcuni di loro avvertano un lieve disagio misto a un brivido di irresponsabilità nel rappresentare l’unica fonte di reddito della città che visitano. Ad ogni modo, lasciano recensioni positive.
La ragazza ha un alito dolce, d’uccello. Seduto al tavolo vaglio l’amore a cui mi costringe e a cui sono ancora disposto, sopravvissuto alle numerose resecazioni. Controllo il numero di globuli bianchi nel sangue da un foglio di carta. The women come and go talking of Michelangelo, scriveva Eliot. Qui donne britanniche in sandali Teva entrano ed escono dal bar leggendo Elena Ferrante. La ragazza affonda la mandibola nella gola come un secchio in un pozzo. Non ne esce niente. I movimenti oscillatori delle sue gambe, uniti al silenzio, sedimentano l’universo delle possibilità, lo fanno diventare una struttura, una forma architettonica intensiva. Le città contengono uomini e donne che piangono nel sonno.
Negli anni Zero proteggevamo i pochi turisti che venivano in visita a Napoli, li scortavamo lungo spazi isolati, nei lapsus edilizi della città che la rendevano, d’estate, un arcipelago urbano fatto di vuoti e di pieni. Disorientati, come i primi occidentali di fronte a delle isbe, ci frapponevamo tra loro e il dolore della città, gli suggerivamo le vie da non percorrere. Adesso chi quindici anni fa li avrebbe rapinati è pronto ad affittargli casa, misura il valore della cortesia, abborda, offre, contratta. Tocca a noi, l’esercito delle riuscite intermedie, appena chiuso un articolo accattivante intitolato Spettri di Musk, sottoposto a double-blind peer review, e per cui non siamo retribuiti, spaventarli, nelle cataratte d’asfalto del centro città, indossare un passamontagna e puntare una pistola, sentire l’adrenalina della loro paura, il sudore che scende dalle tempie. Prima lezione di letterature comparate. Modulo propedeutico. I ceti medi dovrebbero pensarci bene prima di riflettere.
Alle 7.30 lascio la seduta e mi avvio verso casa, il cielo è chiaro, ma dietro gli occhiali da sole assume una luce plasma. Il vento caldo gli strappa via strati di pelle. Droni-piccione ora si levano ora si abbassano dall’asfalto elettrico. Mi viene incontro una coppia di francesi, non più giovani, non ancora vecchi. Mi chiedono se la metro che passa per Montesanto li porterà a Pompei. Gli rispondo con gentilezza.