Guardare i quadri di Anna Weyant è un po’ come entrare in una boutique vintage di lusso, dove il passato non è mai stato così ben confezionato. Al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid la sua monografica (la prima in assoluto in un museo) recupera l’eco dei maestri olandesi, le nature morte che sembrano sospese in un tempo senza data, le figure femminili che appaiono fragili e vulnerabili. Ma la vera provocazione dell’artista trentenne è questa: non sta riportando in vita il passato, sta dimostrando che il passato è diventato un’arma del presente.
Canadese, classe 1995, cresciuta tra un’educazione severa e l’ossessione per i maestri europei, Weyant ha sempre coltivato una certa allergia alla prevedibilità. Dopo la formazione alla Rhode Island School of Design e un periodo di formazione in Cina, si è trasferita a New York, dove ha rapidamente attirato l’attenzione di galleristi e critici. Uno su tutti: Larry Gagosian. Con lui, una liaison sentimentale e professionale che ha alimentato più pettegolezzi che interviste, più foto rubate che dichiarazioni ufficiali. Ma Weyant non è una favola di Cenerentola per il collezionismo contemporaneo: è piuttosto una novella Edith Wharton che osserva con sguardo chirurgico l’alta società dell’arte, tra cocktail party e colpi di martello all’asta da Sotheby’s. «Mi interessa la pittura perché è un mezzo che permette di raccontare storie complesse, a volte contraddittorie», ha dichiarato in un’intervista. «Cerco di lavorare con l’ambiguità, soprattutto con quello che non si dice».
L’arte di sembrare innocua
In un mondo dell’arte che ha bruciato ogni avanguardia, dove l’innovazione è spesso una performance di superficie, Weyant ha scelto la strategia più radicale: sembrare innocua. I suoi dipinti non gridano, non rompono, non cercano di scandalizzare – e proprio per questo destabilizzano. E così, mentre noi cerchiamo il futuro nei pixel, lei ci offre un quadro che sembra uscito da un mercatino dell’antiquariato e, paradossalmente, ci appare nuovo. Il successo che l’ha lanciata nella stratosfera nel giro di pochi anni non è solo la solita favola del talento scoperto: è il sintomo di un sistema che ha bisogno di simulare autenticità. La sua arte figurativa è un palcoscenico dove il collezionista, il curatore, il critico trovano conforto: la narrazione del ritorno all’arte “vera”, dipinta a mano, fatta di pennelli e silenzi. Ma sotto questa superficie calma, cova un’energia dirompente: Weyant sta manipolando il desiderio di autenticità per mostrarci quanto esso sia fragile, quanto facilmente diventi merce, mito, valore d’asta.

Anna Weyant, Buffet,
2020, Scantland Collection © Anna Weyant
Un sofisticato teatro di marketing emotivo
Prendiamo il suo modo di dipingere le giovani donne: non sono semplicemente malinconiche o enigmatiche, sembrano creature che hanno compreso il gioco del potere prima di noi. Nei loro sguardi c’è un’ambiguità che non appartiene al Seicento ma all’oggi: la consapevolezza di essere osservate, desiderate, valutate. In questo senso, i dipinti dell’artista di Calgary sono feroci proprio perché eleganti: non ci attacca frontalmente, ma ci lascia soli davanti a un sospetto – e se la pittura contemporanea fosse ormai un sofisticato teatro di marketing emotivo, e lei la sua interprete più lucida?
Dipingere come se TikTok non esistesse
La mostra allestita a Madrid fino al 12 ottobre accentua questo cortocircuito: accostare le sue ventisei tele a Preti, Magritte, Balthus significa rivelare che il museo non è più un tempio del passato, ma un dispositivo di narrazione contemporanea. Le opere storiche diventano personaggi di una pièce che serve a legittimare la nuova diva, mentre Weyant, in apparenza umile, li mette in scacco: è lei a decidere i ruoli, a riscrivere il copione. «Non mi interessa solo dipingere belle immagini», ha raccontato in un’intervista, «ma anche creare uno spazio in cui lo spettatore possa sentirsi un po’ scomodo, interrogato». E infatti, nel suo lavoro c’è una tensione sottile tra il desiderio di accoglienza visiva e la sensazione di essere spiati o messi alla prova. Alla fine, forse il gesto più radicale di questa seducente pittrice biondissima non è dipingere come se TikTok non esistesse, ma riuscire a vendere – a noi e al sistema – l’illusione che la pittura possa ancora salvarci dall’epoca digitale. È una promessa bella e impossibile, e come tutte le illusioni perfette, funziona proprio perché ci crediamo senza volerla smascherare. In questo gioco di apparenze, Weyant muove con la grazia di chi sa di indossare una maschera: a volte innocente, a volte fragile, ma sempre affilata come una lama. E forse è questa consapevolezza che fa della sua poetica un dispositivo di potere, in cui l’innocenza è la merce più preziosa e la seduzione più letale.