Dieci Capodanni è solo uno dei tanti motivi per conoscere Rodrigo Sorogoyen

Abbiamo incontrato uno dei più interessanti registi europei degli ultimi anni: con lui abbiamo parlato della serie rivelazione del 2025, di sentimenti, di Madrid e del desiderio di fare sempre una cosa completamente diversa dalla precedente.

01 Agosto 2025

Nel panorama cinematografico europeo ci sono, fortunatamente, voci nuove e potenti a ogni latitudine. Joachim Trier in Norvegia, le molte giovani registe di genere britanniche, il Belgio sta tirando fuori almeno una bella sorpresa l’anno e i francesi continuano a produrre bel cinema anche di esordienti. Ma la nazione che sta crescendo di più, per qualità e quantità, è senz’altro la Spagna. Tanti festival e di alto livello, da San Sebastian a Sitges a Malaga, tanto per citarne tre tra i più importanti, e tanti nuovi talenti. Tra questi, una certezza: Rodrigo Sorogoyen è un cineasta di livello mondiale. As Bestas è uno dei migliori film di questo scorcio di millennio, Il regno lo segue a un’incollatura, la cosa più bella che ha tirato fuori la serialità quest’anno è opera sua, Dieci Capodanni (è su RaiPlay, obbligatorio vederla). Nato a Madrid, «città con cui ho un rapporto difficile», come lui stesso ammette, 43 anni, Sorogoyen ha all’attivo sei lungometraggi e tanta televisione, tra cui anche un’altra serie imperdibile Antidisturbios (questa è su Disney+, come sopra). Ogni film completamente diverso dall’altro, indizio di una evidente esplorazione dell’animo umano, del mondo che ci circonda, dell’universo dei sentimenti. Tutte cose di cui ho voluto parlare con lui nel corso di una lunga e piacevole conversazione mentre era ospite della dodicesima edizione del LIFF – Lamezia International Film Festival, conclusosi lo scorso 19 luglio proprio con la sua presenza.

Rodrigo, partiamo da un elemento importantissimo del tuo cinema: i rapporti uomo donna. Dieci Capodanni è l’esempio più lampante, ma in realtà tutto il tuo cinema ne è disseminato. Come mai ne sei così affascinato?
Sono figlio unico di una coppia di genitori molto presenti che mi hanno dato anche un’intensa educazione sentimentale. Parlavano molto con me, facevo e mi facevano domande, e questa curiosità mi è rimasta, mi piace investigare questo universo, soprattutto quando dal rapporto nasce il conflitto ed è vero che c’è in tutti i miei film, da Stoccolma in poi. C’è una scena in Dieci Capodanni in cui la mamma del protagonista racconta una storia della sua relazione con il marito. Quella storia è vera, ed è personale. Una volta ho chiesto a mio padre quanto fosse durato il rapporto con mia madre. Lui ci pensa un attimo e mi dice all’incirca dieci anni. Ho fatto la stessa domanda a mia madre. La sua risposta: «Insieme? Non sono mai stata con tuo padre». Credo che questo possa spiegare come concepisco il rapporto uomo-donna.

Direi che è chiarissimo. Passiamo a un altro argomento molto importante: i generi, e la tua capacità nel fonderli. Nello stesso Dieci Capodanni l’episodio berlinese ha tracce horror, e lo stesso vale per As Bestas che è però anche una tragedia umana e molto politica. Ami molto l’azione, e la gestisci molto bene.
La tipica domanda a cui è impossibile rispondere, ma fondamentalmente, anche da spettatore, sono sempre stato poco interessato ai generi chiusi. Quindi, partendo da questo presupposto, mi diverte di più prendermi il rischio di mischiarli senza pregiudizi. Per la stessa ragione con Isabel Peña, la sceneggiatrice con cui lavoro da sempre, facciamo in modo che anche i ruoli non siano costruiti per una modalità attoriale strettamente cinematografica, che siano i più naturali possibili da interpretare, perché voglio che lo spettatore sia sempre sorpreso, dai generi che si intrecciano, e che quindi cambiano continuamente il tono del film, ai personaggi che non agiscono secondo dei canoni classici. Detto ciò, mi piace quando vedo film prettamente di un unico genere che lo sfruttano al meglio delle sue potenzialità.

Passiamo ai luoghi. Nel tuo cinema ti piace viaggiare, vedere luoghi diversi. Da dove viene questo bisogno?
È una domanda interessante, perché ti dovrei rispondere che non sono completamente d’accordo, perché Stoccolma e Che Dio ci Perdoni sono due film profondamente madrileni, città con cui ho un rapporto di amore-odio. As Bestas è ambientato in Galizia semplicemente perché il fatto di cronaca che racconta il film è realmente successo in quella ragione. Quindi era una necessità, non una scelta. Ma mentre ti dico queste cose mi accorgo che girare lontano da casa mi piace, come è stato per Madre, che abbiamo girato sulla costa francese, perché cementa il rapporto della troupe e accresce la loro affezione al film. Voglio che tutti amino quello che stiamo facendo, perché in questo modo so che tutti danno il massimo per contribuire alla riuscita, per far sì che venga fuori davvero bene. Fare un film per me è un viaggio, che faccio insieme a molte altre persone, e quando siamo lontani da casa, a dormire in albergo, a mangiare e bere insieme tutte le sere dopo il set, questo rapporto si rafforza ulteriormente. Detto ciò, se devo raccontare una storia a Madrid perché lo impone il racconto e mi piace troppo quello che c’è da raccontare, si resta lì.

Passiamo a qualcosa di molto tecnico: piano sequenza e montaggio. Fai dei piani sequenza eccezionali, soprattutto perché ci si accorge che lo sono dopo che si è già da molto dentro la scena, segno che immergi tantissimo lo spettatore nella narrazione. Ma fai anche scelte di montaggio molto classiche. Il finale de Il Regno, per esempio, vede le due cose che si susseguono: prima un piano sequenza di 13 minuti e poi un confronto campo-controcampo-totale dal ritmo serratissimo.
Amo usare tutta la grammatica del cinema, non posso dire di prediligere una cosa rispetto all’altra, sono linguaggi che amo allo stesso modo, la cosa che conta di più per me è sempre fare in modo che lo spettatore resti attaccato al racconto. Ma è vero che al piano sequenza sono particolarmente legato, perché serve a mantenere alta la concentrazione della troupe. Sono sequenze molto lunghe, che necessitano di un coordinamento perfetto, crea grande coesione e moltiplica l’intenzione espressiva della scena. È anche una scelta che faccio per contrastare il bombardamento della forma moderna dell’immagine, i montaggi velocissimi di Tik Tok per esempio. Il piano sequenza aumenta la tensione narrativa, ma sempre a patto che sia utilizzato nella giusta maniera, senza abusarne e dandogli un senso. Una serie molto celebrata quest’anno, Adolescence, a mio parere ne ha abusato, perché finisce con l’essere un esercizio stilistico fine a sé stesso che alla lunga mi distoglie dalla tensione drammatica, perché cerco di capire come sia stata realizzata, come la macchina sia stata spostata. Se dovessi dirti il mio piano sequenza più riuscito ti direi che è il piano fisso dei tre uomini che combattono nel bosco. Non c’era bisogno di muovere la macchina, il dramma era tutto nell’inquadratura, non c’era bisogno di una coreografia perfetta.

E avevi anche a disposizione tre attori eccezionali. A questo proposito, sono sempre stato dell’idea che per un regista, quando trova gli attori giusti, il 50% del lavoro sia fatto, Dieci Capodanni ne è la dimostrazione lampante. Come li scegli, e come lavorate insieme?
Potrei darti una risposta molto ampia, ma in realtà la cosa principale è molto semplice. Si deve creare subito una connessione, al primo incontro. Girare un film è una cosa complessa, devi stare molte settimane insieme, nel caso di una serie come Dieci Capodanni parliamo addirittura di sette mesi. Gli attori sono persone fragili e generose, è importante coglierne la sensibilità e l’intelligenza per poterli mettere a proprio agio nei confronti del film, della troupe e nel rapporto con il regista. E questo dipende da me, ma anche da una certa chimica. Mi è capitato di avere a che fare con attori che considero eccellenti con cui non riuscivo a creare un legame, mentre altri mi hanno sorpreso nella maniera opposta. E poi ci deve essere anche un fattore fisico, perché a me piace molto filmare la quotidianità, non mi piacciono gli estetismi superflui, quindi un attore che lavora con me deve sapere che ci sarà una componente realistica molto forte. Se hai visto Dieci Capodanni in spagnolo puoi capire quanto mi hanno dato entrambi. Lei, Iria del Río, già la conoscevo, avevamo lavorato insieme in Antidisturbios. Francesco Carril lo conoscevo da diversi anni, volevo lavorare con lui ma non c’era mai stata occasione. Insieme sono pazzeschi.

Nasci sceneggiatore televisivo, poi passi al cinema. Però tratti la televisione sullo stesso piano, non c’è differenza per te.
Sì, totalmente. Ovviamente preferisco sempre fare film per il cinema, anche per una questione romantica, l’esperienza della sala è perennemente in pericolo a causa dell’egemonia delle piattaforme, ma anche per questo per me fare cinema o televisione è la stessa cosa, devono avere la stessa cura dell’immagine e del racconto. Poi sono contento quando, come per Dieci Capodanni, viene proiettato a Venezia, o nella sala grande del Kursaal a San Sebastian, per me andrebbero sempre viste sullo schermo più grande possibile perché la grammatica è quella del cinema, non ho mai visto alcuna differenza tra i due mondi.

Ultima domanda: quando vedremo il tuo prossimo lavoro?
Ho appena finito di girare un film, si intitola El Ser Querido, ed è buffo, perché è una storia molto simile a quella dell’ultimo film di Joachim Trier presentato a Cannes, Sentimental Value. È la storia di un regista incredibilmente famoso (Javier Bardem n.d.r.) che prende come protagonista del suo nuovo film la figlia, con cui ha avuto un rapporto conflittuale sin da quando era bambina. Uscirà nei prossimi mesi.

Chi l’avrebbe detto che Dieci Capodanni sarebbe stata una delle serie dell’anno

Arrivata su RaiPlay nell'indifferenza in cui ormai tutte le serie arrivano sulle piattaforme, è stata scoperta grazie al passaparola sui social. E adesso sta piacendo a tutti, perché viola tutte le regole dello streaming.

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