Armati di pistole ad acqua, trolley e santini, i manifestanti sono scesi in piazza per tutto il fine settimana appena trascorso.
In quella bolla social crescente che sta tra l’attivismo e il content, tra la scuola di Francoforte e la mindfulness socio-performativa, la parola del momento è “ipernormalizzazione”.
Rilanciato da un articolo del Guardian a fine maggio (la Bbc in realtà fece un documentario sugli stessi concetti e con lo stesso titolo, HyperNormalisation, già nel 2016) il concetto viene fatto risalire a un testo del 2005 dello studioso Alexei Yurchak sulla vita quotidiana in Unione Sovietica, e sembrerebbe calzare a pennello ai tempi che corrono, in particolare degli Stati Uniti. Con “ipernormalizzazione”, in sintesi, si intende una scissione vissuta dall’individuo all’interno di regimi politici decadenti, dove la consapevolezza che il sistema è allo sfascio — inefficiente, corrotto, senza alternative all’orizzonte — non impedisce affatto di continuare la propria vita come se nulla fosse. Questo perlomeno in superficie, mentre sotto scorre un fiume carsico di rabbia, paura e angoscia che riemerge soltanto in contesti al limite: quando litighiamo a un semaforo, nelle chat dei genitori, su Rete4.
Cosa significa
L’ipernormalizzazione è «quella sensazione viscerale di essersi svegliati in una linea temporale alternativa, con la consapevolezza profonda, fisica, che qualcosa non va – ma senza avere la minima idea di come rimettere le cose a posto», ha spiegato al Guardian l’antropologa digitale Rahaf Harfoush, «è leggere un articolo sui bambini vittime di carestia o su un genocidio, e subito dopo scorrere giù verso una lista spensierata delle celebrità meglio vestite, o un quiz frivolo del tipo: “Che tipo di merendina sei?”».
Tutto molto vero, tutto risonante, tutto familiare. Non sorprende che il reel in cui Harfoush espone il concetto abbia accumulato milioni di views, circolando come spiega la studiosa, soddisfatta, in «gruppi di mamme, chat di amici, subreddit politici, comunità di cacciatori di sconti e perfino gruppi per le passeggiate con i cani». Chissà se tutte le persone rimaste ammirate dalle immagini del sassofonista libanese che continua il suo assolo mentre il cielo è attraversato dai missili iraniani diretti verso Israele si sono rese conto di stare ipernormalizzando.
A che serve
Non è però facile capire, esattamente, quale sia l’elemento di novità. Che internet sia un frullatore semantico dove le informazioni schizzano e si impastano senza gerarchie è un’intuizione vecchia come internet stesso, che i nostri cervelli tendano a processare la realtà in forma orizzontale è un fatto fondativo della società dei media, torniamo a Marshall McLuhan, il medium è il messaggio etc etc: la televisione vende lavatrici anche quando indaga sul Watergate, i social commerciano in dopamina anche quando commentano un genocidio, tutti gli occhi su Rafah significa in realtà quello che apparirebbe a un marziano appena sbarcato sul nostro pianeta: tutti gli occhi sullo schermo. Ma poi questa scissione tra il banale e il sublime non è forse, in un certo senso, il grande tema del Novecento, secolo che veneriamo e disprezziamo senza riuscire a liberarcene? I cristalli della belle epoque che tremano al suono dei cannoni della prima guerra mondiale, la banalità del male, Picasso e Guernica, l’avete fatto voi, Kafka, Musil, il rumore bianco di DeLillo? Non si può forse dire che su questa tensione, su questa membrana tremolante tra la placida quotidianità borghese e l’eccesso del reale del mondo sia costruita la scena più nota della letteratura americana di fine secolo, quella di Pastorale Americana in cui la piccola Merry, figlia dello “svedese” Levov, nell’idilliaco salotto borghese della casa di famiglia di Newark vede per caso, in televisione, le immagini dei monaci vietnamiti che si danno fuoco per protesta, e le fiamme dallo schermo iniziano a divorare il sogno suburbano della sua famiglia?
Così fan tutti
Ciò che è interessante, forse, è l’evoluzione speculare delle paure della borghesia che guarda nello schermo: in Philip Roth a destabilizzare era ciò che lo schermo mostrava, un moral panic come questa ipernormalizzazione riguarda la propria immagine riflessa.
È inevitabile ravvisare nel trionfo di questo ennesimo neologismo composto – come se anche la semantica denunciasse la nostra incapacità di leggere davvero il mondo nuovo, che ci illudiamo di capire ricombinando pezzi di un vecchio armamentario – un retrogusto consolatorio, se non addirittura autoassolutorio. Se mentre scoppia la terza guerra mondiale io penso al weekendino, allo svezzamento emozionale o alla passeggiata di Nerone (non l’imperatore, il labrador) non è che sono indifferente. È che sto ipernormalizzando.