Stili di vita

Cosa resterà della cucina molecolare

Anni fa sembrava l'inizio del futuro, oggi è solo una tecnica usata dagli chef: cos'ha rappresentato questa via di mezzo tra arte e scienza?

di Tommaso Melilli

C’era una cosa che qualche anno fa sembrava essere l’inizio del futuro, una rivoluzione che avrebbe sconvolto non solo la nostra idea di cucina ma anche il modo di cucinare a casa; c’erano stati scandali e levate di scudi, parodie, premi e ristoranti-laboratorio prenotati per la successiva decade. Sono passati dieci anni da quando Ferran Adrià ha vinto per la prima volta il discusso World’s 50 Best Restaurants con elBulli. Intanto elBulli ha chiuso, Ferran Adrià si è ritirato a studiare e noi ci siamo completamente dimenticati di quella storia della cucina molecolare.

Torniamo indietro, perché prima di tutto bisogna distinguere fra cucina e gastronomia molecolare: perché se la cucina è un’arte pratica, la gastronomia è una scienza: e prima della cucina molecolare è venuta la scienza. La gastronomia molecolare, molto prima di diventare una tendenza contemporanea, è una branca della fisica e i suoi padri non sono cuochi, ma scienziati, come Hervé This  e Harold McGee. La preistoria della gastronomia molecolare è lunga, ed è la storia di una battaglia tra scienza e superstizione: basti pensare che pure Artusi, a modo suo, riteneva di applicare la “scienza in cucina”. Gli obiettivi della gastronomia molecolare per come sono stati impostati all’inizio degli anni Ottanta sono da bignami del positivismo ottocentesco: costruire cibi unicamente su basi chimiche, così da risolvere la crisi energetica, eliminare gli sprechi e ovviamente la fame nel mondo.

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Un altro degli obiettivi dichiarati della gastronomia molecolare era fondamentalmente didattico: prendiamo una cosa che tutti fanno tutti i giorni (cucinare) e con i nostri consigli perfetti mostriamo alla gente quanto la scienza sia utile alla società. A casa continua a vincere la superstizione: basti pensare all’improbabile fiorire di teorie su come si fa una maionese. C’è invece un campo dell’alimentazione in cui la scienza ha vinto a mani basse contro la superstizione, ed è l’industria alimentare, che – in silenzio – ragiona, prova, riprova, scopre e vende. E qui arriviamo alla cucina molecolare come “tendenza”, perché la via di mezzo fra casa e industria è proprio il ristorante.

I propositi degli chef adepti della cucina molecolare erano però un po’ diversi da quelli dei colleghi scienziati (delle cui scoperte, in ogni caso, gli chef hanno ampiamente approfittato). Gli ingredienti, per natura, hanno una forma e una consistenza specifica: la carota è conica e croccante, la melanzana allungata e spugnosa, e così via. Fare cucina molecolare, per uno chef, significa cambiare la forma degli ingredienti in modo spettacolare: prendere del prezzemolo e trasformarlo in tante minuscole palline gelatinose, come un caviale. Per fare tutte queste cose, soprattutto le più insolite, può essere necessario aggiungere alcune polveri e alcuni acidi più o meno sintetizzati, in quantità minime: tutte cose del tutto trascurabili dal punto di vista sanitario se comparate alle nefandezze autorizzate nei cibi pronti della grande distribuzione, ma all’epoca – soprattutto in Italia – ci si agitò molto per nulla.

L’idea di trasformare le forme naturali del cibo, invece, aveva un suo fascino vero, perché la cucina, molecolare o no, è sempre e da sempre cambiamento delle forme: in fondo, il rapporto fra le foglie di prezzemolo e un caviale di prezzemolo è lo stesso che c’è fra i pomodori e il sugo. Fare cucina molecolare voleva dire dare totale libertà tecnica ai desideri di trasformazione che le generazioni passate di cuochi avevano dovuto reprimere.

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Gualtiero Marchesi aveva a suo tempo cercato di riassumere il dibattito sentenziando che la cucina è chimica intuitiva, una definizione molto suggestiva ma che non risolve il problema: significa forse che, quando smette di essere “intuitiva” (e rimane solo chimica) la cucina smette di essere cucina? Seguendo questa logica, i cuochi dovrebbero fingere di non sentire e di non sapere, e continuare a cercare, con l’istinto e le padelle, le risposte che potrebbero trovare in cinque minuti su Google o in un libro scritto bene.

Marchesi non aveva ragione, ma gli estremisti della cucina molecolare avevano sicuramente torto, perché tutto quell’entusiasmo e quell’agitazione sulla cucina del futuro si è spento nel giro di pochi anni. Massimo Bottura, che all’epoca aveva pure bisticciato con quelli di Striscia la Notizia per difendere Ferran Adrià, è diventato con la sua Osteria Francescana il primo ristorante al mondo, sempre secondo quella classifica che tanto aveva giovato alla fama del suo collega spagnolo. Come Bottura, molti grandi cuochi continuano a servirsi di tecniche “molecolari”, senza aver bisogno di dichiararsi adepti di una setta: la cucina molecolare è stata integrata, e quelle tecniche sono usate sempre di più, non solo in ristoranti stellati, e magari le avete mangiate ma non lo sapete.

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Cinque anni dopo lo scandalo di Striscia la notizia, il piatto simbolo di una delle più apprezzate neo-trattorie milanesi è un vitello tonnato che, senza dirlo a nessuno, è fatto proprio in quel modo lì. Il vitello è cotto in una sacca sottovuoto a bassa temperatura, e la salsa tonnata è montata con un sifone freddo, come una crema chantilly: si dice che sia il miglior vitello tonnato di sempre, e nessuno pare essere minimamente turbato.

Ferran Adrià e gli altri facevano caviali di prezzemolo, carote fatte di anatra, e maionesi con l’acqua al posto dell’olio. In fondo, forse, lo facevano soprattutto perché non resistevano all’idea di esserne capaci, e noi a casa non resistevamo all’idea che qualcuno ne fosse capace, oppure lo trovavamo scandaloso, che poi è lo stesso. Poi ci siamo abituati all’idea.

Nell’alta cucina contemporanea, nel frattempo, è arrivata la nuova tendenza: i grandi chef non vogliono più cambiare la forma delle cose, ma preferiscono produrseli da soli: i grandi ristoranti, oggi, tendono tutti verso il sogno di una cucina in cui tutti gli ingredienti sono prodotti dal ristorante stesso, nei propri orti, e nelle proprie fattorie: l’immagine dello chef-scienziato è stata surclassata da quella dello chef-ortolano e allevatore, che accarezza oggi giorno i suoi cavoli e le sue erbette e guarda negli occhi gli animali che servirà. L’estetica dei piatti, che nella cucina molecolare tendeva verso l’arte astratta, imita sempre di più la natura, detesta la geometria e fa vedere le cose per la forma che hanno. E a noi, forse, interessa meno mangiare della carne di maiale a forma di carota, ma andiamo al ristorante proprio per vedere che una carota è una carota.