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Quando abbiamo smesso di telefonare?

Ricordando il telefono fisso, la cui scomparsa dalle nostre case coincide con la fine di tutto un modo di comportarsi e comunicare.

di Letizia Muratori

A phone set is displayed at the Massilia Vintage international fashion and design fair in Cagnes-sur-Mer, southeastern France, on September 26, 2015. The 14th edition of the Massilia Vintage fair, dedicated to the years between 1920 and 1980, runs until September 27. AFP PHOTO / VALERY HACHE (Photo credit should read VALERY HACHE/AFP/Getty Images)

“Mai all’ora dei pasti, mai dopo le nove di sera”: se fosse un indovinello la soluzione non sarebbe così immediata per un millennial, mentre il resto dell’umanità, almeno quella educata all’antica, conosce la risposta: è l’abicì del galateo ai tempi del telefono in casa, fisso. Qualche giorno fa Alexis C. Madrigal ha dedicato a questo argomento un articolo il cui succo è: non solo il telefono non esiste quasi più nelle nostre case, dunque tutto un modo di comportarsi e di comunicare è scomparso, ma nel caso in cui resista e ci sia ancora, è un mezzo di raccolta dati e di promozione, spesso invasivo, da cui tocca difendersi.

L’analisi del passato telefonico casalingo condotta da Madrigal è divertente e acuta, specie quando ricorda la fretta, l’urgenza, quel clima di concitazione generale che invadeva l’ambiente già al primo squillo: allora perdere una telefonata significava perderla per sempre, non sapere chi aveva chiamato e perché. Al tempo stesso – aggiungo io – precipitarsi a rispondere significava anche non darla vinta alla pigrizia. L’uso del telefono, in ambienti molto perbene, era strettamente legato a una morale di stampo scoutistico, quasi militare: bisognava scattare allo squillo, rispondere, ricevere e comunicare solo lo stretto indispensabile, infine riagganciare sempre con un filo di soddisfazione. Viceversa stare le ore al telefono, magari distesi sul letto, era disdicevole, roba da donnette fatue e sfaccendate o da adolescenti con turbe. La mia famiglia, intendo il ramo femminile, ha combattuto una lunga battaglia contro i pregiudizi perbenisti, moralisti e maschilisti anti conversazione telefonica. Essere donne, e fiere di essere donne, significava anche fregarsene degli sguardi censori e giudicanti, continuando imperterrite conversazioni fertili, quanto futili. La battaglia l’abbiamo vinta a sorpresa e, come spesso capita, su un fronte inatteso: i fautori della comunicazione telegrafica al fisso, i bacchettoni di: “io, per carità, ci sto pochissimo, solo l’indispensabile”, da un certo momento in poi hanno preso a parlare ininterrottamente al telefonino.

Austeri signori si sono abbandonati al vizio senza remore, come bambini. Ho un ricordo nitido e rivelatore che risale all’estate del 2001: mio zio, uno di quei soggetti che piantavano il feroce lucchetto sul telefono a disco, ciondolava sotto un sole cocente, ai margini di un parcheggio vicino alla spiaggia, stava chiacchierando al telefonino con sua moglie, nientemeno. Suo malgrado e senza opporre resistenza si era lasciato traviare da quel genere rintontito e ingenuo di comunicazione, tipico delle origini della telefonia mobile: “Che fai? Come va? Mi senti? Io sto arrivando, butta la pasta”.

La repentina trasformazione antropologica da incorruttibili “lucchettari” a maniaci del cellulare, per me rimane un mistero: c’entrava il senso pieno di possesso, l’innovativa “tascabilità” del mezzo? (Il cordless, diciamoci la verità, non ha mai funzionato: era sempre scarico). C’entrava l’effetto protesi? Al contrario, perdere tempo con quell’estraneo in casa, ovvero il telefono fisso, era illecito, scabroso? Voglio dire che l’estraneo non era tanto, o eventualmente, la persona dall’altra parte, ma l’oggetto stesso, mentre il cellulare esordiva sulla scena con quel suo specifico tratto servile, apparteneva alla tasca di un padrone, e infatti non era più la casa a rispondere: “Pronto casa Tal dei Tali”, ma l’individuo stesso, in movimento, sempre attivo, lontano dal sospetto d’essere giudicato un ozioso animale da interno. Da anni mi interrogo su questa svolta, solo apparentemente minore, e sono ormai fuori tempo massimo perché la conversazione al cellulare e diventata anch’essa un fossile.

L’estraneo in casa – o l’apparecchio, come lo chiamava mia nonna e tutta la sua generazione, parliamo del ’15 – dagli anni del boom in poi era spesso collocato in un disimpegno a metà strada tra la cucina e l’ingresso, forse qualcuno ricorderà che quell’ambiente si chiamava office anche fuori dalle pagine di una rivista d’arredamento. Ai tempi dell’office c’erano diramazioni telefoniche, e conseguenti apparecchi, anche nelle camere da letto, sui comodini, ma almeno fino ai tardi anni Ottanta resisteva una rigida gerarchia e l’apparecchio che svettava nell’office era quello ufficiale, l’esemplare che la Sip ti dava in dotazione. S62 grigio, il classico a disco, era il sovrano indiscusso della casa che risponde, mentre già Grillo da me adorato per via di quel verso, come di cicala col volume abbassato, che produceva girandolo – era destinato alle retrovie, un cadetto, un po’ vanesio. Con gli anni il disco è stato sostituito dai tasti e via dicendo, le matite sono scomparse dalle vicinanze del telefono, in compenso tutti premevano il tasto “redial” perché l’effetto della ricomposizione accelerata del numero era piuttosto gradevole come un solletico cerebrale.

Il fisso era uno strumento tosto, un osso duro, che pure andava soggetto a strane malattie come il contatto, o l’isolamento. A molti, tra noi vecchi, sarà capitato di temere o di ascoltare un contatto, o di alzare la cornetta realizzando che il telefono era ancora isolato, infine di gridare come forsennati: “attacca!” quando dall’altra parte del filo qualcuno aveva riagganciato male la cornetta. Chi, poi, non ha temuto l’arrivo di una bolletta (salata, si diceva così) quanto quello di una pagella. C’erano gli scherzi telefonici, le cosiddette mute, e l’anonimato garantiva alla casa che risponde una suspense oggi impensabile. Da certi angoli polverosi spuntavano elenchi impilati, le pagine gialle, ti tenevano compagnia gli scarabocchi sulle vecchie rubriche, ci ripassavi sopra con la penna, era tutto un universo fatto di carta e pensieri svagati che prendevano forme geometriche e floreali.

I telefoni delle ditte commerciali erano celesti e neri, bellissimi, cugini primi dei registratori di cassa. Insomma, la lista delle sparizioni da raccontare ai nipotini sarebbe ancora lunga e un po’ straziante, ma non è tanto decoroso versare lacrime su un Grillo, mentre è utile svelare il rimpiazzo: non è vero che il telefono fisso è scomparso senza lasciare eredi, la necessità di un punto di diffusione puramente vocale, dove l’immagine non ha chance di farsi notare, è di nuovo, dopo anni, la radio. Senza più telefono fisso, non basta il televisore, o qualsiasi schermo, c’è bisogno ancora d’aria sonora che circola, di voci intrusive. Mi sbaglierò, ma il ritorno massiccio delle radio accese in casa, e non solo in macchina, è connesso alla sparizione del telefono fisso. Ovvio che è diverso l’uso, l’ascolto prevale sulla conversazione, va bene. Ma è il desiderio di qualcosa che arriva da fuori e si diffonde a partire da un punto specifico nello spazio che conta. Chi mai direbbe: la mia radio, a meno che non se ne stia andando di casa? La radio è la radio, senza padrone, esattamente come il vecchio telefono, hanno molto in comune.

Tornando al galateo, quel che resta della comunicazione via linea fissa va comunque aggiornato, pur nella sua marginalità. “Mai ore pasti” andrebbe sostituito con: evitare di sbattere il telefono in faccia a un operatore promozionale: non c’è bisogno di dare in escandescenze. Nel caso delle registrazioni vocali: ricoprirle di insulti è ridicolo. Concludo con una nota che vale per tutte le categorie, fisse e mobili. Ascoltando: “Questa telefonata verrà gestita dall’Italia” si consiglia di riagganciare all’istante. Capisco tutto, capisco le truffe, e capisco che il marketing debba tener conto anche delle leggende metropolitane su streghe albanesi che si rivendono i tuoi dati e ti rubano due euro dal credito, capisco, ma c’è un limite: quando il razzismo sciovinista diventa pacifico, istituzionale, e serpeggia beato in quella presunta gestione italiana, allora è bene chiudere la conversazione.

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