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Anche quest’anno, il solito Tommaso Debenedetti ha diffuso la solita fake news sull’improvvisa morte del vincitore del Nobel per la Letteratura L'autodefinitosi «campione italiano della menzogna» prosegue così la sua lunga striscia di bufale a tema letterario, stavolta la vittima è László Krasznahorkai.
ChatGPT ha lanciato il suo browser con il quale vuole fare concorrenza a Google Chrome Si chiama Atlas, integra l’AI sin dalla barra di ricerca e aspira a insidiare il primato del web browser più utilizzato al mondo di Chrome.
Per due volte la Rai ha prima annunciato e poi cancellato la trasmissione di No Other Land e non si sa ancora perché È successo il 7 ottobre e poi di nuovo il 21. Al momento, non sappiamo se e quando il film verrà reinserito nel palinsesto.
A causa del riscaldamento globale, per la prima volta nella storia sono state trovate delle zanzare in Islanda Era uno degli unici due posti al mondo fin qui rimasto libero dalle zanzare. Adesso resta soltanto l'Antartide.
È uscita una raccolta di racconti inediti di Harper Lee scoperti nella sua casa di New York dopo la morte Si intitola La terra del dolce domani e in Italia l'ha pubblicata Feltrinelli.
A Teheran hanno inaugurato una stazione della metropolitana dedicata alla Vergine Maria La stazione si chiama Maryam Moghaddas, che in persiano significa proprio Vergine Maria, e si trova vicino alla più grande chiesa della città.
Cercando di uccidere una blatta, una donna in Corea del Sud ha scatenato un incendio in cui è andato distrutto un appartamento ed è morta anche una persona La donna ha usato un lanciafiamme fatto in casa con un accendino e un deodorante spray. La sorte della blatta al momento non è nota.
Si è scoperto che l’AI viene usata anche per produrre poverty porn, cioè immagini piene di stereotipi sulla povertà utilizzate poi nella campagne di sensibilizzazione Si trovano in vendita sulle piattaforme di foto stock, costano poco, non danno problemi di licenza né di consenso: è per questo che sono sempre più diffuse.

La La Land, il ritorno del Cinema

Il film di Damien Chazelle non è solo nostalgia, ma anche la riscoperta della bellezza di andare al cinema in un'epoca in cui il cinema sembrava diventato un'altra cosa.

19 Gennaio 2017

Tra le tante meraviglie di Bright Lights, lo struggentissimo documentario su Debbie Reynolds e Carrie Fisher appena andato in onda su Sky, si scopre (cioè: io ho scoperto) che la prima era una collezionista di cimeli hollywoodiani. Negli anni aveva accumulato le scarpette rosse di Dorothy del Mago di Oz (tenute sul camino come un’urna sacra), il vestito di Marilyn di Quando la moglie è in vacanza, gli smoking di tutto il Rat Pack, e così via. Per saldare un po’ di debiti, era stata costretta a metterli all’asta, che dispiacere. Reynolds è la protagonista di uno dei film che in modo più apparentemente romantico e velatamente spietato raccontano Hollywood dall’interno: Cantando sotto la pioggia di Stanley Donen e Gene Kelly. Cantando sotto la pioggia è uno dei titoli con dentro più Cinema (maiuscolo) della storia del cinema. È al decimo posto nella lista dei migliori film americani di tutti i tempi stilata dall’American Film Institute. È ovviamente il primo in quella dei musical. È pure il film preferito di Cliff Stern/Woody Allen in Crimini e misfatti: «[Ne possiedo] un’ottima copia in 16mm. La passo ogni paio di mesi per tirarmi su il morale», dice a Halley Reed/Mia Farrow.

La storia di Debbie Reynolds – e quella di sua figlia Carrie Fisher, che appena maggiorenne diventerà la principessa Leia di Star Wars – è quella della Hollywood degli anni d’oro, o quantomeno la Hollywood degli anni d’oro che abbiamo in testa: le ville, gli scandali (Eddie Fisher lasciò Debbie per Liz Taylor, poco saggio averla come amica di famiglia), i film più-grandi-della-vita di cui si tiene il poster incorniciato: Todd, l’altro figlio di Debbie, li ha ancora tutti religiosamente appesi in salotto, quelli della madre e quelli della sorella. C’è una parola facile per dire tutto questo: nostalgia. Sarebbe ingeneroso e finanche stupido liquidare La La Land, nelle sale dal 26 gennaio, come una pur preziosa sfilata di memorabilia. Ma la tentazione per molti è forte: che nella stagione 2016-2017 esca un musical così sfacciatamente classico non era affatto scontato.

Nel film di Damien Chazelle con Ryan Gosling ed Emma Stone, già record di premi agli ultimi Golden Globe e cavallo su cui puntare ai prossimi Oscar, c’è tutto quel che ci si aspetta: il tip tap su sfondo di panchina, lampione e luce rosa del tramonto (lei addirittura si porta le scarpette da ballo nella borsa, se le cambia a tempo di musica giusto prima del numero). C’è l’ouverture orchestrale con piano sequenza pirotecnico, il duetto al pianoforte, la ballata-monologo strappacuore, le amiche che si vestono per la festa a passo di musica come fossero dentro West Side Story. C’è tutta la nostalgia per il Cinema che fu: Mia/Emma Stone ha come carta da parati in cameretta il faccione di Ingrid Bergman nel poster di Casablanca; Sebastian/Ryan Gosling per il primo appuntamento la invita a vedere Gioventù bruciata in un vecchio cinema di Los Angeles, e dopo decidono insieme di andare in una delle location appena viste sullo schermo: l’osservatorio del Griffith Park (segue valzer in volo tra le stelle).

Al netto dei tantissimi omaggi (c’è una sequenza pittorico-parigina che è Un americano a Parigi paro paro), è sbagliato considerare La La Land alla stregua di una lussuosa asta di cimeli. Dentro ci sono due sfigati di oggi, con le illusioni e le frustrazioni del nostro tempo, anche se non vengono mai nominate le storie di Instagram. Il punto, se mai, è un altro. Nell’epoca in cui nei salotti si usa molto dire “le serie tv sono il nuovo cinema”, “oggi gli studios si chiamano Netflix e Amazon”, “i finanziamenti li danno solo ai supereroi da multisala, gli autori devono trasferirsi altrove: adesso pure i fratelli Coen faranno un telefilm”; ecco, in quest’epoca precisa, che il film dell’anno sia un titolo che trasuda Cinema – e che solo sullo schermo del cinema può nascere, per miracolo e per magia – è un fatto piuttosto inatteso. Pubblico e critica sono giustamente unanimi nel gridare al capolavoro, “questo film resterà nei decenni a venire”, eccetera. E, a riprova di quanto La La Land possa vivere solo dentro le sale, sanno di cinema pure le voci dei pochi detrattori: Elon Rutberg, collaboratore stretto di Kanye West, lo ha definito «un film fascista, un atto di devastante naïveté in un periodo storico che richiederebbe invece riflessione, lucidità e pensiero critico». La stessa critica che i giovani autori muovevano al cosiddetto “cinema di papà”, che intratteneva, patinava, non si schierava: gli stessi autori che poco dopo l’avrebbero riabilitato. Quel cinema di cui faceva in fondo parte pure Cantando sotto la pioggia, il cinema dei vestiti che si sollevano con l’aria della metropolitana, il cinema di Debbie Reynolds.

Sulla carta La La Land ha vittoria facile agli Oscar. I votanti dell’Academy sono tendenzialmente dei vecchietti che con Stanley Donen andavano a colazione (sempre meno, considerata la moria delle vacche degli ultimi tempi, ma la media anagrafica resta alta). Il problema viene se mai dai nuovi ingressi, dalle minoranze etniche (per semplificare) accolte dall’Academy dopo lo scandalo dell’altr’anno noto come #OscarSoWhite. Le neo-assunte quote rosa, lgbt, nere, ispaniche, asiatiche, vegane, celiache, i feticisti del piede, i domatori di pulci eccetera sono l’ago che potrebbe determinare il verdetto del 26 febbraio. Per loro La La Land sarà troppo nostalgico? Troppo bianco? Troppo fascista? Il titolo che più di tutti rischia di scippare la statuetta di miglior film al musical di Chazelle è Moonlight di Barry Jenkins, romanzo di formazione ambientato nel ghetto afro di Miami con furbissima aggiunta di tossicodipendenza e omosessualità, un concentrato di decrepito “Oscar material” che alcuni troveranno però molto moderno: è girato come un video di Lemonade di Beyoncé. Dall’altra parte però c’è il Cinema. Vedremo chi vincerà, nell’anno in cui abbiamo riscoperto la bellezza di alzarci dal divano, sederci in una sala e sognare, foss’anche solo grazie a un paio di scarpette rosse.

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