Stili di vita

Decollo, ansiolitici, atterraggio

Paura di volare e come combatterla, nel libro Skyfaring del pilota di Boeing Mark Vanhoenacker.

di Davide Coppo

Un aereo decolla da Las Vegas nel 2005 (Ethan Miller/Getty Images)

In treno

Sono le quattro e mezza di notte quando mi sveglio, dopo un sonno durato quattro ore circa. Faccio una colazione veloce con due albicocche dopo aver spento tutte le sveglie, una ogni 5 minuti, che ho programmato per un’intera ora. Non riesco a svegliarmi del tutto nemmeno dopo la doccia, esco e cammino lento verso la stazione, a dieci minuti da casa mia. Rimpiango, ovviamente, una sveglia così affondata nella notte, ma mi ripeto, per l’ennesima volta, che non c’erano alternative: il treno più conveniente per Parigi, da Milano, parte alle sei.

A Parigi, la sera, incontro alcuni amici. Mi chiedono: come sei arrivato? In treno, rispondo. Come ogni volta che racconto a qualcuno che a Parigi, io, ci vado in treno, mi guardano perplessi. Ho imparato ad anticiparli: spiego che sette ore di viaggio su rotaia non sono poi molte, se comparate a quelle, complessive, che dovrebbero portarmi da casa all’aeroporto, poi al terminal giusto, all’imbarco, all’attesa per la partenza, all’attesa per la discesa, per il ritiro del bagaglio, e dall’aeroporto – nello specifico il De Gaulle, o ancora peggio, Orly, entrambi piuttosto scomodi – in città. Infine, dalla città all’appartamento in cui vengo ospitato. Immancabilmente, i miei calcoli – recitati con una cadenza e uno snocciolamento di dati oramai rodati – sortiscono un effetto di approvazione: beh, sì, in effetti. Aggiungo altre due colonne a sostegno della mia tesi: che il viaggio di sette ore su un treno, ancorché leggermente scomodo, è estremamente produttivo, perché sono sette ore da dedicare alla lettura o alla scrittura. E che, quando la tratta Torino-Lione sarà completata in alta velocità, le sette ore si ridurranno, probabilmente, a cinque, addirittura forse quattro. Ergo, della futura, immancabile, superiorità del treno sull’aereo. Queste sono tutte cose vere. Poi c’è quello che non dico: che il motivo principale per cui non prendo l’aereo è che ho paura di volare.

La vista dall’oblò di un volo tra Londra e Atene (Oli Scarff/Getty Images)

Aviofobia

Per questo, ho deciso che queste sette ore di treno sono il momento ideale per leggere quello che è stato giudicato uno dei migliori libri del 2015: Skyfaring – A Journey with a Pilot (Knopf), scritto da Mark Vanhoenacker, senior first officer di British Airways, scrittore per testate come New York Times e Slate tra le altre. Brevemente, Skyfaring è una dettagliata descrizione della vita di un pilota, anzi, del pilota Mark Vanhoenacker, zeppo di informazioni sulla natura del volo, sulla sua fisica, curiosità sulle rotte, sugli aeroporti, ricordi di Vanhoenacker bambino, adolescente, adulto, pilota.

Non ho paura di volare da sempre. Non so quanti anni siano, non lo ricordo esattamente, ma credo meno di dieci. Prima volavo senza problemi, così senza problemi che volavo senza nessun entusiasmo, anzi con indifferenza, come se quelle ore allacciato a un sedile di un aereo fossero una noiosa e necessaria parentesi tra il lasciare la mia città e l’atterrare in un altro posto: Londra, Città del Messico, Ibiza, Roma. A un certo punto, ho iniziato ad averne paura. La paura di volare è una delle paure più comuni del mondo, ma i dati – considerati i confini poco decifrabili della paura – sono poco precisi: circa il 30 per cento degli americani soffre di forte nervosismo riguardo il volo, mentre circa il 6,5 per cento parla di fobia (non è poco: sono 20 milioni di persone nei soli Stati Uniti). Altri studi affermano che qualcosa che potremmo chiamare “fastidio” verso il volo, o “nervosismo” o “non entusiasmo”, affligge il 40 per cento della popolazione mondiale (anche se direi: della popolazione mondiale che può permettersi di pensare di salire, un giorno o più volte nella vita, su un aeroplano). La paura di volare, o aviofobia, ha molte sfaccettature. Può essere paura che l’aereo si schianti, ed è la più comune; c’è la claustrofobia che si traduce in paura di stare in un aeroplano; la paura delle altezze; la paura di non avere il controllo della situazione; la paura di avere paura, cioè di attacchi di panico in alta quota; la paura di attacchi terroristici, rapimenti e dirottamenti. La paura di volare, insomma, è spesso un sintomo, anziché una vera e propria malattia.

Per quanto mi riguarda, la paura di volare deriva principalmente dalla paura di morire, e in parte dalla sensazione di non essere in controllo. Ma c’è di più. Molte recensioni – ne ho lette, prima e dopo aver terminato io stesso la lettura – parlano del libro come di un «manuale di volo» che «spiega, in modo chiaro, i fascinosi aspetti tecnici del volo commerciale» e ancora di uno «splendido lavoro fatto di osservazione, pensiero, espressione». Altre, in modo diverso, parlano di Vanhoenacker come di un Henry David Thoreau dell’aria; di una visione «inaspettatamente poetica e romantica», di un libro «poetico», di «un’ode alle meraviglie del volo». Il bello di alcuni libri, dei libri particolarmente riusciti, o forse il bello degli esseri umani e di quel detto secondo cui il mondo è bello perché vario (d’opinioni), è che ognuno vede la bellezza in un punto leggermente diverso dal suo vicino. Per me, ad esempio, Skyfaring non è affatto un libro poetico, né romantico, né pieno di fascinazioni e odi.

Quello che c’è di poetico, in Skyfaring, è l’argomento: il volo. È poetico, fascinoso, perché beh, insomma, il concetto di volare è così assurdo anche oggi, per milioni di persone, che non può non esserlo. Ho riflettuto molto sulla mia paura del volo (a proposito: prendo comunque e regolarmente aerei per viaggiare, con piccoli accorgimenti: sedativi, ansiolitici, alcol): credo derivi dal mio scetticismo sulla natura del volo, e dal senso di meraviglia che ancora mi colpisce. È un mix tra anti-scientismo ed estrema razionalizzazione, così estrema che “fa il giro” e scade nell’irrazionale, un pizzico di ignoranza e una grande fascinazione. Insomma: non mi spiego come possa fare un Boeing 747 da 400 tonnellate a sollevarsi da terra e rimanere nell’aria. La risposta la so: i motori, l’aria stessa, le spinte verticali, la fisica. Tuttavia, ne sono così meravigliato da esserne spaventato. Come un cavernicolo di fronte al fuoco? Sì, più o meno.

La vista dall’oblò di un volo tra Londra e Atene (Oli Scarff/Getty Images)

Viaggiare informati

L’aria, d’altronde, non è vuota. Qui Skyfaring si rivela particolarmente utile (nel frattempo, superata Lione, il Tgv accelera fino a trecento chilometri l’ora, e io mi trovo nell’ultimo vagone e mi chiedo quale sia il posto migliore per sopravvivere in caso di deragliamento ad alta velocità), e svela la sua natura di libro informativo. Un cono d’aria alto fino alla stratosfera, del diametro di una pupilla, pesa poco più di un chilo. Lo stesso cono, del diametro di un metro e mezzo, ne pesa centinaia. È questa la forza del libro: raccontare il mondo aereo, sospeso sopra la terra, che è un mondo completamente diverso da quello qui sotto, che vive senza staccare i piedi da terra. I confini, ad esempio, non sono quelli che conosciamo noi: gli stati hanno altri nomi: la zona aerea dello stato di Washington si chiama Seattle; Washington, per un pilota, è un’enorme porzione di America intorno all’omonima città, dalla parte opposta del continente.

Per spostarsi da stato a stato anche gli aerei devono seguire delle strade. Si chiamano waypoint e hanno nomi buffi inventati in base alle peculiarità culturali delle città che sorvolano. Sopra Boston, così, ci sono i waypoint PLGRM, a ricordare la sua storia, o LBSTA, che ne ricorda la tradizione culinaria. Se passate dalle parti di Kansas City state probabilmente volando in uno tra i waypoint BARBQ, SPICY, SMOKE, RIBBS. Le nazioni, le loro vere geografie, esistono in una forma distorta. Il Belgio, per un pilota, non è nient’altro che «a fifteen-minute country».

Le curiosità: nel mondo ci sono molte zone sopra cui non è possibile volare, e sono, generalmente, zone densamente abitate o pericolose per circostanze belliche. Molte di queste zone, tuttavia, non sono del tutto no-fly: sopra una certa altezza è possibile attraversarle. C’è un’eccezione, e si trova in India, vicino a Mumbai. Si chiama Tower of Silence. È un piccola porzione di terra occupata da una struttura in cui i membri della comunità Parsi, seguaci del Zoroastrismo, mettono in pratica la “sepoltura celeste”, vale a dire l’abbandono dei corpi dei morti, destinati a essere consumati dagli avvoltoi. La Tower of Silence non ha un “tetto aereo” sopra il quale passare: non finisce mai.

Poi c’è la strana vita del pilota. Non, ad esempio, il problema del jet-lag: un pilota raramente sposta le lancette dell’orologio adattandole al fuso orario dei diversi paesi che visita, spiega Vanhoenacker. Preferisce dormire seguendo i suoi naturali cicli di sonno e veglia, anche se questo significa non vedere, per alcuni giorni, la luce del sole. Il suo destino, comunque vada, è quello di tornare in cabina di pilotaggio. Piuttosto, il pilota soffrirà di place-lag: lo straniamento di passare, nel giro di poche ore, da Londra a Riyad, e successivamente a Hong-Kong o Los Angeles.

La vista dall’oblò di un volo tra Londra e Atene (Oli Scarff/Getty Images)

Le paure degli altri

Considerata la grande diffusione di aviofobia, in forme lievi e meno lievi, nella popolazione mondiale, è naturale che si sia sviluppata, negli ultimi anni, una nuova e massiccia branca della psicologia che si propone di guarire o alleviare questi particolari sintomi. Uno dei massimi esperti in materia è il professor Robert Bor, lui stesso pilota, autore di più di 30 libri tra cui il best-seller Overcome your fear of flying. Intervistato dal Guardian nel dicembre 2014, Bor ha individuato il 2001 come l’anno “chiave” dell’esplosione dell’aviofobia. La causa, ovviamente, è l’Undici Settembre. Per la prima volta nella storia, milioni di persone hanno assistito, in televisione, in diretta o in un’immediata differita, allo schianto di due aerei di linea pieni di passeggeri. Si sono immedesimati in quelle persone sedute, vista finestrino, con Manhattan sempre più vicina – ma prive di una vista frontale – che sono rimaste vive fino al momento x, quello dell’impatto. Dopodiché, il nulla.

Le misure anti-terrorismo degli aeroporti, aggiunge Bor, spesso non fanno altro che peggiorare le ansie e le paure di chi ne soffre: sono un costante reminder di tutti i possibili rischi che stiamo affrontando, ovvero di tutte le possibili trovate di un terrorista per rendere il meno piacevole possibile la tua vacanza al mare.

Per me non è mai stato così: la mia paura di volare non è legata alla possibilità di un dirottamento, è di natura più semplice e più, credo, stupida. Il decollo, soprattutto: guardo fuori dal finestrino e la velocità mi sembra troppo bassa, troppo lontana dal V1 che permette il sollevamento dal suolo. Invece l’aereo si alza. Da questo momento, prima di essere in alta quota, in cui non si vede altro che l’azzurro del cielo e il bianco delle nuvole, aspetto con ansia il segnale: che la gravità faccia il suo lavoro, e sbatta l’aeromobile giù per terra. Al contrario accade con l’atterraggio. Stiamo andando troppo veloci, mi dico, non freneremo mai. Oppure: le ali stanno ondeggiando troppo, toccheranno di certo la pista prima del carrello. Naturalmente, non è mai accaduto.

Le turbolenze, certo. Il momento in cui io, come milioni di altri passeggeri nel mondo, fisso gli occhi sugli steward o sulle hostess, in cerca del minimo cenno di preoccupazione su quei volti inespressivi e così esperti. Credo anche di essere una delle poche persone che presta attenzione alle noiose procedure pre-partenza mostrate dagli assistenti. Controllo la posizione delle uscite di sicurezza, mi immagino il movimento più veloce per slacciare la cintura, valuto le eventualità. Mi trovo anche a osservare le persone intorno a me, chi potrebbe ostruire la salvezza e chi invece, più in forma, potrebbe essere un aiuto.

La vista dall’oblò di un volo tra Londra e Atene (Oli Scarff/Getty Images)

Non puoi diventare un pilota

Joanna Burke è una celebre storica neozelandese. Si è occupata del tema della paura nel libro del 2006 Fear: a cultural history. Sempre sul Guardian, dice, ha individuato il vero motore della paura di volare. È una tesi con cui mi trovo d’accordo, e in cui ritrovo anche la mia esperienza. Al cento per cento. Spiega: «È la paura della passività. Il grande mito di questa era è l’auto-determinazione. Nell’aria, a chilometri da terra, ognuno di noi è affidato alla tecnologia, alla natura, e a un altro essere umano».

Insomma, essere in balia di una tecnologia che non siamo in grado di capire. Di cui non conosciamo il funzionamento, e di conseguenza il non-funzionamento. Le statistiche sull’indice di mortalità non cambiano nulla. È uno dei motori principali di qualsiasi paura: immaginare tutti i modi in cui qualcosa può andare male, e cercare indizi per avvallare le tesi create. Mark Vanhoenacker cerca, in Skyfaring, di calmare queste ansie illustrando la routine, la tranquillità con cui esegue, ogni giorno o quasi, un decollo, un atterraggio, un volo transoceanico. Quello che non dice è che è lui che esegue il decollo, l’atterraggio, il volo. È lui che ha il comando della macchina, è lui che sa come funziona.

Skyfaring è uno splendido libro, come un documentario sulla vita di un pilota. Ma non ti fa diventare pilota: ti fa rimanere il passeggero che guarda da un oblò. Ed è il motivo per cui continuerò a viaggiare in treno, quando possibile. Anche perché sì, quanto è bello il mondo visto dall’aereo. Ma anche passare sul Lac du Bourget, a pochi chilometri all’ora, e vedere quanto la terra è grande, anziché piccola, e densa, anziché vuota, ha i suoi vantaggi.