Jon M. Chu ha sempre saputo che Wicked sarebbe diventato un blockbuster

Ci ha messo 20 anni a realizzare il film dei suoi sogni, che adesso è in cima al botteghino italiano, americano e mondiale. Lo abbiamo incontrato e ci ha raccontato della sua passione per il teatro, del ristorante dei suoi genitori e di quella volta che incontrò Spielberg.

24 Novembre 2025

Il 19 novembre nelle sale italiane è arrivato Wicked – Parte 2, distribuito da Universal Pictures. Nel giro di pochi giorni, ha incassato più di 1.5 milioni di euro e raccolto 196 mila presenze (fonte: Cinetel). Intanto, negli Stati Uniti, ha superato i 150 milioni di dollari, raggiungendo un totale in tutto il mondo di più di 226 milioni di dollari (fonte: Box Office Mojo). Molto probabilmente, nei prossimi giorni, continuerà ad andare bene. In alcuni mercati, anzi, sarà persino in grado di crescere. Al di là di queste considerazioni, la cosa più incredibile è la rapidità con cui Wicked – preso come unico blocco, primo e secondo atto insieme – è riuscito a diventare un film cult. O almeno, un film amatissimo da un certo tipo di pubblico, che non coincide esattamente e solamente con gli appassionati di musical, ma che è molto più grande.

È un fenomeno, Wicked. E lo è per diverse ragioni. Innanzitutto per la storia che racconta, per il mondo che esplora, Oz, e per le sue due protagoniste interpretate da Cynthia Erivo (Elphaba, la Perfida Strega dell’Ovest) e Ariana Grande (Glinda, la Buona Strega del Nord). Soprattutto, però, lo è per i temi che affronta: l’amicizia tra queste due persone che apparentemente non potrebbero essere più diverse e che invece riescono a riconoscersi l’una nell’altra. Per Jon M. Chu, il regista di entrambi i film di Wicked, poter lavorare a questa storia è stata un’esperienza importantissima, che ha definito in molti modi non solo la sua visione come regista ma pure la sua identità come individuo. Se fa film, spiega Chu, è per provare a tenere insieme due anime: l’intrattenimento più puro e una sincerità capace di parlare alle persone. L’arte, dice, può e talvolta deve essere politica.

Ricordi la prima volta in cui hai considerato la possibilità di fare un film di Wicked?
Mi ricordo quando ho visto lo spettacolo, prima ancora dell’arrivo a Broadway. Lo stavano mettendo in scena a San Francisco. E mi ricordo l’impatto che ha avuto su di me, la potenza di quell’esperienza. Mi ricordo che sono andato a vederlo durante il mio primo anno di scuola di cinema con mia madre, dopo molto tempo che non andavamo insieme a teatro, e mi ricordo di aver pensato che sarebbe stato perfetto come film. Non assomigliava a niente di quello che avevo visto fino a quel momento. Ed ero convinto che un giorno qualcuno avrebbe girato un film di Wicked e che sarebbe stato incredibile. La cosa che non potevo sapere è che sarei stato io ad avere questo compito.

Come ti sei sentito quando finalmente sei riuscito a girarlo? Ci sono voluti circa venti anni.
Sì, confermo: venti anni. È il film che ho sempre desiderato fare, fin dal primo momento in cui ho cominciato a studiare cinema. All’inizio nessuno rispondeva alle mie telefonate. Quando invece sono stato contattato per girare Wicked, è stato uno dei momenti più belli e importanti della mia vita. Avevo paura? Assolutamente sì. E l’idea di dividerlo in due film, perché è una storia così grande, mi ha caricato di un peso non indifferente. Mi ricordo, però, il primo giorno sul set. Ero con Alice Brooks, la nostra direttrice della fotografia, con cui tra l’altro sono andato al college e ho fatto il mio primo cortometraggio musical nel 2003. Mi ricordo che ci stavamo guardando intorno e che a un certo punto ci siamo abbracciati.

Che cosa vi siete detti?
Non riuscivamo a credere alla grande opportunità che ci era stata data: l’opportunità di raccontare una storia del genere, con canzoni e mezzi importanti. Eravamo davanti alla strada di mattoni gialli, ed eravamo emozionatissimi.

Hai provato la stessa emozione tutti i giorni?
In un certo senso sì. Abbiamo girato entrambi i film contemporaneamente, per mesi e mesi interi. Sono stato in Inghilterra, con la mia famiglia, per più di un anno e mezzo. E ogni giorno è sembrato un regalo, e abbiamo provato a viverlo esattamente così. Con gratitudine.

Da piccolo, con i tuoi genitori, andavi spesso a teatro. In che modo questa esperienza ha finito per definirti come regista?
Ci andavamo quasi ogni fine settimana. E vedevamo di tutto: musical, balletti, opera. I miei genitori, che si sono traferiti negli Stati Uniti da Taiwan, hanno sempre tenuto a questo aspetto della nostra educazione. Io sono l’ultimo di cinque figli. I miei genitori gestiscono un ristorante cinese. Volevano per noi una cultura e una conoscenza delle arti capaci di farci sentire a nostro agio negli Stati Uniti e nel resto mondo. Insomma, il teatro è sempre stato importantissimo per noi. E non frequentavamo solo quello: andavamo molto anche al cinema. A casa la tv era sempre accesa. Io e mia sorella ci chiamiamo Jonathan e Jennifer proprio per uno show televisivo, Hart to Hart. E se io mi faccio chiamare Jon M. è per un film che ho visto, Ribalta di gloria, in cui il protagonista principale si chiama George Michael Cohan: George M. Visto che ho un secondo nome, Murray, sono diventato Jon M.

Qual è la cosa che cinema e teatro hanno in comune? E qual è la cosa, invece, che li rende così diversi tra di loro?
Credo che la cosa che condividono sia lo spazio che noi spettatori finiamo per riempire. Quella dimensione al buio, in cui decidiamo di andare ritagliandoci del tempo per vivere una nuova esperienza e per dimenticarci, per un momento, delle nostre preoccupazioni. E possiamo decidere di andare in questa dimensione da soli, con la nostra famiglia o con i nostri amici. Non importa. Al cinema e in teatro smettiamo di sopravvivere, di muoverci a fatica tra i nostri problemi; al cinema e in teatro possiamo vivere esperienze diverse. Se giriamo film o lavoriamo a degli spettacoli, è per questo. Per dare modo alle persone di mettersi nei panni degli altri, anche se solo per un paio di ore. Alla fine è l’empatia ciò che ci contraddistingue come esseri umani. Quando ero bambino, grazie al cinema e al teatro, ho potuto vivere le esperienze di adulti. Crescendo, ho finito per imparare tante altre lezioni. Se il teatro è molto legato a un luogo specifico, il cinema ha la capacità di raggiungere spettatori in tutto il mondo. E poi, ovviamente, sono estremamente diversi i processi di creazione, dalla scrittura alla regia. L’intimità che si prova al cinema è profondamente differente dall’intimità che si prova in teatro.

Pensi che in un certo modo il cinema provi a raggiungere la profondità e la potenza primordiale della musica?
Sono chiaramente molto diversi come linguaggi. Ascoltare una canzone, a volte, può sembrare un’esperienza quasi passiva. E questo perché segue un’unica direzione: la musiva viene verso di te, mentre la ascolti; difficilmente va nella direzione opposta ed è sostenuta da altre cose che non siano il suono. Nella musica, investi tantissimo di te stesso. Costantemente. E le canzoni, così, finiscono per diventare una parte di quello che sei. Raggiungono un’intimità maggiore rispetto all’intimità del cinema di cui parlavo prima. Quando vedi un film, ci sono due input. Ci sono le parole che senti, con la musica e i suoni, e ci sono le immagini che vedi. Quindi la tua esperienza è più profonda, più intensa. Musica e film puntano a obiettivi diversi. E questi obiettivi possono coincidere nei musical. Ma non è sempre detto: anche un musical deve essere fatto come si deve per ottenere determinati risultati. Devi rispettare tanto il linguaggio del cinema quanto la musica. E a volte anche quello della danza.

Qual è il primo ricordo che ti viene in mente se pensi al set di Wicked?
Mi ricordo quando stavamo girando nel dormitorio. Il set era enorme. Siamo stati tra i primi, credo, a lavorare negli Sky Studios Elstree di Londra. Ci siamo rimasti per almeno nove mesi. Quando ho visto Cynthia (Erivo, ndr), truccata e con il costume di Elphaba, sono rimasto senza parole. Era perfetta. E quando è arrivata Aria (Ariana Grande, ndr) negli abiti di scena di Glinda, ci siamo abbracciati. Prima dell’inizio delle riprese, abbiamo pregato. Mi sono rivolto agli dei della creatività. Anche se era la prima volta, o comunque una delle prime volte, in cui eravamo tutti insieme e anche se stavamo appena cominciando a conoscerci, ci siamo stretti gli uni agli altri, mano nella mano. Ho amato quel momento. L’ho amato profondamente.

Quale credi che sia il vero tema di Wicked? Perché alle persone piace così tanto?
Innanzitutto, per la musica e per l’ambientazione. Oz è un luogo che appartiene all’immaginario di tante persone, a prescindere dalla loro età. Alla fine, credo che quella di Wicked sia una storia di amicizia. Ci sono moltissimi film sull’amore, con matrimoni, litigi e incontri. Ma veramente pochi sull’amicizia. L’amicizia è una cosa che cambia, che assume forme e intensità diverse, che a volte va via. Devi combattere per l’amicizia, non puoi darla per scontata. Nell’amicizia che noi raccontiamo, ci sono due persone completamente differenti l’una dall’altra e che proprio per la loro diversità si ritrovano e si avvicinano. Non sappiamo come esprimere in modo chiaro quello che proviamo per l’amicizia. Wicked prova a fare esattamente questo.

Senti un qualche tipo di responsabilità quando giri un film? In questo caso, per esempio, parliamo di una storia molto amata.
Mi sento sia privilegiato che fortunato. Non molte persone, nel cinema, hanno avuto una possibilità come la mia, di poter raccontare una storia come quella di Wicked in questo modo e con questi mezzi. Quindi sì, sento anche una responsabilità. Soprattutto se diamo un’occhiata al mondo in cui viviamo: un mondo dove tutti urlano, dove non sembrano esserci né calma né sintonia e dove si respira spesso un’aria negativa o assolutamente pessimistica. Ogni volta che giro un film, mi faccio sempre la stessa domanda: che cosa voglio creare e far vedere al mondo? Non credo che il mio obiettivo sia quello di rendere gli altri felici; non credo che possa dipendere solo da me. Credo, però, di dover essere quanto più onesto possibile. Ecco, questo è importante. Trovare la sincerità in film come Wicked è veramente difficile. Sarebbe facile, molto facile, concentrarsi unicamente sull’intrattenimento. Ma riuscire a fare più cose nello stesso tempo, intrattenere e rimanere onesti, provando a mostrare la verità di un rapporto di amicizia, è quello che mi interessava. In questo modo, al pubblico vengono date due possibilità: allontanarsi per un paio di ore dalla propria vita e poter comunque riflettere su temi attualissimi, rivedendosi nei personaggi e sentendosi visti. Ho cinque figli, la più grande ha otto anni e la più piccola dieci mesi. Come padre sento di dover girare film per raccontare il mondo e mostrarlo ai miei figli. Senza cercare di nasconderne le contraddizioni, ma dando spazio alla sua complessità.

L’arte può essere politica?
Assolutamente sì. Molte delle canzoni e dei film più belli sono politici. O forse, non sono nemmeno politici. Forse è più corretto dire che riescono a fotografare perfettamente il tempo in cui sono ambientati e in cui sono stati girati o scritti. Anche Singin’ in the rain, se ci pensiamo, lo fa. Insomma, si tratta di essere nuovamente onesti e attenti rispetto a ciò che si vuole raccontare e al mondo in cui una determinata storia si svolge.

Hai detto che tuo padre è il tuo eroe. Perché?
Ho sempre ammirato mio padre, e l’ho sempre ammirato quando, da piccolo, lo vedevo impegnarsi e lavorare fino a tardi nel retro del ristorante. Mio padre ha sempre disegnato quello che voleva preparare prima di prepararlo. Ha sempre tenuto al suo lavoro e alla sua cucina e alle cose che cucinava. Mio padre è stato una sorta di guerriero per me: si muoveva velocemente mentre tagliava le verdure o puliva il pesce; e poi si confrontava con le fiamme dei fornelli, e intorno a lui c’erano questi colori incredibili. La passione di mio padre è sempre stata la cosa che mi ha colpito di più. Questa fede assoluta, incrollabile, in ciò che faceva e fa. Tutto l’impegno che metteva in cucina non lo metteva per gli altri, per far vedere quanto fosse bravo; si impegnava innanzitutto per sé stesso. Oggi ha 82 anni e va al ristorante ogni giorno. Vedere qualcuno con una determinazione del genere è stata una grande fonte di ispirazione per me.

Che cosa ricordi del tuo primo incontro con Steven Spielberg?
Mi ero appena laureato e avevo fatto un cortometraggio. Una notte mi ha chiamato il mio agente per dirmi che forse, da quello che aveva saputo, Steven Spielberg lo aveva visto. Ma era un rumor, niente di sicuro: me l’ha ripetuto diverse volte. Poi, quello stesso weekend, mi ha richiamato per dirmi che Steven mi voleva vedere. Così, il lunedì successivo, sono andato negli studi della DreamWorks, oggi della Amblin, e mi sono presentato all’ingresso dicendo di avere un appuntamento con Steven Spielberg. Una cosa che mi sembrava abbastanza surreale. Anche perché, fino a quel momento, venivo sempre mandato via o scambiato per un corriere. Mi ricordo che fuori dall’ufficio di Spielberg, all’esterno, c’era una scultura enorme de Lo Squalo. Quando l’ho incontrato, mi sono sentito come se stessi incontrando Disney o Chaplin. Mi ha riempito di domande e mi ha trattato immediatamente da pari. Siamo finiti a parlare di inquadrature. È stato incredibile e sì, ha cambiato ogni cosa. Perché ho capito che anche persone come Spielberg possono essere gentili e disponibili e mostrare costantemente la loro passione.

Quanto è stato importante per te poter lavorare a Wicked?
Wicked ha completamente stravolto la mia vita. E all’inizio, quando sono stato contattato per dirigerlo, non sospettavo minimamente il tipo di impatto che avrebbe avuto su di me. Non fai mai un film da solo, lo fai con centinaia di persone. In questo caso, con migliaia di persone. Abbiamo cominciato a lavorare a Wicked quando il cinema sembrava essere in una crisi profonda, e abbiamo avuto la possibilità di esplorare un universo amato come quello di Oz. Ci è stato permesso di dividere questa storia in due film, proprio per raccontarla nel migliore dei modi. E poi Wicked ha segnato l’esordio di Aria (Ariana Grande, ndr) come protagonista in un film. E poter lavorare con lei e con Cynthia, potersi fidare di loro, promettendo ad alta voce di essere pronto a tutto, è stato incredibile. Pensa alla dimensione del set: ai costumi, alle scenografie e alle parrucche. Stavamo costruendo Disneyland, praticamente. Sapere che gli spettatori che hanno visto il film lo hanno amato ci ha dato una sicurezza ulteriore. Il punto non è né il viaggio né la meta; il punto è la persona che diventi durante il viaggio. E grazie a Wicked, oggi, siamo persone diverse.

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