Anche Wes Anderson vuole mangiare i ricchi

Dopo la prima al Festival di Cannes, abbiamo incontrato il regista a Milano per parlare con lui del suo nuovo film, La trama fenicia, appena uscito nelle sale italiane.

29 Maggio 2025

Wes Anderson odia essere frainteso e quindi odia il modo in cui si sta parlando della Trama fenicia. Il suo primo film politico, lo hanno definito. Zsa Zsa Korda (il protagonista della storia, interpretato da Benicio del Toro) è evidentemente una caricatura di Elon Musk, hanno detto: un uomo ricchissimo e spietatissimo, ossessionato da un progetto – la trama fenicia, appunto – di cui nessuno capisce davvero il senso a parte a lui e che lui realizzerà nonostante i sabotaggi dei business partner e i tentati omicidi dei governi di tutto il mondo. Per realizzarlo Zsa Zsa ha bisogno di un Paese intero (la Fenicia, nome di fantasia con il quale nella geografia del film si identifica l’equivalente più o meno esatto del Libano), proprio come Musk ha bisogno di tutti gli Stati Uniti, e poi della Terra intera e infine anche di Marte e del resto del Sistema solare per realizzare il suo, di progetto, qualsiasi esso sia.

Ad Anderson questa lettura del film non piace affatto, non perché sia sbagliata ma perché è parziale: la Trama fenicia non è il suo primo film politico, mi spiega. E come tutte le persone che odiano essere fraintese, ha pronta una spiegazione esaustiva. Grand Budapest Hotel era un film politico, mi dice: c’erano i nazisti e si discuteva di autoritarismo, era un film che parlava praticamente solo di questo. E poi c’è il film che tra i suoi lui ritiene il più politico di tutti: L’isola dei cani. Quel film parlava di Donald Trump, mi spiega. «Purtroppo, l’unica che lo ha capito subito è Yoko Ono [che nel film interpreta Yoko Ono, nda]», mi dice.

Sulla Croisette

Fraintendimenti a parte, Anderson si dice contento del suo ultimo film, abbastanza da aver già smesso di pensarci. Mi racconta che mai come quest’anno si è goduto il Festival di Cannes: la prima del film è andata bene, ma soprattutto «non ho mai avuto nessuna speranza di vincere. Nessuno mi si è avvicinato per dirmi “Wes, gira voce che questo è il tuo anno”. Di solito, con i festival funziona così, se vincerai un premio non dico che lo sai in anticipo ma certamente lo capisci in anticipo».

Non sembra affatto dispiaciuto per la Palma d’oro mancata, anzi. Nonostante non abbia più tempo di godersi davvero un festival – «Quando avevo vent’anni e vivevo ancora a New York andavo a tutti i festival che c’erano, guardavo anche quattro o cinque film al giorno» – si diverte comunque a partecipare. Gli piacciono le prime, osservare le reazioni del pubblico durante la proiezione, meno le standing ovation e i discorsi che vengono dopo. Mi racconta che uno dei più bei ricordi festivalieri che ha è la prima dell’Isola dei cani alla Berlinale del 2018. «Perché alla fine del film non applaudì quasi nessuno. I miei collaboratori erano preoccupatissimi, dicevano che i tedeschi avevano odiato il film. Io continuavo a dire “ma che motivo c’è di disperarsi così? Senza applausi ci possiamo godere davvero questo momento, in questo bel silenzio”».

La trama fenicia i suoi applausi a Cannes li ha presi, in realtà. Le recensioni sono state positive, le premesse per il film (che è uscito il 28 maggio anche nelle sale italiane) sono buone. Non che Anderson non si preoccupi di come andrà il film in sala o di quello che ne scriveranno i critici, ma è chiaro che ormai è abbastanza sicuro di sé, abbastanza abituato al suo mestiere da sapere che a questo punto il film non appartiene più a lui. «Quello che conta, a questo punto della mia carriera, è riuscire a fare il film che voglio con le persone che voglio. Da giovane vivevo la disperazione che vivono tutti i registi all’esordio, questa convinzione che un film vada fatto, che ne va del tuo futuro e della tua vita. Adesso è diverso, faccio i film che voglio perché voglio, con persone che conosco e di cui mi fido. Alla fine, è questa la definizione di successo che mi sono dato». La mia è potersi permettere di avere sul set un Renoir originale, invece.

Non avrebbe mai pensato, mi racconta, che il successo un giorno gli avrebbe permesso di girare un film assieme a sua figlia Freya, che ha nove anni, e che a dargli una mano a tenerla d’occhio sul set ci sarebbe stato il padrino della bambina, Bill Murray. «Lei all’inizio voleva essere uno dei protagonisti del film. Ha letto tutta la sceneggiatura, aveva le sue opinioni a riguardo, si era scelta la sua parte. Io per un secondo ci ho pure pensato a dargliela, la parte, poi mi sono detto che se c’è una cosa che non voglio per mia figlia è metterla sotto i riflettori a nove anni». Freya, però, alla fine è riuscita comunque a convincerlo a darle una particina: nelle sequenze oniriche, in parti uguali Buñuel e Powell, in cui Zsa Zsa subisce nell’Aldilà il processo che non ha mai subìto in vita, incontra diversi angioletti, uno dei quali è proprio Freya. Incontra anche Dio, cioè il padrino di Freya, cioè Bill Murray.

Il bus più pazzo del mondo

Breve digressione, stucchevole ma inevitabile, su Murray. Per quanto il rapporto tra attore e regista possa sembrare parte di una comedy routine, di una performance artistica (e in parte lo è, senza dubbio), l’amicizia tra i due esiste davvero ed è veramente peculiare, a detta dello stesso Anderson. Mi racconta che Murray ha deciso di viaggiare assieme a lui, Richard Aoyade e Roman Coppola (co-sceneggiatori del film) sul bus che stanno usando per tutti gli spostamenti lunghi e medi: da Cannes a Milano ci sono arrivati in bus, da Milano a Berlino ci sarebbero andati in bus. Cosa ci faccia Murray su questo bus non lo sa spiegare nemmeno Anderson. «La maggior parte del tempo non dice niente, se ne sta per i fatti suoi. Certe volte, mentre noi scriviamo, si avvicina, legge un rigo a caso e fa un commento a caso sapendo che noi passeremo le ore successive a provare a dare un senso a quello che ha detto». Aggiungo una brevissima nota personale, per spiegare quanto, appunto, peculiare sia la presenza di Murray: quando sono arrivato all’hotel nel quale Anderson alloggiava e presso il quale si è tenuta questa intervista, di fronte all’ingresso dell’albergo c’era parcheggiato l’ormai famoso bus della Trama fenicia. A fare la guardia al bus c’era un signore altissimo e scapigliatissimo che troppo tardi mi sono reso conto essere Bill Murray. Me ne sono reso conto quando un altro signore, munito di macchina fotografica quasi professionale, si è avvicinato al bus, che in quel momento aveva le portiere aperte, evidentemente in attesa di passeggeri. Murray ha pensato che il signore fosse un paparazzo e gli si è parato contro con fare abbastanza minaccioso. Quello si è scusato forse un milione di volte e poi un miliardo di volte ha implorato Murray di farsi una foto con lui. Alla fine Murray, convinto della sincerità delle scuse, ha accettato ma quello, per sicurezza, la foto l’ha fatta col telefono e non con la macchina fotografica quasi professionale.

Una saga familiare

Tornando al film: la famiglia è uno dei temi principali della Trama fenicia, che alla fine altro non è che la storia di un pessimo padre che cerca di riconciliarsi con la figlia che ha sempre evitato di conoscere (Liesl, interpretata da Mia Threapleton). È un film sulla famiglia ispirato dalla famiglia. C’ Freya, la figlia di Anderson, ma c’è anche Juman Malouf, sua moglie, e soprattutto il padre di lei, il suocero di Anderson, Fouad Malouf, ingegnere libanese che la leggenda vuole abbia preso parte a quasi tutti i cantieri avviati in Medio Oriente nella seconda metà del ‘900. Zsa Zsa è in parte basato su di lui (e su Aristotle Onassis, Carlo Ponti, Árpád Plesch, Calouste Gulbenkian), come Anderson ha raccontato in diverse interviste.

C’è una scena del film in cui Zsa Zsa espone il suo folle piano, nome in codice la trama fenicia, mostrando a Leisl una sequenza di scatole di scarpe, chiuse ed etichettate, ognuna contenente i dettagli indispensabili alla realizzazione di una parte del piano. Questa scena viene da un fatto realmente accaduto, da un aneddoto familiare. Anderson lo ha raccontato in diverse interviste, come detto, ma in questa mi confessa che sua moglie si è arrabbiata per questa sua indiscrezione. «Ha ragione lei e io mi sento in colpa, per me è stato un momento talmente narrativo che non riuscivo a non raccontarlo, non ho pensato che si trattasse di un fatto personale, familiare, intimo».

Vista l’arrabbiatura della moglie, Anderson non vuole fare altri danni e quindi si rifiuta di dire qualsiasi altra cosa su Fouad, se non che «era un uomo che tutti mi dicevano mi avrebbe fatto paura, era come se tutti mi volessero preparare ad avere timore di lui. Io gli ho voluto un gran bene e mi è sempre piaciuto molto, forse perché a me piacciono gli uomini così, che emanano quell’aura lì, che possiedono quella “presenza” particolare». Per farsi perdonare del mancato aneddoto su Fouad, mi rivela che c’è un’altra scena del film basata su un fatto realmente accaduto: «Hai presente quella in cui uno dei figli di Zsa Zsa [ne ha una dozzina, tra naturali e adottivi, nda] prova colpirlo con una freccia? Ecco, è una cosa che mi è successa davvero». Chi ha provato a colpire Wes Anderson con una freccia? «Mia figlia. A sua discolpa, l’ho sfidata io. E la freccia aveva una ventosa al posto della punta, quindi non voleva uccidermi».

Eat the rich

Se proprio deve scegliere un aggettivo per descrivere La trama fenicia, Anderson sceglie “contemporaneo”. Perché è un film che tratta due dei temi fondamentali di questa epoca. Il primo è la ricerca dell’identità: Zsa Zsa è un miliardario che vuole diventare padre, Liesl è una suora che vuole avere una famiglia, Bjorn, l’agente segreto interpretato da Michael Cera, ha due identità tra le quali non riesce a scegliere. L’altro tema è l’eccesso di potere. È vero che Zsa Zsa non è una caricatura di Musk, ma è vero anche che potrebbe essere la caricatura di qualsiasi uomo troppo ricco e troppo potente mai esistito nella storia dell’umanità. D’altronde, Anderson è convinto che tutta l’importanza che diamo al modo in cui la cultura contemporanea racconta i ricchi è malriposta, perché dei ricchi parliamo in continuazione da 200 anni almeno.

«La mia è una scrittura molto rivolta al passato. Nel senso che sono una di quelle persone che inizia a scrivere dopo aver passato un periodo di tempo discretamente lungo a leggere, leggere soltanto. Leggo la mia parte di vecchi libri [adesso sta leggendo tutto Le Carré e l’autobiografia di Graydon Carter, in vista del prossimo film che definisce con l’aggettivo “hitchcockiano”, nda] e, preparandomi a scrivere La trama fenicia, mi sono reso conto che, davvero, parliamo da sempre, in continuazione dei ricchi. La cosa interessante per me, però, non è capire perché continuiamo a farci la stessa domanda, su questo tema di ricchezza e potere, ma perché continuiamo a ripetere la stessa risposta». Ora, io non so se questa sia la risposta di Wes Anderson alla domanda “cosa facciamo con i ricchi”, ma alla fine della Trama fenicia, Zsa Zsa Korda, l’uomo più ricco del mondo, diventa povero (e felice).

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