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Mamma, ho preso l’aereo

Come ogni estate ha preso piede sui social la glorificazione dei propri figli come grandi viaggiatori, ennesima dimostrazione della mitomania genitoriale.

di Arianna Giorgia Bonazzi

Foto di Ina Fassbender/AFP via Getty Images)

«Almeno una volta all’anno, vai dove non sei stato prima», dice un tweet che cita il Dalai Lama, sotto alla foto di una famigliola abbronzata su un fondale alpino. Il viaggio – dicono gli status da tre mesi a questa parte – è l’occasione per conoscere meglio se stessi e i propri bambini. Anch’io ultimamente ho viaggiato e fotografato figli a mollo e in cammino. E, notando l’abuso dei termini “magia” e “scoperta” nei reportage esaltati degli amici, mi è parso chiaro che tendiamo a attribuire ai bambini il senso emotivo che diamo noi alla vacanza, per giustificarne lo spreco e mascherarne l’egoismo.

Il genere di entusiasmo di questi racconti social è parente del dover sempre dimostrare, chissà poi perché, che si sa mangiar bene e andare nei posti giusti. Gli intenditori di food e posticini, ad agosto, fotografano i loro mowgli marini su spiagge svuotate per loro, applicando tutti lo stesso filtro di cieli extraterrestri, e buttando lì frasi dense di “vento” e “bellezza” che sembrano composte da un generatore automatico di pensierini estivi. Insinuare che i bambini siano esseri stanziali, lo so, fa schizzare sulla sedia i backpackers, gli host e gli influencer di viaggio che “mollano tutto” e partono coi bebè nello zaino e “pochi risparmi.” Due couchsurfer che mi ospitarono anni fa in Armenia, sistemandomi a dormire accanto alla gabbia di un pitone, avevano un bambino malato di cuore, e un album con le foto di tutti gli ospedali – da Dubai all’Australia – dove il figlio si era fatto controllare durante i viaggi. Scoprendo che viaggiavo senza i figli, si indignarono. Trovavano ingiusto escluderli dal piacere di bere ayran rancido e di dormire per terra accanto al loro pitone.

La gente fissata col viaggio come rito e mito tende a raccontarsi che ne vale la pena: che il bagno di sangue di quel volo intercontinentale un giorno si trasformerà per i ragazzi in “rispetto e sensibilità verso le altre culture” (sebbene queste siano notoriamente stuprate dal turismo di massa). Trovo più onesto confessare che nonostante la crisi energetica, quella ambientale, la pandemia e soprattutto i nostri figli, vogliamo continuare a scorrazzare con l’ingenuità di studentelli Erasmus, a costo di giocare a Uno e cambiare pannolini mentre gli altri scalano i vulcani.

Più ancora delle immagini di bambini in viaggio contraffatte e condivise, è il linguaggio scelto per commentarle che suona fasullo. Espressioni come “gioire delle cose piccole” e “guardare il mondo con gli occhi di un bambino” fanno parte di un codice omologato, a metà tra l’auto-narrazione social e il turismo esperienziale, che dopo aver reso uguali i luoghi, rende uguale il loro racconto, funzionando come una specie di filtro linguistico: quel maledetto filtro a nuvoloni che fa sembrare il lago di Ginevra uguale al Baltico e allo Ionio, e tutte le famiglie con bambini in vacanza uguali e ugualmente piene di stupore e bei ricordi.

La verità poco presentabile è che gioire delle cose piccole, in questi frangenti, è trovare un cono Algida nell’acropoli, e guardare il mondo con gli occhi del bambino significa guardare gli adulti che si ubriacano al bar dallo scivolo del parco giochi. Ma per qualche ragione, ci è più facile credere alla verità che parla la lingua infame e moralista delle buone emozioni e degli status. Anche i più scafati cedono alla vanità di condividere il privato geolocalizzando la prole, e c’è chi addirittura elegge il viaggio a “colonna vertebrale” dello stare in famiglia. Non proprio dio, patria e famiglia. Ma almeno io, spiaggia e famiglia.

Sia chiaro. L’idea dei bambini come creature curiose del mondo, alla base di tanta letteratura per ragazzi, non è solo retorica. Peccato che la curiosità dei bambini, almeno i più piccoli, non si lasci comandare a bacchetta, come la nostra, dalle leggi della Lonely Planet. Il loro stupore è rivolto piuttosto ai rametti, all’acqua che gorgoglia nei tubi e alle macchine che raccolgono la spazzatura; e per il resto, ha bisogno di essere rassicurato dal turbinio dei motori degli aerei per Ibiza e, soprattutto, dalla cosa più temibile: il sottile senso di inquietudine che, in estate, spinge i loro genitori a cercare qualcosa d’altro.

Mentre forzo il figlio minore a venirmi dietro nella mia smania di conquista di siti Unesco, e lui si accascia in ogni angolino, mi struggo perché, con le lacrime agli occhi, domanda: domani dove saremo? Dormiremo ancora sul cuscino di ieri? Hai trovato una pasta al sugo per me? Quanto manca alla nostra vera casa? Col groppo in gola, scorro le stories degli altri, piene di figli che imparano a esplorare il mondo, fanno tesoro di ogni attimo e non vogliono mai tornare. Mio figlio intanto, indifferente al paradiso naturale dove l’ho trascinato, sta dicendo: quando torniamo a LIGNANO SABBIADORO? Giuro che non partirò mai più. Solo che poi mi vengono in mente gli steineriani. Gli steineriani pensano che i bambini non siano tagliati per il viaggio perché «il loro corpo astrale arriva a destinazione molto dopo di quello fisico». Non fosse che per dar contro agli steineriani, finché si può, toccherà continuare a ammazzarsi di magoni e miglia aeree. Forse, saranno proprio le rovine digitali dei nostri megalomani profili a ricordare ai figli i momenti indimenticabili che avranno sicuramente dimenticato.