I movimenti che vogliono rovinare il matrimonio di mr. Amazon non ce l'hanno solo, né tanto, con lui: il problema è ciò che Bezos rappresenta e il fatto che abbia deciso di venire a rappresentarlo proprio a Venezia.
Questo articolo è tratto dal nuovo numero di Rivista Studio, intitolato “Gran Turismo”. Lo trovate in edicola, nelle librerie selezionate oppure, più semplicemente, sul nostro store online.
Camminando a Venezia ci si rende conto che ne esistono almeno due di città. Una è quella sulle locandine dei quotidiani, l’altra è quella la cui anima si trasla negli oggetti in vendita a pochi euro. Feticci, cioè souvenir, che permettono all’uomo di passaggio di portare un simulacro del suo viaggio-status symbol in patria, per farlo morire in una taverna di una casa prefabbricata in un sobborgo di Chicago o di Francoforte o di Astana o di Varese. Spoglie made in China da portare a una zia, a un collega da far ingelosire, agli amici che per qualche motivo collezionano calamite da frigo (trasformandolo in una inconsapevole tavola warburghiana, uno sportello-Mnemosyne che contiene maionese scaduta e Peroni).
Queste due Venezia, quella delle locandine e quelle dell’oggetto-ricordo esistono entrambe, come uno yin e yang, ed esistono nello stesso luogo: l’edicola morente, vestigia di un passato della carta, che per non bruciare deve mutare e piano piano togliere sempre di più lo spazio per le copie dei quotidiani, dei Dylan Dog e della Settimana Enigmistica, e aumentare invece quello dedicato a pile di cappellini di paglia con orecchie da cane, di calendari dei gondolieri (su modello dei preti sexy romani) e di peluche di Pikachu taroccati, o bottigliette d’acqua a un euro e cinquanta.
Gli strilli, soprattutto del Gazzettino o del Corriere del Veneto, cioè i quotidiani locali, sono l’antica forma di autarchico clickbaiting. Hanno spesso a che vedere con il turismo, ma è una comunicazione agli abitanti, ai veneziani. Appaiono questi fogli di carta con lettering aggressivo e definitivo appesi nello stesso luogo in cui si smerciano quei manufatti che un veneziano, un abitante vero della città, non comprerebbe mai (se non forse – come si dice nella internet culture – per i lol). Di recente una gondola si è ribaltata. La locandina del Gazzettino diceva: «Rialto, torna la paura, si rovescia una gondola, tutti in canale».
Gli strilli hanno, come ormai l’informazione in Italia, molto focus sulla cronaca. Persone morte, furti, «Nuovo codice, alcol vietato sui barchini». I titoli sono misteriosi – appunto, clickbaiting – come il disegno di un vecchio Giallo Mondadori. «Fuga di ammoniaca, evacuati». «Borseggiatori in azione, lite sul ponte di Rialto». «L’incidente e 10 anni di agonia, muore l’ex atleta». Questi gli strilli di tre locandine lo stesso giorno. Il giorno prima: «Attacco hacker, colpita una decina di hotel», «Prima udienza del processo a Brugnaro», «Marinaio di Actv preso a schiaffi da una passeggera». Quando si saluta un morto locale, soprattutto se giovane, soprattutto se frutto di una tragedia, si chiama per nome. Lucia, Andrea, Marco. Si contano le persone presenti all’addio in chiesa. Quando i processi sui casi celebri di femminicidio toccano la provincia, diventano materiale da strillo.
Tutto è iperspecifico. Tutto è estremamente privato, come se la città fosse un clan, una tribù, una setta, una cellula carbonara. Accanto, nel chioschetto, la città è un’altra. Lontanissima, anzi, opposta alla sua dimensione di quotidianità e di specificità. È generale ed eterna. La Venezia rappresentata – lo vediamo passando in rassegna i display di infiniti portachiavi nei negozietti con illuminazione da ospedale – è quella delle maschere, del ponte di Rialto, della gondola. Se fosse esistita la plastica nel 1700 le icone non sarebbero state così diverse. Le variazioni sul tema sono infinite, e se molti non fossero manufatti impolverati lì da qualche anno, si penserebbe alla mente di un AI generativa. Il kitsch incontra il template.
Uno degli oggetti più sintomatici della stupidità umana e della Venezia finta e internazionale, luogo mitologico da sindrome giapponese, è il portachiavi o calamita con la Vespa. A Venezia, centro storico in cui non si circola su ruota (solo le ruotine fastidiose dei trolley che rovinano il suono eterno dei passi sulla pietra), si vende il souvenir di una Vespa con dietro i cartelli con scritto Rialto, San Marco. Una sagoma riutilizzabile da Trieste in giù per venditori di patacche che, usandola anche per Venezia la trasformano, inconsciamente, in un luogo diverso, dove si può andare col cinquantino come fossero i colli bolognesi.
Nella Vespa souvenir da San Marco si realizza simbolicamente quello che lo studioso Giacomo Maria Salerno chiama colonialismo interno nel suo libro Per una critica dell’economia turistica (Quodlibet). Sulle tote bag in vendita nelle quasi ex-edicole (che qui riprendono inconsciamente anche l’etimologia originaria religiosa di tempietto aedicŭla diminutivo di aedes, cioè tempio) c’è l’ultima cena di Leonardo con gli spritz arancioni – lo spritz turistico è solo con l’Aperol – o lo zoom sulle mani di Dio e di Adamo della Cappella Sistina che fanno cin cin. Giorgio Agamben dice che Venezia ormai è un fantasma, il tempo «si è concepito come poststorico e postmoderno, senza sospettare di consegnarsi così necessariamente a una vita postuma e spettrale». Vicino magliette col Padrino e con la Gioconda che fa un dab. Sui pali gli adesivi, forma artistica anarchica e analogica, dicono, con l’emoji di una cacca: «Tourists are killing Venice, yes, you too».
Fotografie di Sam Khoury dal numero 63 di Rivista Studio, in edicola e nel nostro store.

I movimenti che vogliono rovinare il matrimonio di mr. Amazon non ce l'hanno solo, né tanto, con lui: il problema è ciò che Bezos rappresenta e il fatto che abbia deciso di venire a rappresentarlo proprio a Venezia.