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Memorie di un millennial italiano in vacanza studio in Inghilterra

Andare in Inghilterra per "imparare l'inglese" è stato un rito d'iniziazione per una generazione intera: il primo viaggio all'estero, tra imbarazzanti cene con famiglie inglesi, campus pieni d'italiani e gite a Camden Town per comprare T-shirt e mangiare streetfood.

di Giulio Silvano

“Senza l’inglese non si va da nessuna parte” è stato il mantra interclasse che ha portato i genitori boomer a spedirci in Inghilterra durante le estati dei primi 2000, per due, tre, quattro settimane. Iniziava l’era del volo low cost e dello stage non più pronunciato alla francese. Se si voleva contare qualcosa nel mondo del lavoro – che ancora sembrava lontano lontano per noi tredicenni – si doveva parlare la lingua dei Bill Gates e delle Lady D. Quello che prima era un privilegio della borghesia, diventava un must per tutti. Grazie RyanAir.

“Bisogna andare in famiglia, non nei college, così si impara di più, perché si è costretti a parlarlo”, era la regola per chi faceva sul serio, per una vera esperienza immersiva. E si arrivava col pullman in questi parcheggi dei Tesco e una madre o un padre venivano a prenderti con la macchina e ti portavano a casa loro e ti facevano domande di cui capivi solo qualche parola e ti davano qualcosina da mangiare, alle quattro del pomeriggio, e poi aspettavi la cena e ti rendevi conto che quel pane tostato con i fagioli era la cena. Alle 7 i genitori ospitanti – che poi venivano pagati – si mettevano con del rosé portoghese, preso da una scatola, sui divani in finta pelle reclinabili a guardare i quiz show.

Un anno capitai in una casa con la facciata colorata di azzurro – erano grandissimi tifosi del Queens Park Rangers – e condividevo la stanza con un ragazzino fissato col wrestling, dormendo in un letto con le lenzuola della Wwe. Sulla federa avevo le facce di Rey Mysterio e Kurt Angle. Un altro anno dormivo su un materassino, sul parquet scricchiolante, vicino a uno di Valencia, anche lui spedito lì perché la lingua di Shakespeare era considerata più importante di quella di Cervantes. Lo spagnolo, arrivando due ore prima di me, aveva vinto il letto e a me toccava il floor: «It’s actually pretty comfortable». Il padre della famiglia era uno chef arabo, la madre una inglesissima pallidissima che appendeva le bustine di tè sopra il lavandino per poterle riusare, dopo due giorni dal nostro arrivo fecero circoncidere il loro figlio di quattro anni, che urlò per le successive due settimane. Avevano però un libro sul Sahara autografato da Michael Palin, il mio eroe di allora, e questo bastava a creare meraviglia. Oltre a tutti gli elementi da film del mondo anglosassone, che rendevano la mia Liguria così provinciale, gli interni à la Mr. Bean, le uniformi scolastiche, la guida a destra.

“Mando mio figlio a Londra a imparare l’inglese”, che poi non era mai Londra ma si finiva in qualche sobborgo fuori dalla Greater London, come Watford o Darford o Brentwood. A Londra ci si andava in gita, a vedere i musei, ma la gita più attesa era quella a Camden Town, che aveva ancora qualche rimasuglio punk, e si compravano le magliette a 5 sterline dei Nirvana o del Subcomandante Marcos e si mangiava streetfood (che non si chiamava ancora così da noi) thailandese o cinese.

In casa si stava poco, si andava a far lezione in questi campus pieni di kazaki, russi, bulgari, catalani e italiani. Tantissimi italiani. Ed era per quello che non si imparava davvero l’inglese, ma era, come forse lo è il servizio militare in una certa retorica, un modo per incontrare i propri compatrioti di altre regioni e farsi un’idea della propria identità nazionale. Ricordo un siciliano un po’ più grande che si mise a sfogliare il mio porta cd chiedendomi: «Guccini? E cosa fa? Gli occhialini e le cinturine?».

Con i compatrioti si faceva bonding parlando male del cibo servito nelle mense. Non c’era pasto senza un mini pacchetto di patatine all’aceto. Quando servivano la pasta con condimento di lato era un tripudio di superiorità e nation building contro gli isolani mangia-cheddar. “Vi sentite tanto superiori perché vi paghiamo per imparare la vostra lingua, diventata fondamentale per i secoli di imperialismo violento, ma non sapete nemmeno cuocere un piatto di spaghetti”, era l’antifona. Ma tutti diventavamo schiavi di prodotti mai visti, come la Coca Cola alla vaniglia e i Cadbury Cream Egg, una sorta di ovetto Kinder dove la sorpresa era un ripieno di crema troppo dolce, bianca e gialla, che voleva rappresentare colori e consistenza di tuorlo e albume.

L’estate in Inghilterra era forse anche il fallimento della scuola pubblica italiana, delle maestre e prof di inglese con pessime pronunce. Era forse un segnale dell’ormai inevitabile sottomissione a una lingua straniera che avrebbe portato quasi tutte le università della penisola a offrire corsi in inglese. C’era ancora una speranza feel good anni Novanta nell’Unione Europea, in quegli anni in cui a Genova la Gen X e gli ex-sessantottini criticavano la globalizzazione. E non credo che oggi tra i tredicenni ci sia quell’assenza di cinismo di allora, ora che il cheddar si trova anche all’Esselunga.