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Vite che non sono la nostra?

V13 di Emmanuel Carrère è un microscopio sulle vittime e i carnefici del Bataclan. E noi.

Il 13 novembre 2015 è un venerdì, io sono a una festa in casa, a Milano in centro. Ci sono trenta, quaranta persone. La casa è grande, ci stiamo tutti comodamente. Di quella sera ricordo tutto. Che sono giorni caldi, per essere l’ultimo mese di autunno. Che quando ho ricevuto i primi messaggi, dalla chat di redazione di Studio, su quello che stava succedendo in poche vie tutte vicine di Parigi, ho scritto subito un messaggio a Tommaso, un amico che adesso fa lo scrittore e prima faceva anche il cuoco e lavorava in un ristorante in quel quartiere. Ho ancora la conversazione, su Messenger di Facebook. Ore 23:01: «Oh che succede?». Domanda scema, a leggerla oggi, ma allora non tanto. Si parlava di una sala da concerti con degli ostaggi, di alcune sparatorie, poco altro. Tommaso non risponde. «Quando mi leggi scrivimi». Alla fine mi scrive: si trova al ristorante, al sicuro. Hanno tirato giù le serrande, i clienti sono rimasti dentro. «È tutto intorno a dove sono io, stanno prendendo i ristoranti». Poi: «Hanno attaccato il ristorante cambogiano dove sei andato con Vincenzo». Un anno prima, quando ci eravamo conosciuti a Parigi, andavamo a cena insieme al Petit Cambodge. Come tanti, come tutti. Ci hanno ammazzato 13 persone, sparandogli addosso con dei kalashnikov.

Ricordo così nitidamente quel venerdì 13 novembre, perché il 13 novembre è stato l’11 settembre dell’Europa. Non è un paragone che tiene conto della quantità di morti, quindi della portata distruttiva dell’attacco, ma è sgradevole pesare i corpi come si pesano le merci, e fare dei numeri un valore: piuttosto, a renderlo uno spartiacque nella vita di un paio di generazioni è la portata simbolica degli obiettivi. Se gli aerei dirottati da al Qaeda avevano colpito il simbolo del capitalismo statunitense, i ragazzini addestrati dall’Isis hanno tentato di assassinare la libertà dell’Europa: centinaia di ventenni e trentenni impegnati a divertirsi, amarsi, litigare in un normale venerdì sera per le strade della città più famosa del continente.

Il processo chiamato V13, viceversa, non è la Norimberga del terrorismo: perché il 13 novembre 2015, e nei giorni successivi, praticamente tutti i pezzi grossi dell’Isis sono stati uccisi dalla polizia, o si sono fatti saltare in aria da soli. Nessun Göring dell’Isis è andato alla sbarra, e il Göring in questione, la mente di Parigi, rispondeva al nome di Abdelhamid Abaaoud, ammazzato il 14 novembre in un covo a Saint-Denis. Come si scrive, allora, di un processo del genere?

Ci sono diversi modi di guardare un quadro al museo. Nei casi dei quadri grandi, di dimensioni notevoli, con tele larghe anche un paio di metri, si fanno diversi passi indietro, per ammirare il risultato nel suo complesso: avere una visione d’insieme. Ci sono poi quelli che fanno diversi passi avanti, e mettono il naso a pochi centimetri dalla tela: perché in ogni quadro è bello e interessante anche come ci si arriva, a quel risultato complessivo. E quindi ci si concentra sulle pennellate, grandi o piccole, sulla giustapposizione del colore, sui contorni che ci sono o non ci sono, sull’utilizzo del bianco. In un processo si fa questo: si scende nei dettagli. Per uno scrittore come Emmanuel Carrère è perfetto: V13 è un grande libro perché scritto da uno dei migliori scrittori di dettagli del mondo.

I dettagli all’inizio sono cruenti, pulp fino alla nausea, perché le prime settimane del processo sono dedicate alle vittime sopravvissute e alle loro deposizioni. Però sono necessari: è di queste pennellate, d’altronde, che è fatto il quadro complessivo. I dettagli sono gli effetti dei proiettili calibro 7,62mm, incomparabili con quelli dei più comuni 9mm, perché capaci di spappolare ossa, far esplodere crani, slacciare muscoli e articolazioni dai loro posti. Maya, a cui hanno sparato al Carrillon, ricorda: «Cerco di prendermi il polpaccio sinistro per rimetterlo dentro la gamba». Gaëlle, che era nel parterre del Bataclan, racconta: «Ho capito che ero stata ferita quando ho cercato di togliermi dal viso la scarpa di una persona sopra di me. Mi sono accorta che la guancia mi si era staccata e mi pendeva lungo il viso». I dettagli sono i «coriandoli di carne» che si sparpagliano sui corpi aggrovigliati distesi al Bataclan quando Samy Amimour si fa detonare sul palco. Di lui rimangono soltanto la testa e una gamba.

I dettagli sono poi le notti, mese dopo mese, anno dopo anno, in preda alla sindrome da stress post-traumatico con cui praticamente tutti i sopravvissuti convivono. Dicono di avere paura di tutto. C’è, naturalmente, l’irrimediabile senso di colpa per essere sopravvissuti. Alcuni non camminano più. Alcuni non dormono più. Quasi tutti hanno perso il lavoro. Guillaume ogni notte per due anni sente i rantoli degli agonizzanti del Bataclan. Dopo due anni sceglie di non sentirli più, e si impicca.

Si può vedere tutto questo libro come un grande esercizio sull’empatia. Mettere a fuoco i particolari in modo così definito, nelle esistenze delle vittime ma anche in quelle degli imputati, rende ogni vita degna di una riflessione profonda. Ha un effetto straniante, perché più ci si addentra nell’intimità di Mohamed Abrini, Salah Abdeslam, Mohamed Amri e così via, più si vede l’umanità di quelli che pensavamo mostri. E se il pulp delle pagine iniziali sembrava impossibile da dimenticare, invece ci ritroviamo a considerare credibili gli alibi di Amri, Attou e Oulkadi, i tre amici che hanno “esfiltrato” Abdeslam da Parigi a Bruxelles, o quello del falsario Farid Karkhach che ha dato ai terroristi i passaporti serviti a viaggiare tra l’Europa e la Siria per preparare il massacro. E ci troviamo a compatirli, sempre seguendo la via dei dettagli: come succede con l’accusato, in carcere, che racconta alla figlia che papà è diventato un secondino, perché non sa come dirle che è accusato di associazione a delinquere con finalità di terrorismo. Ci incuriosisce Mohamed Amri che il giorno dopo la carneficina si fa un uovo al tegamino. Mohamed Abrini che firma il contratto d’affitto del nuovo appartamento in cui trasferirsi con la fidanzata giusto poche ore prima della strage. Ci chiediamo: ma sono come noi, allora, o no?

Alla fine è questa la funzione di un processo: mostrare i particolari, esaminarli sotto ogni luce possibile, raffreddare i focolai di rabbia ed emancipare il giudizio dal ricatto delle passioni. Il V13, scopriamo, serve poi a creare una coscienza collettiva: Carrère stesso, mese dopo mese, è conquistato dal rituale religioso della ricerca della giustizia. Lo siamo anche noi. Il 13 novembre 2015 è stato un evento cruciale nella breve storia dell’Europa intesa come unione di popoli senza più confini. È stato il più potente e crudele attacco all’identità europea. Non è una frase identitaria: il jihadismo vuole conquistare il mondo, e quella di Parigi è stata una battaglia di una guerra che nell’ottica jihadista sarà lunga secoli. Altre ne seguiranno.

Si dice che ciò che non uccide renda più forti, e se questo motto è falso per i sopravvissuti, tutti incredibilmente più deboli, e per sempre spezzati, è invece vero per il senso collettivo di quello che significa essere europei. Alla fine del processo, avvocati, testimoni, vittime, familiari e anche gli accusati ormai assolti si ritrovano tutti insieme alla Brasserie Les Deux Palais, fuori dal tribunale. «Buffo, no, che tutto finisca fuori da un bistrot?», dice un tizio di passaggio. È perché i bistrot, per ora, stanno vincendo.